Italia-Francia, una storia di pregiudizi reciproci, di Massimo Nava
La crisi nei rapporti bilaterali, anche se si è ricomposta, come sempre ha lasciato l’amaro in bocca per l’effetto devastante delle parole sulle opinioni pubbliche.
Gli aspetti più sconvolgenti della crisi diplomatica con Parigi – grave, ma finalmente ricomposta, pur lasciando, come sempre in passato, l’amaro in bocca dei pregiudizi reciproci – sono l’effetto devastante delle parole sulle opinioni pubbliche e l’abisso che si è creato fra «narrazione» verbale e realtà fattuale. La prima in balia di emozioni, di calcoli politici e della comunicazione online, che è la cifra del nostro tempo, con approssimazioni e velocità incendiarie. La seconda, rimasta per tre giorni orfana di dati oggettivi, di proposte condivise, di ragionamenti pacati, di decisioni concrete, sia pure complicate.
La «narrazione» ha ammantato di polemiche e grossolane reazioni di bandiera una decisione del governo italiano che, al di là di calcoli di bottega e intenti provocatori, ha il merito di avere scosso un’Europa sempre sveglia su questioni di bilancio e sempre assopita quando sono in gioco interessi vitali dei cittadini e questioni da cui dipendono i destini dell’Europa stessa.
Nella «narrazione» francese, improvvidamente affidata a giovani portavoce non ancora depurati da riflessi ideologici di passate militanze, questo merito è stato negato con disprezzo e appunto sostituito da un’altra versione, molto cara alla patria dei diritti dell’uomo, così spesso esaltati all’esterno della Francia e un po’ ipocritamente negati quando sono in gioco interessi nazionali.
Al punto che la «narrazione» dell’intervento in Libia, che ha fatto saltare il tappo delle ondate migratorie, è ancora venduta come guerra umanitaria e di liberazione di popoli oppressi. Al punto che le migliaia di espulsioni, la mancata accoglienza, in base agli accordi, di migliaia di migranti, i respingimenti, talvolta brutali,alla frontiera italiana, la sospensione di Schengen, diventano misure necessarie nel quadro della politica migratoria e antiterroristica dell’omologo di Salvini, il socialista Gerard Collomb. In questo modo, il governo francese cerca di mettere la sordina alla «narrazione» interna dell’«invasione incontrollata», propugnata da Marine Le Pen, che su questo tasto fa il controcanto populista all’amico Salvini.
Anche l’algido europeista Macron, che non twitta, il presidente dei discorsi ponderati e dei grandi disegni strategici è caduto nella trappola di meccanismi informativi che «narrano», a colpi di battute velenose e di spot nazionalistici, una realtà che avrebbe invece bisogno di radiografie oneste e misure intelligenti a livello sovranazionale. Nell’incontro di ieri all’Eliseo, Macron ha almeno dimostrato in extremis che c’è un rimedio al populismo dilagante se le élite trovassero il coraggio di cominciare un’altra narrazione, più aderente alla dimensione reale dei problemi e delle soluzioni, facendo ricorso alla memoria e alla storia, invece che alla propaganda o alla strumentalizzazione politica. Altre «narrazioni» oggettive andrebbero diffuse senza riserve. Come forse si è cominciato a fare ieri, dopo estenuanti contatti dietro le quinte. L’ex ministro degli Esteri socialista, Hubert Vedrine ha detto che i popoli europei «vorrebbero benessere ed Erasmus per tutti, ma anche preservare identità, sovranità, sicurezza». Affibbiare l’etichetta di populisti a chi sostiene questi concetti non fa che rendere più profondo il divario fra bisogni popolari e modelli istituzionali sempre meno condivisi.
Fra le «narrazioni» che andrebbero diffuse con impegno e senso di responsabilità c’è quella – scomparsa dai media – che le migrazioni hanno formato Stati, nazioni, imperi e cambiato la storia dei popoli. Un certo Enea scappò da Troia in fiamme e fondò Roma. Ci fu un tempo in cui gli intellettuali francesi si mobilitarono per soccorrere i boat people vietnamiti che fuggivano da carestie e repressione del regime comunista. Ci fu una nave, che si chiamava Exodus, che come l’Aquarius, vagava nel Mediterraneo, respinta dai francesi e inseguita dagli inglesi. Era carica di profughi ebrei che migravano «illegalmente» in Palestina. Ci fu un tempo in cui i muri si costruivano per impedire ai propri cittadini di fuggire, non agli stranieri di entrare.
In questa «narrazione» online, drogata di improvvisazioni strumentali, che stravolgono la realtà, anche le parole perdono significato. Il «passa-porto» fu inventato per favorire la libera circolazione delle persone. Oggi, possono viaggiare i cittadini normali, trasferirsi fiscalmente i benestanti, circolare gli studenti. Per i poveri dell’Africa, la «gestione» di visti inesistenti e passaporti senza identità è stata delegata agli scafisti. Sono loro che sostituiscono ambasciate e consolati, centri di accoglienza, uffici di collocamento. Sono loro che globalizzano il viaggio e il biglietto di transito. Sono loro che hanno capito per primi la realtà delle cose, nella fortezza europea che litiga anche sul diritto marittimo.
Il corriere della sera 15 giugno 2018 (modifica il 15 giugno 2018 | 21:32)