Paolo De Magistris e la sua… “Infanzia come una sinfonia”. Omaggio al sindaco più amato dai cagliaritani, di Gianfranco Murtas

DE MAGISTRIS,  sindaco di Cagliari, riceve PAOLO VI in visita alla città nel 1970.

Sabato 16 giugno, alle ore 18, presso la sala “Giorgio Pisano” della sede de L’Unione Sarda verrà presentata la riedizione del primo dei libri donati da Paolo De Magistris alla sua città, Infanzia come una sinfonia (uscito nel 1970).

Giovedì 21, alle ore 19, in duomo, sarà celebrata una messa in suffragio, nella ricorrenza dei vent’anni dalla morte dell’ex sindaco.

Martedì 26, alle ore 17, in Consiglio comunale ne sarà rievocata la figura di intellettuale ed amministratore pubblico.

Un libro-testimonianza della Cagliari trascorsa

Aveva coinciso con la fine della consigliatura per metà della quale – dall’estate 1967 cioè – era stato sindaco della città, a capo di una giunta di centro-sinistra, come nella capitale, come alla Regione. La pubblicazione di un gioiello letterario, o letterario-memorialistico quale indubbiamente è stato Infanzia come una sinfonia, Paolo De Magistris non l’aveva voluta forse per altre ragioni. Era stato come per segnare, con il racconto delle prime esperienze ed emozioni della sua vita castellana, fra anni ’20 e anni ’30, nei confini della sua famiglia e delle relazioni sociali di questa, la fine di una fase della sua vicenda pubblica, di pubblico amministratore e forse, però troppo ottimisticamente ipotizzandolo, l’inizio di una seconda, coerente sviluppo della prima. O, chissà, s’era trattato soltanto di una pura coincidenza temporale, e allora l’uscita del libro aveva assunto, pur sempre nello stesso ambito, un valore simbolico… aggiunto dopo, a giustificazione dell’accaduto, quasi come copertura ideologica, affermazione d’una intuizione che diventava, in fatto, profezia: giusto come a dire che quel mondo valoriale e sentimentale, che in lui, e in altri della famiglia, s’era materializzato raccogliendo il meglio delle generazioni avite, prendeva atto (amaramente ma realisticamente) che nel 1970 la città politica non lo faceva più proprio, non lo assumeva più come permanente modello (e direi anche midollo) morale del vivere civico cagliaritano. S’entrava definitivamente in un’altra era che metteva nel salotto buono, ma chiuso a chiave e interdetto soprattutto ai giovani di buono spirito, quasi fosse cosa pericolosa, non soltanto il set di profili di un certo integro clericalismo d’ancien régime ma anche le più consapevoli elaborazioni di un cattolicesimo democratico magari di matrice fucina ed avanzata, e perfino quelle stesse eredità ideali di un liberalismo civico che – come era avvenuto con i Ballero (e io potrei dire: con i Cocco Ortu) – di religione si nutriva non meno che di rispetto per un ordinamento santamente laico e gustosamente pluralista. Perché, emancipandosi dai vizi del dottrinarismo così come dell’utilitaristico immediato e partigiano, bisognava avere senso dello Stato e amore all’interesse generale, nella logica della compartecipazione, non della spocchiosa vedetta autoreferenziale. Destinatari dell’ammonimento: i terribili democristiani cagliaritani, stretti e costretti fra le correnti di convenienza elettorale e padroni o semipadroni della città.

Mi vien da annotare, adesso, alcuni appunti impressionistici, più che di cronaca, e di offrirli così come vengono, portando la mente ai tempi in cui io stesso, ragazzo allora, registravo le cose della politica, della grande e della piccola politica, e dei suoi protagonisti, che in vario modo comunque già frequentavo, odiando i democristiani ma amandone qualcuno…

De Magistris si sarebbe ritirato dalla politica per un decennio intero, allora, nella mezza estate 1970, dopo aver vinto alla grande le amministrative – 4.783 le preferenze personali –, dopo esser stato confermato sindaco e dopo aver rifiutato l’elezione e poi anche lo stallo consiliare, e altresì dopo aver ritirato dalla tipografia il suo gioiello letterario. Che un gemello ideale avrebbe avuto tre lustri più tardi, non bisogna dimenticarlo, in quel Sul filo della memoria arricchito dalle caricature e tempere di Enzo Loy. Lo sguardo ancora al Castello, al Castello perduto, forse al Castello rinunciato dai più, vivo ancora, negli anni ’80 inoltrati, ma peggio in arnese che nel 1970: vivo soltanto per le funzioni del Capitolo e dell’arcivescovo in cattedrale (Bonfiglioli, Tiddia e Canestri dopo Baggio) – ancora qualche mese e lì avrebbe speso gli ultimi anni della sua vita il parroco don Tonio Pittau! – e per le sedute del Consiglio regionale, prossimo a lasciare tutto intero a quello provinciale il Viceregio… E davvero poco altro. Nel palazzo dei Sanjust s’abbattevano le antenne dell’emittente cadetta La Voce Sarda (rilevata da Videolina) e già forse si candidava al rimpiazzo – inaspettata nemesi storica – il circuito delle logge massoniche in risalita da Genneruxi. Tempo ancora di degrado fisico del quartiere, di abbandoni dei residenti e tanto più dei giovani andati a prender casa a Mulinu Becciu o San Michele, di avvicendamenti nelle abitazioni buie e umide per l’ingresso di inurbati anche extracomunitari (i primi!) e comunque estranei al sentire millenario di quelle pietre e di quelle strade-feritoie. Ridotti ormai a meno d’un terzo gli abitanti censiti ai tempi di Bacaredda. I clubini resistenti, quelli musicali di giovani sperimentatori, qualche laboratorio artigianale e il mercatino domenicale al bastione. Ancora ben frequentata, da professori e tesisti, la biblioteca universitaria, nell’ex Tridentino, così come la scuola elementare Santa Caterina, non più il Conservatorio della Provvidenza; dopo sarebbe toccato, purtroppo, anche alla biblioteca e alla scuola. In allestimento la Cittadella (il Museo archeologico vi si sarebbe trasferito nel 1993)… Davvero poco altro. Di bocca buona, fortunatamente, i turisti in visita. Tutto da avviare il rifacimento dei sottoservizi, dei piani stradali, delle aperture panoramiche e turistiche, delle ripitture…

Figurarsi, almeno da questo punto di vista puramente fisico, nel 1970: con le tracce fumanti e umilianti dei bombardamenti del 1943, le ferite e le ustioni ancora incurate e, dal punto di vista sociale, con le ultime generazioni dei vecchi già in progressiva scomparsa, assottigliate per legge di natura, quasi rase al suolo quindici e vent’anni dopo (gli anni appunto di uscita di Sul filo della memoria)… Castello con i suoi reticoli pedonali e i palazzi che erano stati anche, magari nella stessa via Lamarmora dei De Magistris e degli Amat e dei Sanjust, di Francesco Alziator bambino e di Antonio Romagnino creatura e adolescente, Castello s’alzava ancora come un’acropoli, un’acropoli morente…

Le prime recensioni

Infanzia come una sinfonia, con quella galleria dei suoi personaggi che tanto avrebbero colpito i primi recensori – da Gaetano Madau Diaz (segretario generale al Comune dopo l’indimenticato Aurelio Espis) su L’Unione Sarda il 21 luglio a Giuseppe Della Maria su La Nuova Sardegna il 1° agosto di quel cruciale 1970 –, poteva costituire, da un certo punto di vista, la fotografia, anzi l’album fotografico di un patrimonio perduto per quella mesta e ingloriosa cesura destinata nel tempo, tanto più in quel quindicennio segnato dai due libri, a farsi definitiva. Patrimonio celebrato un’altra volta ancora, con la solennità morale del requiem, dai versi che sarebbero venuti più tardi ancora – nel 1989 – e riuniti in … E dei di che furono / l’assalse il sovvenir…

“Una Cagliari ormai scomparsa”, aveva titolato il suo articolo il Madau. E ad episodi e volti, ad oggetti e risonanze di voci e rumori aveva fatto riferimento Pippo Della Maria per focalizzare, traendolo dal libro di Paolo De Magistris, il centro di tutto quell’universo chiuso, la personalità di “don Mondino” (o anche “don Mundino”… o perfino “dottor De Mondini”), il medico dei poveri di Castello, il diagnosta superlativo e l’inesausto soccorritore morale e materiale dei suoi malati, il poliglotta e filosofo che condivideva la sua umanità con Buicheddu e Maccarroni, con Casu Marzu ed Eleonora e quanti altri, che pur sarebbero tornati nella galleria di Sul filo della memoria, assieme a qualche più dotto, ma popolare e popolano anche lui, metti Predi Bastioni… Con tutti loro, certo, ma partecipante anche con le virtù dell’intelletto e del cuore “in azione” del suo primogenito, destinato a seguirlo nella tomba ancora giovane, appena un anno dopo il suo addio.

Perché fu anche per celebrare il decennale della morte, oltre che di suo padre, anche di Casimiro – funzionario di prefettura e prefetto infine, a Sassari (ma cento altre cose erano state nella sua carriera vissuta come una missione religiosa, capo di gabinetto dell’Alto Commissario per la Sardegna nel 1944 e più tardi anche del presidente Segni al Viminale).

Di quindici anni più grande di Paolo, di sedici più grande di Luigi destinato nientemeno che al cardinalato di Santa Romana Chiesa, Casimiro era stato anche lui come don Mondino, ma diversamente da don Mondino, il santo vivente del laicato cattolico della Cagliari che si spegneva, il riferimento morale della famiglia e dei fratelli, dei maggiori e soprattutto dei più piccoli, certamente uomo di radici antiche, di tradizione guelfa, di disciplina e anche di osservanza monarchica, legittimata dal perdono ai Savoia che pur avevano, con gli altri scomunicati del risorgimento… usurpato la Roma dei papi­-re (e non importa se, questi ultimi, pratici anche della ghigliottina sempre in funzione nello Stato Pontificio!). Casimiro era stato il santo non nella professione sociale, com’era e com’è, per statuto e consuetudine, la medicina o la medicina nella condotta, ma nella trasparenza dell’amministrazione pubblica.

Nel ’59 don Mondino, nel ’60 Casimiro il primogenito

Cagliari aveva perduto nel ’58 fra Nicola da Gesturi, e la città s’era scoperta come una famiglia tutta compresa in un lutto addolorato. L’anno dopo aveva perduto il conte Edmondo De Magistris e i poveri più dei ricchi l’avevano pianto come il loro protettore andato anche lui a prendersi il premio, anziano e benedetto. Era toccato quindi a Casimiro, che dal padre aveva ereditato il titolo comitale e le virtù, e allora Sassari (così come Nuoro, che pure l’aveva conosciuto negli affari di prefettura) si era unita a Cagliari in un cordoglio profondo, necessario, e dalla Sardegna intera s’era alzato un sentimento puro e condiviso.

Paolo De Magistris era allora che aveva iniziato la sua vita pubblica, dopo le attività giovanili nell’Azione Cattolica e nella FUCI, e dopo molte prove nella pubblicistica. Democristiano da sempre, dall’adolescenza, aveva deciso di impegnarsi in politica come già Ignazio, il fratello giornalista che lo precedeva di tre anni ed era stato ipercinetico consigliere comunale e anche regionale, sempre nella parte più avanzata della DC. E mentre gli altri fratelli avanzavano nelle rispettive carriere, chi in magistratura (Edoardo), chi ne nella curia vaticana (Luigi, al Sant’Officio), chi anche nelle non meno preziose cure familiari (Maria Teresa sposata Filigheddu: la madre donna Agnese Ballero sarebbe deceduta novantenne nel 1974).

Eccolo don Paolo: consigliere per dieci anni dal 1960 – aveva appunto esordito in Consiglio all’età di 35 anni con 2.573 voti di preferenza rinnovatigli e anzi implementatigli nel ‘64 fino a 2.758 – e, dopo che ripetutamente assessore nelle giunte Brotzu, sindaco dal 1967, si era ripresentato alle elezioni amministrative del 1970, e nell’assemblea civica era stato confermato alla grande, con una marea preferenze: le già ricordate 4.783. Tutto portava allora, o doveva portare, alla sua conferma anche sullo scranno sindacale. L’elettorato s’era espresso, toccava adesso ai partiti, ai direttivi provinciali e cittadini, alle delegazioni incaricate delle trattative, esprimersi. E i partiti infatti, tanto più il suo – la Democrazia Cristiana, la balena bianca con un crescente servaggio alle aree di influenza clientelare –, un po’ per necessità un po’ per mancanza di alternative di pari livello, lo avevano ricandidato alla maggior responsabilità dell’Amministrazione. Le intese erano però apparse da subito labili, forzate, non sostenute, tanto nei partiti quanto nei gruppi consiliari, da alcuna forte e convinta assunzione del rischio davanti alle complessità del momento. I contrasti erano stati, al solito, soprattutto all’interno della Democrazia Cristiana, con l’organo cittadino (a prevalenza dorotea, clericale e conservatrice) contro quello provinciale, ed a delegittimare gli incaricati alla trattativa. Sicché lui, il sindaco eletto/rieletto il 5 agosto – a due mesi quasi dal responso delle urne – aveva stracciato le finzioni dimettendosi da sindaco e dal Consiglio.

Il primo cittadino che aveva goduto, anche per la sua immagine, della storica visita di papa Paolo VI e dell’altrettanto storica vittoria calcistica del Cagliari scudettato, aveva ben compreso che il differenziale di sensibilità politica con la maggioranza dei suoi colleghi (di partito e di maggioranza) era tale da impedirgli di proseguire. E se ne era tornato, a tempo pieno, al suo ufficio di direttore dei servizi all’assessorato regionale dell’Industria.

Così quel libro – libricino forse per il formato per il numero delle pagine (110) – divenne da subito, con quel suo titolo che carezzava la poesia (appunto Infanzia come una sinfonia), come l’oggetto-testimone o il simbolo dei valori umani e civili, o meglio sociali, di una personalità d’eccezione: valori che, pur con tutti i necessari aggiornamenti e rimodellamenti, faticavano a far breccia nella politica nuova o altra che i democristiani e i loro alleati, forse anche i loro avversari, intendevano realizzare, nel bene o nel male.

Il libro uscì per i tipi delle Industrie Grafiche Editoriali Sarde, passò di mano in mano, con distribuzione informale. Portava in alto, la copertina grigia, il nome del suo autore con tutta la pompa del casato: Paolo De Magistris di Castella. E portava, a mo’ di introduzione, tre paginette in corsivo, come per marcare l’intenzione che aveva mosso alla produzione, ed anche graficamente affermare il senso della confidenza con il lettore. Perché confidenziale doveva essere, non poteva non essere, tutto quel racconto volto a svelare natura e dinamiche personali e familiari dei De Magistris di Castella. E infatti, dopo quelle tre paginette, ecco i ritratti a matita dell’anziano don Mondino, e di Casimiro, il timido primogenito di don Mondino e donna Agnese Ballero, andati sposi nel fatidico 1909 nella chiesa dei siciliani intitolata a Santa Rosalia (alle spalle di casa Ballero, purtroppo abbattuta dalle bombe del 1943): la chiesa inclusiva, com’è a Cagliari anche quella intitolata a Sant’Antonio da Padova (relativamente a fra Ignazio da Laconi minore cappuccino), del santuario dedicato a fra Salvatore da Horta minore osservante (allora, nel 1909, soltanto beato).

Il decennio fuori dai giochi

Fuori dal municipio e dal Municipio, dal palazzo e dall’istituzione cioè. Avrebbe vissuto il ritmo ordinario del suo casa-e-ufficio, Paolo De Magistris, dopo la rinuncia alla sindacatura e allo stallo consiliare, e, appunto, dopo il ritiro dalla stampatrice (e l’omaggio ai più cari) del suo Infanzia come una sinfonia. Avrebbe vissuto, con più intensità, il rapporto domestico con donna Maria Orazia – destinata anche lei, purtroppo, a scomparsa prematura – e Luigi jr., nella grande abitazione di via San Vetrano, nel quartiere dei “regionali”, e così avrebbe vissuto le incombenze quotidiane del suo ufficio, nel palazzo della Regione. A leggere nell’ordinario relazioni e statistiche sulle mostre-mercato e la cooperazione, l’ente di elettricità e le attività pescherecce, a discutere di tutto con l’assessore e i capi-settore, a scrivere note di servizio sulle miniere boccheggianti, il manifatturiero artigianale più che industriale e la petrolchimica trionfante e imbrogliona, idrovora del credito pubblico e padrona prodiga verso lo sport del consenso, quello maggiore, fra il calcio dei campioni rossoblù ed il basket del mitico Brill, ma padrona anche (e però avida) della libertà, o ex libertà, o libertà vigilata della stampa isolana.

Gli sfoghi o le riossigenazioni spirituali – “spirito e disciplina” avrebbe potuto essere la sua divisa – nella parrocchiale di San Paolo, sempre pronto nelle pratiche associative di quel girone salesiano, e supporto colto, anche teologico e catechistico, al clero di don Bosco nel quartiere più moderno di Cagliari fattosi quasi contraltare urbanistico di quello antico nato addirittura pisano.

D’estate a Lanusei per il più, fra il Selene e il paese, le passeggiate nei boschi e le letture riposate, monsignor Salvatore Delogu puntualmente da salutare in episcopio, gli amici discreti, sardi e no, ritrovati ogni anno. E naturalmente la ricerca, quella però d’inverno come d’estate, sempre, come la mattina del sabato in biblioteca universitaria (nel palazzo frequentato, al tempo del Tridentino, come sede della FUCI), e la scrittura: anche quella d’inverno come d’estate, sempre, e nel molto altro ecco quegli articoli usciti a puntate, a ripassare anno dopo anno i quattro della grande guerra, sull’Almanacco, e poi riuniti in volume, nel 1976, sotto il titolo di Cagliari nella prima guerra mondiale.

Del 1974 è un gran discorso biografico – biografico della vita missionaria ed intima, direi, più ancora che di quella operativa, pubblica e risaputa – relativo all’arcivescovo Ernesto Maria Piovella, nel 25.mo della morte: un discorso destinato alla pubblicazione e che ben si associa ad un altro contributo, questo datato 1987 (uscito sulla rivista Sociologia, edito dall’Istituto Luigi Sturzo), sulla vita dello stesso presule colta essenzialmente in rapporto alle dinamiche del movimento cattolico organizzato nei lunghi anni del suo episcopato isolano.

Sempre molta religione, benzina nel motore. Per insaporire di domande    la vita, evitando di ingessarla in una comoda quiete. E anche, forse, per guidare il cambio di ruolo sociale, del suo ruolo sociale, che poi era tutt’altro che un abbandono della responsabilità, o della responsabilità pubblica.

Cominciava allora, da quel 1970 che era stato l’anno elettorale ma più ancora era stato, per la storia, l’anno degli spettacoli di folla attorno a papa Montini, nella piazza dei centomila, in aprile, e soprattutto in aprile, ma anche prima e anche dopo, ogni due domeniche, allo stadio Amsicora presto dismesso, sì, cominciava allora un decennio pesante per la Sardegna e l’Italia tutta, un decennio piuttosto mal governato dalla politica, o da una classe dirigente, nazionale e regionale, e anche cittadina, drammaticamente impari al compito.

Pasticci nelle finanze dell’Autonomia speciale, con le intese elemosiniere, conciliari e sottobanco, magari per il piano della pastorizia e il presalario degli studenti, fra i democristiani (sempre divisi in mille correnti) e i comunisti, con carichi crescenti nel bilancio; pasticci nei giornali, con la demolizione scoraggiante dell’antica testata della Frumentaria sassarese e i redattori costretti alla migrazione verso i lidi, rivelatisi infine illusori, di TuttoQuotidiano, e, a L’Unione Sarda, con il licenziamento di un signor direttore come Fabio Maria Crivelli per il diktat di una finanziaria con la testa a Vaduz. Fino al crollo rovinoso della SIR, del suo impero e del suo imperatore, alle chiusure progressive delle miniere sulcitane (precedute, accompagnate e seguite dalle vane occupazioni delle maestranze protestatarie), alle emergenze ambientali provocate ora dal laissez-faire industriale – concesso alle Partecipazioni Statali così come ai privati – perfino nei territori a vocazione agricola (vedi la media Valle del Tirso) e nelle lagune (pensa a Santa Gilla), ora dalle cementificazioni incontrollate nelle aree chiamate invece al turismo. E, nelle pagine della nera o della giudiziaria, ancora le impennate del banditismo, dei sequestri di persona e degli omicidi, delle latitanze, dei processoni all’Anonima…

Questi gli anni ’70. Il tentativo di un’intesa autonomistica, ad un certo punto, giusto quando anche il sardismo inselvatichiva nell’indipendentismo nazionalitario e Dante, Leopardi e Manzoni venivano ricollocati fra gli autori “stranieri”: quando, per opporsi ai colpi del terrorismo eversivo, dopo che a quello stragista nei neofascisti, anche a Roma si tentava l’esperimento dell’unità nazionale. Anni complessi e complicati, contraddittori – si pensi all’accettazione berlingueriana dell’Alleanza atlantica e al ritorno all’operaismo da parte del PCI, alle crescenti libertà dell’emittenza radiofonica e alla secolarizzazione dell’ordinamento dopo che dei costumi, con le riforme degli istituti familiari, ed alle pur temporanee penalizzazioni del vivere quotidiano conseguenti ai ridotti approvvigionamenti energetici, si pensi all’avvio massivo del consumo giovanile di acidi e stupefacenti…

Pennellate, ripeto impressionistiche più che cronachistiche, di vita sociale e civile, economica e politica, della Sardegna e dell’Italia, dieci soltanto sulle mille o diecimila possibili, in un maggior quadro internazionale ancora fisso sulle consolidate rigidezze del dopoguerra, con la cortina di ferro a dividere il continente, fortunatamente e finalmente con la liberazione, tra i fratelli latini d’Europa, di portoghesi e spagnoli dai quasi cinquantennali ferri fascisti, e anche però, a bilanciare il positivo col negativo, con la sconfitta  democratica nel vicino, vicinissimo Cile di Salvador Allende e degli Inti-Illimani, divenuto il Cile di Pinochet dittatore socio di quanti altri in America latina; su altri meridiani e paralleli, la fine della guerra del Vietnam bilanciata anch’essa dal rincrudirsi di quella mediorientale, e quant’altro ancora…

E quale… rango di dignità e coerenza e lungimiranza, da noi, della nostra classe dirigente, davanti al mondo complesso e complicato, e inquieto? Quanti ricambi di giunta alla Regione per la ricerca di equilibri democristiani! da Abis a Giagu 1, 2 e 3, da Spano a Del Rio, da Soddu fino alla sponda terminale di Ghinami. E anche in municipio: da Angelo Lai a Eudoro Fanti, da Franco Murtas 1, 2 e 3 a Ferrara (il socialista) addirittura in sette edizioni, fino a Mario De Sotgiu, sindaco democristiano tre volte nell’arco di un anno soltanto, con replica e suo bis nella nuova consigliatura, dopo l’exploit di un giorno di Michele Columbu, e la marcia lenta di Bachisio Scarpa… Con quanto (davvero insopportabile) sottogoverno scudocrociato ed ancillare, con quanto spreco di risorse, che un domani sarebbe stato contabilizzato nel grande calderone del debito pubblico nazionale.

La nuova stagione

Sarebbe passato questo decennio e anche di più prima che Paolo De Magistris riprendesse il suo protagonismo pubblico. Egli si ripresentava alla fiducia popolare, ancora relativamente giovane, 55enne nel 1980. Portava la memoria delle sgradevolezze trascorse, ma ritentava, si rimetteva in gioco per puro senso del dovere – è testimonianza che chiunque lo abbia avvicinato non può mancare di consegnare per veritiera –, senza alcuna ambizione venale. Il successo sarebbe venuto con ben 9.016 preferenze raccolte ancora una volta sul suo nome, e sarebbe venuto con la nuova chiamata alla sindacatura, dopo gli esecutivi Scarpa (fino all’ottobre 1981) e quello Di Martino (fino al marzo 1984). Avrebbe completato, De Magistris, l’8.a consigliatura ed avrebbe inaugurato e chiuso la successiva (con due giunte a seguire, anch’esse di pentapartito), ancora una volta, nel 1985, raccogliendo grandi consensi, e senza un giorno di campagna elettorale pro domo sua: collezionandone altri 8.027 di speciale preferenza.

Un’altra stagione di vita amministrativa (e anche di vita personale) avrebbe aperto e avrebbe chiuso. Giusto nel mezzo del nuovo decennio 1980-1990, ecco la ristampa, ad iniziativa del Centro Studi Stampace “Andrea Devoto”, del suo Infanzia come una sinfonia. Anche con quella ripulitura dei refusi – invero pochi, molto pochi, e neppure rilevanti – della prima stampa, e da lui corretti con leggeri tratti di matita, nella copia… finita nelle mie mani. Perché s’era indotto a ritornare, e così forse addolcire le pene di una prematura vedovanza intervenuta alla fine del 1979, nel suo Castello, nel palazzo di famiglia riformulato dal Cima – novanta gradini per arrivare dal portone alla porta –, accanto ad altri congiunti, nella rete di indimenticate consuetudini. A cantare il Te Deum in duomo, a riscaldarsi nuovamente nel sentimento costitutivo della sua personalità castellana.

«Ti ricordi?»

Nel capitoletto intitolato “I patriarchi”, uno dei conclusivi dell’«aureo libretto» (questa la definizione datane da Pippo Della Maria), l’autore ricorda le conversazioni domestiche, nel dopocena (alle 23 e forse alla mezzanotte!) fra il padre, ormai quasi anziano, e i suoi fratelli Eraclio e Luigi. Negli anni della dittatura. Conversazioni di adulti, che per i piccoli all’ascolto erano lezioni di vita. E da lì tutto il resto, in chiave personalissima… Eccone, sia pure per rapidi stralci, alcune sapide scene:

Erano due ore abbondanti di serene rievocazioni familiari, o di accese discussioni politiche in cui chi faceva le spese di una spietata vivisezione era il regime fascista, di cui tutti e tre, sia pure con diversa intonazione soggettiva, erano fierissimi avversari.

Sia le gustosissime risate con cui riandavano ai lontani, felici anni dell’infanzia, sia gli accalorati giudizi politici con cui censuravano il liberticidio, la megalomania e il dissestato sistema economico fascista erano per noi scuola. Scuola a cui fors’anche inconsciamente ma certo con il sigillo di una indiscussa autorità morale che ce ne faceva comunque sicuri, andavamo anche noi formandoci al culto della famiglia, della semplicità, della dirittura, dell’onestà, dell’antimistificazione che metteva la scure alla radice dei falsi idoli che, invece, la «Scuola» nella stereotipia delle storie ufficiali e del saper comune che è mediocrità, ci proponeva a modelli di vita e canoni di libertà.

Affioravano così nei ricordi, le solidissime, incrollabili basi di un cattolicesimo integrale e integralista, tramandato attraverso le generazioni come la caratteristica saliente della famiglia.

Le posizioni dignitose, ferme e velate di mestizia degli anni del 1870, col dissidio tra italiano e cattolico che aveva lacerato ogni coscienza retta, lo stupore delle repressioni poliziesche contro i cattolici di punta, simboleggiati da Don Albertario, all’epoca torbida di Pelloux e Bava-Beccaris, l’entusiasmo con cui si erano gettati nell’agone, dopo il disciplinatissimo ossequio al «né eletti né elettori», allorché il patto Gentiloni fece toccare con mano quanto fosse preziosa e insostituibile la partecipazione attiva al governo della cosa pubblica.

Quando invece i discorsi cadevano sui ricordi familiari e d’infanzia, erano non meno vividi e interessanti e più carichi di buon umore.

Passavano in rassegna le più caratteristiche figure della loro patriarcale vita familiare, dominata dalla figura del nonno materno, il Marchese Edmondo Roberti, ufficiale di marina, Sindaco di Cagliari, Deputato al Parlamento.[…].

Si rincorrevano i «ti ricordi?» e dalla puntuale, fervidissima memoria, balzavano i tempi che furono, rivissuti con una punta di rimpianto ma anche con l’orgoglio d’essere stati protagonisti di un mondo tanto diverso da quello che noi andavamo conoscendo, di giovani alla scuola brutale dell’esaltazione della forza, infiammati alla guerra e al predominio razziale, nelle irreggimentate schiere dell’avanguardia fascista e dei balilla costretti a modellarsi sui cencioso lanciasassi di Portoria.

Ma appunto per la educazione e l’esempio ricevuti, quel mondo non era il nostro e gli eravamo anzi dichiaratamente ostili.

Fin dalla più remota infanzia, infatti fummo avviati ad una presenza attiva nella vita della chiesa e dell’Azione Cattolica.

Io e Luigi fummo nel primissimo gruppo di «chierichetti» che, tronfi della vestina di rosso scarlatto e della mozzetta di velluto gallonato sull’eterea cotta di pizzo, servirono alla «Dominici Schola servitii» della Cattedrale, iniziando le proprie attività nel 1930-31.

Perciò, piccoli ancora, fummo spettatori non certo politicamente qualificati…, delle odiose repressioni fasciste contro l’Azione Cattolica, scatenate nel maggio 1931: recatici con tanto di fascia bianca a bandoliera a testimoniare della nostra appartenenza ai «Fanciulli Cattolici» alla sede dello Oratorio di San Saturnino, trovammo la porta sbarrata e un, invero cortese, questurino che ci spedì di filato a casa comunicandoci che non si svolgevano più le attività «sovversive». Lezioni di Catechismo di Storia della chiesa, di liturgia, impartite dalle solite, infaticabili, pazientissime Marchesine Amat e Aymerich, facevano forse paura ai truculenti gerarchi in orbace e stivaloni e, perciò, i cinquenni e seienni che le frequentavano, era bene che se ne stessero a casa.

Quell’anno fu sospesa per prudenza anche, a Processione del Corpus Domini, giacché in occasione dei cortei della Settimana Santa c’erano stati scontri e tafferugli in cui contro i manganelli avevano egregiamente combattuto stendardi e lampioni.

Particolarmente presa di mira la Fuci, la cui sede fu devastata e imbrattata (non sarebbe stata l’ultima volta) ma che appena un anno dopo doveva dar prova della sua vitalità, organizzando proprio a Cagliari il Congresso Nazionale che affermò la insopprimibile sua funzione di formatrice di intellettuali di sicura impronta cattolica, e segnò l’atto di nascita del Movimento dei Laureati, attraverso un manifesto che reca – fra le tante – le firme di Papà e di Casimiro, allora ventunenne appena ma già laureato da un anno.

Il mondo cattolico cagliaritano degli anni dopo il 1930, dalle ali tarpate per il diniego di libertà dietro cui i fascisti nascondevano la loro avversione e il loro timore, era impersonato da un gruppo di dirigenti formati sull’esempio del Conte Sanjust che proprio in quei primi anni della terza decade, moriva vecchio di anni ma più ancora nel corpo stanco, rinsecchito, perennemente freddoloso, anche nella calura estiva, con il volto ornato da una lunga, bianca barba da frate cappuccino.

Il suo funerale fu una apoteosi, una testimonianza di quanto aveva egli e la sua opera segnato nella formazione di una coscienza cattolica laica organizzata.

A tutti sovrastava paterno, dolce, buono, l’Arcivescovo Mons. Piovella. Florido, roseo, il capo incorniciato da una peluria bianca rasata cortissima, lo sguardo azzurro, sconfinato, penetrante, limpido come la sua anima santa e apostolicamente entusiasta Mons. Piovella era veramente «Padre di immensa maestà» di una diocesi che lo venerava. Semplice nella parola, infaticabile nello zelo, era organizzatore inesausto di manifestazioni religiose con cui toccava il cuore delle moltitudini avvincendo e seducendo anche i più scaltri ed impietriti intellettuali agnostici o massoneggianti.

Già avanzato negli anni, non mancava di cogliere ogni occasione per radunare attorno a se le folle e sopratutto i giovani.

Le Missioni Paoline del ’31, le comunioni Scolastiche, le feste Mariane per Bonaria, erano dominate dalla Sua presenza, caratterizzate dalla sua dolcezza, infiammate dalla sua pietà.

Amava le celebrazioni all’aperto, le processioni a mare, i Congressi Eucaristici. Distribuiva per mezze ore intere la Comunione, da capacissime Pissidi entro le quali la mano tremante ritmava col grande anello pastorale d’ametista il «Corpus Domini nostri lesu Cristi…» pronunciato con la sommessa voce di vecchio.

Ma alla fine di ogni funzione, uno squillo riscuoteva le folle con la esortazione immancabile: «Cari figliuoli, il vostro Arcivescovo è contento di voi, e vi vuole affidare alla Mamma del cielo. Cantiamo perciò tutti insieme Di Bonaria celeste Regina».

Le nostre attribuzioni di chierichetto, la nostra appartenenza alla Associazione dei fanciulli cattolici, ci portavano ad essere sempre presenti a queste grandi celebrazioni e perciò eravamo assai conosciuti dall’Arcivescovo, da lui amati vivamente ed eravamo orgogliosissimi quando, nelle sue non rare uscite a piedi (aveva una monumentale automobile color tortora col radiatore a nido di vespa) ci chiamava con un affettuoso gesto e con un ampio sorriso per potersi appoggiare alle nostre spalle e sostenersi nel cammino.

La nostra esistenza era arricchita, caratterizzata da questa spontanea, naturale, profondissima inserzione nella Chiesa, nelle sue, tradizioni, nella Sua realtà educatrice, nella amicizia profonda con i Suoi uomini.

 

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