“Il Mercato del Lavoro”: Quale nuova riforma tra flessibilità e inalienabile diritto al lavoro? di Benedetto Sechi

 

Compito arduo quello che attende l’on. Di Maio, nuovo Ministro del Lavoro, nonché dello Sviluppo Economico, nonché Vice Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché, Capo Politico del M5S.

Si è scelto, a differenza del suo collega Salvini, esperto in respingimenti e aspirante addetto alle macchine operatrici da cantiere, una bella gatta da pelare.

Ma non è di assetti politici che vorrei trattare, quanto di strumenti per una gestione democratica ed efficace del cosiddetto “mercato del lavoro”.

Pessimo termine questo, ma, costretto, lo userò a malincuore. Fin dall’approvazione della legge Treu, del giugno 1977, il lavoro, viene inteso non già come un diritto/dovere, ma come una delle variabili della produzione, così il lavoro entra nel mercato.

In sostanza si inizia a considerarlo alla stregua delle mozzarelle, della pasta, di un elettrodomestico  o dei prodotti di consumo in genere.

Diventa, quindi, una merce da acquistare, nelle quantità utili alla bisogna e da smaltire, una volta deteriorata o quando non più funzionale all’impresa.

Le norme sul lavoro, che negli anni si sono succedute  a partire dalla Legge n. 30 del 14/02/2003, redatta attingendo dagli studi del prof. Biagi, assassinato barbaramente dalle B.R., hanno affrontato il problema, quasi esclusivamente sotto l’aspetto della sua flessibilità o duttilità.

Purtroppo, esperti e legislatori, anziché studiare forme che rendessero flessibile il lavoro, cosa necessaria visti i mutamenti tecnologici, hanno finito per rendere flessibile  solo il lavoratore, creando instabilità nei redditi, contrazione dei consumi interni, ma soprattutto precarietà insostenibile per i lavoratori e le famiglie.

Il colpo di grazia arriva, con il d.lgs n. 81/2015, meglio conosciuto come jobs act, fiore all’occhiello di del PD e di Renzi,  che, con l’abolizione dell’art. 18 e il riordino dei contratti a termine, ha peggiorato perfino le modifiche alla L. 30/2003, introdotte dalla Ministra Fornero.

Il Jobs Act ha definitivamente liberato le aziende dall’obbligo morale di considerare il lavoratore come persona, equiparandolo, in questo modo, ad un utensile, ad una macchina, alla forza motrice.

Si comprende perché il lavoro, ma principalmente il lavoratore, subisca un arretramento, come valore sociale ed etico. Sarebbe interessante valutare i danni, in termini anche economici, causati da questo arretramento. Insomma l’attività legislativa è stata improntata per creare la marginalizzazione del soggetto lavoratore, assumendo contorni di rivincita  ideologica, prima ancora che utilitaristica, per il capitalismo globalizzato.

Si rinuncia così ad intervenire sull’organizzazione del lavoro, sui sistemi produttivi, sulla innovazione tecnologica per migliorare la produttività, (ricordiamo che in Italia, nonostante le ore lavorate siano maggiori che in altri paesi della U.E., la produttività risulta essere sensibilmente inferiore, fatte le dovute eccezioni), abbracciando il feticcio della flessibilità/precarietà, come unica strada maestra.

Le assunzioni a tempo determinato diventano di gran lunga prevalenti, Si avvia il meccanismo di  “acquisto”, di ore di lavoro, liberando le aziende dagli obblighi, morali e sociali, della “fabbrica” in funzione del lavoratore, come teorizzata e realizzata da Adriano Olivetti nel dopo guerra.

Possiamo perciò affermare che tutte le norme che hanno cercato di “modernizzare” il sistema di creazione ed avviamento al lavoro, modificando radicalmente il rapporto lavoratore/impresa, hanno contribuito a svilire quanto sancito dall’art. 4 della Costituzione Italiana, sul quale si fonda il patto sociale tra cittadini e stato.

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.»

Un diritto ed un dovere, quello al lavoro, strettamente connessi, infatti è ovvio che, se non è data la possibilità di lavorare, non c’è nessun dovere da assolvere.

 

Le Agenzie Interinali – supermarket delle ore-lavoro.

Per consentire  alle aziende, pubbliche e private una maggiore flessibilità e allentare i vincoli dei rapporti contrattuali, nascono così le Agenzie Interinali, una vera e propria aberrazione perché vendono lavoro, ma potremmo dire lavoratori, con la formula della “somministrazione”, un vero e proprio supermercato. Somministrazione è una parola usata in medicina per i farmaci, per il mondo del lavoro è una assoluta novità, ma anche l’uso di un nuovo lessico ci aiuta a comprendere bene ciò che è accaduto.

Si è reso praticamente vuoto di funzioni il Collocamento Pubblico, affidandogli inutili compiti burocratici e si è  consegnato nelle mani dei privati l’intero sistema del collocamento al lavoro.

Anche qui, la parola interinale ha un significato inequivocabile: periodo provvisorio! Il rapporto di lavoro con le Agenzie Interinali sottrae, di fatto, il lavoratore dalla completa tutela sindacale; egli infatti è dipendente dell’Agenzia per il rapporto formale, ma assoggettato all’impresa utilizzatrice nello svolgimento della sua prestazione. Insomma ha due datori di lavoro che rendono difficile, se non impossibile, una sua tutela diretta, almeno dal punto di vista individuale.

 

Esaminiamo alcuni dati, utili per comprendere meglio la dimensione del fenomeno, pubblicati  dal bollettino ADAPT (Scuola di Alta Formazione sulle Relazioni Industriali e del lavoro) del dicembre 2017.

“Dal rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie (fonte Ministero del Lavoro), si registrano, nel 2016, 1.805.074 rapporti di lavoro attivati con il sistema della “somministrazione” a fronte di 1.614.135 effettuati nel 2015, con un incremento percentuale dell’11,8%. Si tratta prevalentemente di contratti a Tempo Determinato per il 99,4% dei casi.

Questa tendenza ha avuto una ulteriore accelerazione a seguito del D.Lgs 81/2015 (Jobs Act).

I dati sugli avviamenti effettuati dai Servizi o Centri per l’Impiego sono risibili, non dovrebbero superare il 5% sul totale generale dei contratti attivati.

Con l’affidamento alle Agenzie Interinali del sistema di collocamento di fatto, viene cancellato il diritto di avviamento secondo “graduatorie di merito o di necessità”, non avendo, queste, nessun obbligo in questo senso.

Infatti la norma che regola le agenzie dispone che queste mettano a disposizione di un “utilizzatore”, uno o più lavoratori suoi dipendenti, decidendo con sua assoluta discrezionalità quale lavoratore “somministrare”, di volta in volta.

Ai Servizi per l’Impiego resta l’erogazione del servizio solo in caso di chiamate a tempo, per lavori presso enti pubblici, nei cantieri di lavoro per le  “povertà  estreme”, queste si fatte con “graduatorie pubbliche.

Strane compagini le Agenzie Interinali, vi troviamo tra i soci, le associazioni datoriali, dalla Confindustria alla Lega delle Cooperative e perfino i sindacati dei lavoratori CGIL CISL e UIL.

Le Agenzie Interinali sono diventate, quindi, il perno sul quale ruota gran parte del “mercato del lavoro”, ma, come abbiamo visto, sarebbe più appropriato chiamarlo “mercato dei lavoratori”.

Tra i maggiori clienti delle A.I. troviamo gli enti pubblici: comuni, aziende ospedaliere, ASL, regioni, ministeri. In questo modo si è creata la grande sacca di precari al servizio della pubblica amministrazione.

 

Va detto che le Agenzie Interinali, pur avendone facoltà, non fanno assunzioni a Tempo Indeterminato, se non raramente, ma agendo in deroga assumono e “somministrano lavoratori”  quasi esclusivamente a Tempo Determinato. Per loro non c’è il limite delle 5 proroghe consecutive ne dei 36 mesi, oltre i quali vi è obbligo, per le aziende private, di trasformare il contratto ed assumere  il lavoratore a Tempo Indeterminato.

Questo meccanismo fa delle A.I. imprese a rischio quasi zero; non hanno rimanenze a fine anno, ne “giacenze di magazzino”, in quanto assumono e somministrano lavoratori solo dopo aver stipulato il contratto con il cliente/utilizzatore.

 

In questo scenario, ben consolidato, si deve muovere il nuovo Ministro del Lavoro. Dubito, però, abbia ben chiara la complessità della questione. A me pare che  si stia proponendo un pò confusamente, l’istituzione del reddito di cittadinanza ponendo, giustamente, come precondizione la riforma del collocamento pubblico, ma che non vi sia la consapevolezza che si tratta di rimettere in discussione l’intero sistema del “mercato del lavoro” italiano.

Comprendo che è difficile che imprese e associazioni datoriali, che hanno a riferimento politico l’altro “contraente”, siano disponibili a lasciare modificare una situazione più che idilliaca e già consolidata da Renzi, e dal PD.

Ma, aldilà dell’istituzione del  reddito di cittadinanza, si rende comunque necessaria una radicale riforma del mondo del lavoro, in forma subordinata e autonomo, che rimetta in capo al sistema pubblico il controllo e il servizio di collocamento, non disgiunto dalla riforma delle normative che hanno precarizzato il lavoro e con esso i lavoratori. Non è infatti sostenibile mantenere due  sistemi paralleli, uno pubblico e l’altro privato.

 

L’idea che il collocamento pubblico debba essere funzionale a gestire, prevalentemente, liste di disoccupati, o di lavoratori con diversi ammortizzatori sociali,  per impiegarli in lavori socialmente utili, senza che lo stesso possa avere accesso al mercato del lavoro della produzione è inaccettabile. Non può in ogni caso esserci un doppio mercato, di serie A gestito dalle Agenzie Interinali e di serie B dal collocamento pubblico.

 

Com’è evidente la riforma del collocamento pubblico non può non considerare una  profonda riforma delle Agenzie Interinali, se non la loro completa cancellazione. Nei paesi europei avanzati, infatti, il sistema del collocamento è prevalentemente a carattere pubblico, solo così è possibile mettere in campo efficaci politiche attive e creare sviluppo, al fine di garantire il fondamentale diritto/dovere costituzionale al lavoro.

 

Ma, ancora, legiferare così pesantemente in tema di lavoro, come ha fatto l’Italia negli ultimi 15 anni ha, con tutta evidenza, ristretto i margini di contrattazione sindacale. I sindacati si sono colpevolmente limitati a timide contestazioni, incapaci di mettere in campo nuove strategie contrattuali, come avvenne negli anni settanta.

I sindacati, ad esempio, hanno rinunciato alla battaglia, oggi sempre più attuale e necessaria, per un  riduzione massiccia dell’orario del lavoro.

Questa è una delle strade da intraprendere, con decisione, se si vuole creare occupazione solida. Lo hanno fatto i tedeschi, fin dagli anni 80’, ridistribuendo le ore da lavorare, ridotte sensibilmente a seguito dell’introduzione della automazione, dell’informatica e della robotica.

In Italia le organizzazioni sindacali hanno avuto timore anche di  sperimentare forme nuove di partecipazione nella gestione delle aziende. Se avessero messo in campo questa ipotesi, che è anche una sfida alle controparti, avrebbero potuto sottrarre il lavoro ed i lavoratori dalla marginalità, nella quale oggi si trovano, rendendoli protagonisti nella definizione delle strategie aziendali e perfino nella scelta del management.

 

Sicuramente l’on. Di Maio,  ed i suoi collaboratori avranno chiaro il quadro, anche se mi pare  che affrontino il problema solo per l’aspetto inerente il reddito di cittadinanza, elemento di punta del contratto governativo e della loro campagna elettorale. Ma credo sia evidente che questo strumento, pur raffrontando un problema  concreto, non è utile a dare risposte alla domanda di lavoro, soprattutto per le giovani generazioni, alle quali devono essere offerte opportunità per realizzare il loro progetto di vita, creando occasioni e condizioni,  per lo sviluppo di  occupazione, sia di tipo autonomo che subordinata.

 

3 giugno 2018

 

Benedetto Sechi

 

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