Cagliari amore mio. Paolo De Magistris risponde ai ragazzi di Mondo X sui quartieri, i monumenti e la vita sociale della città di ieri e del futuro, di Gianfranco Murtas
Venti e anche più domande a Paolo De Magistris, da parte dei ragazzi delle comunità di San Mauro e Campu’e Luas riunitisi, nel grande stabilimento di Macchiareddu, sabato 12 novembre 1994, per ascoltare una lezione dell’ex sindaco di Cagliari sulla storia trimillenaria della città capoluogo dell’Isola.
Avevo allora, e già dal 1988, una certa collaborazione con il padre Morittu, di tanto in tanto organizzavo qualche conferenza con relatori ospiti; alla morte di Zella Corona – ottima titolare di quell’ufficio – presi il suo posto per due anni, fino al 2002. I buoni, ottimi anzi, rapporti personali con Paolo De Magistris in quella stagione fertile per me, purtroppo già di decadenza fisica per lui (allora afflitto da una grave malattia, stoicamente affrontata ma che lo avrebbe portato a morte nel giugno 1998) mi indussero a chiedergli di prestare qualche ora del suo tempo pensoso e prezioso alle comunità tanto amate: ad offrire ai ragazzi là impegnati nei programmi di riordino e rinforzo generale della loro vita un aiuto culturale, insieme gustoso e di valore, che avrebbe potuto ulteriormente trovare vie di sviluppo, con gli approfondimenti di nuove e mirate letture e riflessioni da fissare magari nel cosiddetto “giornale di Comunità”.
Al termine di quella conversazione di don Paolo – tutta a braccio naturalmente, con un linguaggio semplice e abbordabile, due ore piene – ci fu il tempo per qualche domanda di chiarimento soltanto. Volò l’ultima mezz’oretta e proposi quindi, per non frustrare l’entusiasmo con il quale i ragazzi s’eran preparati ed avevano focalizzato gli argomenti da scandagliare con un supplemento di lezione, di consegnare al nostro relatore i bigliettini “interrogativi”. Ai quali, nessuno escluso, don Paolo rispose, utilizzando la stessa carta. Nell’ultima edizione di Partenia in Callari (1998-1999) pubblicai, all’interno di un ampio servizio anche fotografico documentante quella visita tanto pregnante allo stabilimento ex ENAOLI, la riproduzione di quello scambio fruttuoso.
Ecco di seguito i quesiti dei ragazzi e le risposte di Paolo De Magistris.
I pisani, Arquer e Carlo Felice
Sergio. Quali sono i rioni più vecchi in assoluto a Cagliari cioè i primi nati di quelli tuttora esistenti? Quali erano le attività primarie che esistevano al tempo dei pisani? La statua di Carlo Felice è stata eretta per qualche merito particolare che ha avuto Carlo Felice verso i sardi?
R. – Allora: se si può sostenere, ma lo dò come ipotesi mia quindi tutta da verificare, che il borgo di Sant’Avendrace ospita un residuo della popolazione della vecchia città romano-bizantina-giudicale, questo borgo, che era un borgo di pescatori – lì probabilmente c’era anche il porto cartaginese; se percorrete viale Sant’Avendrace, più o meno all’altezza della chiesa di Sant’Avendrace, a destra per chi esce da Cagliari c’è una sopraelevazione: qualcuno sostiene che quello è un residuo del porto cartaginese, nel senso che lo stagno arrivava molto più indentro di quanto non sia adesso – allora, questo borgo contenderebbe l’antichità a Castello perché, non ricordo se ve l’ho detto, ma la concessione ai pisani di edificarsi il quartiere in Castello risale al 1216. La distruzione della città giudicale è di qualche decennio successivo per cui, sparita la città giudicale, salvo questo eventuale residuo più umano che urbanistico di Sant’Avendrace, è indubbio che il quartiere più antico, della fisionomia attuale di Cagliari, è Castello. Sto quindi trascurando le rovine, i resti, apprezzabili solo archeologicamente, della presenza bizantina, della presenza romana, della presenza cartaginese, di cui non è rimasto nulla di struttura urbana, di forma cittadina.
In successione abbastanza rapida da Castello sono venuti fuori: Marina, per esigenze commerciali perché è presumibile che all’origine i pisani avessero in Castello casa e bottega e poi, quando è aumentata la popolazione e soprattutto dopo l’afflusso dei profughi di Santa Igia, le botteghe le hanno dovute mandare via e i fondaci sono nati nel quartiere di Marina. Il quartiere di Marina, in certe carte antiche, viene chiamato anche “la Pola”. Stampace era il quartiere dove stavano gli artigiani che servivano Castello. Infine Villanova era il quartiere degli agricoltori, coltivavano gli orti. Via dei giardini ne rivela la natura; via la Vega… Vega è un nome spagnolo che vuol dire terreno agricolo irriguo, mi pare, orti. Vuol dire che quella era la zona proprio che riforniva dal punto di vista agrario Cagliari. E così la città è rimasta per secoli. Via Garibaldi era via de is Argiolas. La zona di San Bartolomeo era la zona dove si mettevano all’ingrasso gli animali prima del macello. Siccome dovevano fare il viaggio per venire da fuori, perdevano peso e venivano tenuti all’ingrasso in San Bartolomeo. Ecco perché la festa di San Bartolomeo veniva curata dai macellai con il provento della vendita delle corna. Tant’è che volgarmente si chiama “sa festa de is corrudus”. Ma la spiegazione non è quello che si pensa. La città è rimasta così.
A metà del XVI sec. Sigismondo Arquer, collaborando a un testo che oggi diremmo “enciclopedia storico-geografica” di un autore di lingua tedesca, ha redatto una monografia corredata anche da rappresentazioni grafiche figurative e Cagliari è ancora il classico quadrifoglio: Castello, Marina con il porto, si vede anche la palizzata del porto, Stampace, Villanova. Il quadrifoglio così è rimasto, ripeto, sino a epoche recenti e le eccezioni non infirmano mai la regola. Quindi eccezioni ci sono state di edificazioni sporadiche, in parte – però – anche ville padronali legate ancora ad aziende agrarie: villa Calvi, in via Bacaredda, villa Pollini andando all’Oncologico, certe fattorie di Sant’Avendrace, di via Cornalias, ecc., edifici anche di abitazione. Per esempio pensate dove hanno messo il cimitero a Bonaria; che cosa vuoi dire? Che l’espansione urbana lì non arrivava assolutamente e sto parlando dei primi decenni dell’800. Il mattatoio, vuoi dire che l’espansione urbana non aveva toccato quella zona: uno non è che si mette il mattatoio sotto il naso, lo mette dove non disturba.
Ecco allora le funzioni quali erano: Castello ospitava i mercanti e gli amministratori; le istituzioni avevano sede in Castello. Il comune, l’attuale vecchio comune in piazza Palazzo, probabilmente risale ai XV sec. Non so dirvi dove potesse aver sede prima il comune ma certamente stava in Castello. Gli esponenti del potere pisano, curatori degli interessi diretti di Pisa, stavano entro le mura che cingevano il Castello, che ospitavano anche quello che oggi diremmo il comando militare. Quindi in Castello cosa stava? La burocrazia, l’autorità religiosa, il capitolo, il vescovo, c’erano anche dei monasteri, dentro Castello, sia maschili che femminili, due monasteri di clarisse, un monastero di domenicane, probabilmente un monastero di benedettini in epoca molto alta; il ceto mercantile, non solo nel senso di mercanti che trafficavano con l’esterno, ma i negozianti, cioè quelli che vendevano su piazza compresi i produttori di certi prodotti locali. Da epoca aragonese sono rimaste alcune denominazioni: via del Duomo, l’attuale via del Duomo, era la strada dei pellicciai; un’altra strada, forse adesso non esiste più, forse è una che è finita poi inglobata nelle costruzioni, era la strada dei biscottai. Qui c’erano anche queste funzioni, quindi funzioni istituzionali, mercantili e commerciali e poi finirono per abitarci anche i mercanti diventati aristocratici, i feudatari e questo soprattutto in epoca spagnola. Castello diventò il quartiere della nobiltà, dell’aristocrazia. Tuttora si individuano le case del marchese tale e del marchese talaltro, il barone di Sorso, il barone di Teulada, il marchese di Neoneli, il marchese di San Tommaso, si sanno, si conoscono. Alcune hanno ancora gli stemmi che le individuano. Come – per fare un esempio – quello del conte Borro di San Carlo, ecc.
Circa la domanda relativa a Carlo Felice, ricorderei che in alcuni ambienti storiografici piemontesi egli viene chiamato Carlo Feroce perché era un sovrano dell’”ancien régime”, quindi assolutamente non liberale. Addirittura guardava con molto sospetto il nipote a cui era costretto trasmettere la corona, Carlo Alberto, che in un momento in cui Carlo Felice era a Modena dal cognato, esercitava funzioni vicarie. Il re fu di mano larga con gli ambienti liberali torinesi, Carlo Felice si precipitò a Torino e mise in quarantena Carlo Alberto. Però per la Sardegna e per Cagliari è un benemerito. Vi cito alcune cose: la strada Carlo Felice perché porta questo nome? Perché l’ha pagata lui, l’ha fatta fare e l’ha pagata lui. Il museo archeologico nasce da un nucleo donato da Carlo Felice. Il museo mineralogico dell’università, purtroppo chiuso rigorosamente e non visitabile, nasce da un nucleo regalato da Carlo Felice. Vi sto citando alcune cose. Per questa ragione, per lo meno le classi dirigenti, il giudizio che ne potesse dare il popolo non lo so, ma per lo meno le classi dirigenti nutrirono per Carlo Felice un senso di gratitudine e di riconoscenza. Per questa ragione decisero di erigergli un monumento il quale per altro è stato collocato dove è adesso molto più tardi, tant’è che una delle iscrizioni del piedistallo, anche qui vado a memoria quindi non prendetemi alla lettera, mi pare che dica: «Ripara il lungo oblio» e la posizione originaria non era prevista là dove oggi è il monumento, ma era da sistemare su quella porta che chiudeva via Manno e che poi è stata demolita. Questo forse anche può spiegare quella che si dice essere un’anomalia. Si vorrebbe che la mano di Carlo Felice debba indicare la direzione della strada e invece non la indica. Se invece voi pensate che anziché lì fosse messa in chiusura di via Manno, continuerebbe a non indicare la Carlo Felice, ma non si presterebbe a questo giudizio di critica negativa. La statua è di un sardo, lo scultore è un sardo, Andrea Galassi, che è autore anche di altre cose per esempio della tomba della regina Maria Luigia nata Savoia, regina di Francia morta a Londra, ma sepolta a Cagliari nella cattedrale.
La Cagliari giudicale, gli aragonesi e gli spagnoli
Luca. La mia domanda si riferisce al periodo della Sardegna intorno al XII, XIII sec. dal punto di vista commerciale. Praticamente la Sardegna viveva, inizialmente, chiusa nel mondo patriarcale e rurale, poi, come tutte le cose che vivono, ebbe il bisogno di comunicare o di confrontarsi con altri popoli. Penso che il commercio fu una delle leve che favorì questo. Però è vero che a quei tempi era anche difficile che la Sardegna venisse raggiunta via mare a causa delle difficoltà della navigazione. La domanda è appunto questa: ci fu qualche incentivo ai sardi per favorire il traffico commerciale? E se sì, come si regolarono i giudici in quel tempo per tenere l’ordine politico e sociale degli abitanti? Grazie.
Alessio. Visto che Cagliari è stata occupata da molte popolazioni, quale è stata la cultura che è rimasta più radicata in città? Poco fa lei diceva che i paesi che ci sono nell’hinterland di Cagliari si sono allargati. Ecco, la presenza di questi paesi intorno a Cagliari può disturbare l’espansione della città? E poi: quali erano i traffici nel XII, XIII sec., quali le difficoltà della navigazione e che contributo diedero i sardi?
R. – La Sardegna allora esportava quei prodotti che aveva già esportato interessando i fenici e i cartaginesi e i romani e che poi continueranno a interessare gli spagnoli e diciamo anche gli italiani, fino a epoche molto recenti: un po’ di minerali. I pisani coltivavano le miniere argentifere dell’Iglesiente, non per nulla una si chiama ancora Campo Pisano. Iglesias è una fondazione pisana dei conti della Gherardesca, di Ugolino. Si esportava sale. I monaci vittorini avevano i monopolio del commercio del sale, per esempio lo portavano in Francia. Si esportavano pellami, si esportava formaggio, cioè si esportavano prodotti di quella che era la struttura economica sarda, l’agricoltura. Mentre purtroppo dipendeva, e in gran parte continuiamo a dipendere, per tutti quelli che sono i manufatti: dall’abbigliamento, alla stoviglia, tutto quello che è di consumo. Oggi siamo diventati tributari anche dell’agricoltura. Se andate nei mercati trovate cassette di frutta che vengono da Israele, dalla Turchia, ecc. La navigazione era certo difficile, in epoca pisana non era certo così difficile come poteva essere stata in epoca fenicia, ma non è che fosse cambiata molto, ma erano navigatori arditissimi e la Sardegna quindi interessava moltissimo Pisa e Genova perché un effetto delle crociate è stata la diminuzione della pressione araba, della guerra di corsa dei mussulmani e quindi la riapertura di una certa libertà di commercio nel Mediterraneo. Addirittura con traffici che interessavano anche i regni del nord Africa, i regni berberi e arabi del nord Africa. Per cui la Sardegna costituiva una tappa importantissima per Pisa e Genova in questi loro traffici nel senso dei meridiani da nord a sud.
Io non sono in grado di dirvi (perché ho leggiucchiato solo qualche testo che riguarda proprio l’aspetto dei commerci, pubblicazioni di Artizzu, di Boscolo, ecc.) se ci sia stato un apporto imprenditoriale dei sardi al commercio. Certamente però un grosso apporto fu dato con quelle donazioni che ho già ricordato da parte dei giudici e delle più elevate famiglie agli ordini monastici e alle chiese di Genova, di Pisa, di Marsiglia che indirettamente accentuavano l’interesse di queste realtà, Marsiglia, Genova, Pisa, l’interesse alla Sardegna e quindi favorivano indirettamente questo scambio, che fu anche scambio culturale, già da allora, non solo nel senso di importazione di stile architettonici, di arte. Faccio un salto per dire, pensate che cosa è stato l’apporto dell’arte, della pittura catalana nei secoli XV e XVI in Sardegna. Il successo della mostra dei retabli sardi a New York è questo. Il tesoro della chiesa francescana di San Francesco o della chiesa domenicana di San Domenico, che sono nelle pinacoteche, è nelle pitture catalane.
Tornando indietro. I sardi, soprattutto nelle classi elevate, andavano ad abitare anche fuori. Nino di Gallura abitava in Toscana. Come fa Dante a conoscere anche particolari della Sardegna? Sì, Dante sapeva tutto, però evidentemente aveva anche dei rapporti fisici con persone. Lapo Saltarelli, per ragioni che gli consigliarono di tagliare la corda, è venuto a vivere a Cagliari e ci è morto. Certamente c’era tutto un traffico di relazioni, come si verificherà dopo, in periodo spagnolo. Quanti sardi andavano a studiare nelle università spagnole o nelle università italiane! Sigismondo Arquer, la pronunzia esatta dovrebbe essere Archer, aveva studiato fuori. Quanta cultura hanno portato i monaci? Cultura che ha arricchito, trasformato la cultura locale sarda che era una cultura grossomodo agraria. I condaghi, questi documenti scritti dei primi due o tre secoli del secondo millennio, riflettono la civiltà agraria. Però si ha la testimonianza di biblioteche, di insegnanti. I vescovi cartaginesi nel VI sec. d. C. hanno impiantato a Cagliari un luogo di studio, fra l’altro un luogo dove si producevano dei codici, si manoscrivevano i codici. Ne esistono in diverse celebri biblioteche, al Vaticano, a Verona scritti a Cagliari. Certamente anche questo ha avuto un influsso perché la cultura si comunica. Anche un monaco… non pensiamo a una monaca di clausura, che sta veramente chiusa dentro e che ha rapporti solo attraverso la ruota. Quando parliamo di monaci benedettini diciamo di gente che operava anche nella vita civile, erano consiglieri dei giudici, molti diventavano vescovi delle diocesi sarde e quindi diffondevano cultura che era una cultura nuova o comunque diversa da quella che si era conservata in Sardegna, anche in agricoltura. Pensate alle bonifiche in cui erano famosi i cistercensi, erano specializzati nel bonificare le paludi.
Luca ha chiesto anche come governavano i giudici. In teoria era un potere dispotico. Sia pur piccoli, erano dei sovrani assoluti, però, intanto, erano circondati dai maggiorenti, da questi consiglieri, spessissimo, quasi normalmente degli ecclesiastici e poi avevano anche delle istituzioni non dico democratiche, assolutamente non posso dirlo, ma che rappresentavano attraverso la presenza degli appartenenti ai ceti più elevati anche gli interessi delle zone periferiche: per esempio nell’amministrare la giustizia, si tenevano “le corone”, così venivano chiamate. Avevano tutta una struttura di funzionari che governavano le subregioni, i subterritori, le curatorie: Maiore d’Escolca e tante denominazioni. Cioè esisteva anche una struttura burocratica in cui il potere, in teoria assoluto, un po’ veniva sfilacciato e diluito. C’è un particolare curiosissimo venuto fra l’altro in evidenza quando Giovanni Paolo Il è venuto a Cagliari (1985): non ricordo dove, forse all’ospedale Brotzu, gli è stato fatto omaggio di una pubblicazione dove è riprodotta una lettera che il sovrano polacco di allora – adesso il secolo esatto non ve lo so dire, ma diciamo XII sec. se non addirittura XI – scrive al papa chiedendogli di fargli avere notizie sulla struttura dei giudicati di Sardegna, perché gli e sembrato che potesse interessare la forma di governo alla Polonia.
Alessio chiede quale cultura ha più inciso. Credo di aver già risposto e confermo: quella romana e quella spagnola. Vi ho già portato anche esempi al limite della piccola curiosità, ma significativi. Noi, in famiglia, con i miei fratelli parliamo in sardo. Io adesso non so farvi il conto ma vi assicuro che una notevole parte delle parole che usiamo è spagnola. Vi ho già detto i nomi dei mestieri: su ferreri, ferrer, su piccaperderi, piccapedrer, su fusteri, adesso non continuo ma sono proprio molti
L’ultima domanda di Alessio: se l’attuale cintura dove Cagliari si è estesa, ma che in qualche modo la limita, è un freno all’espansione. Rispondo sì, se si vuol intendere che una Cagliari che dovesse limitare il proprio fabbisogno di nuova espansione – non entro adesso a dare un giudizio se sia auspicabile o meno, restiamo ai fatti – al proprio territorio comunale Cagliari è morta, ha finito. Gli resta da mettere qualche grattacielo sul colle di Tuvixeddu o Sant’Elia e poi ha finito. Non è un limite se si guarda a quel coordinamento che, specialmente dal punto di vista del governo del territorio, l’area metropolitana riconosciuta attribuisce all’autorità metropolitana. (Lì c’è una confusione fra area e città metropolitana che a volte può far deviare la comprensione; diciamo l’autorità metropolitana) Questo governo del territorio non sarà più il governo fatto da Cagliari per i suoi pezzettini di terreno o da Sestu per le sue ancora ampie risorse di terreno, sarà un governo, una disciplina urbanistica fatta da questa autorità che non è solo espressione della città dominante che è Cagliari, ma proprio di questa autorità che è rappresentativa di tutti quei comuni che vi cadono dentro. Vista così allora non è un limite ma c’è una possibilità di espansione. Mi limito a dire: pensate quale effetto positivo potrebbe avere per diminuire l’intasamento di Cagliari se alcune strutture burocratiche o comunque di servizio potessero essere collocate, oggi che la distanza non rappresenta più un limite, nel territorio di quelli che ancora dobbiamo chiamare “altri comuni” e che domani invece chiameremo “porzioni dell’area metropolitana”. Un esempio che è già in corso di realizzazione è l’università, cioè il Policlinico, che è nato nella sua nuova sede quando era comune di Cagliari e che oggi è comune di Monserrato.
La Quarta Regia e il castello di San Michele
Massimo. Volevo chiederle qualcosa riguardo il colle di San Michele. Se la struttura che c’è sopra ha davvero una grande importanza. Grazie.
Maurizio. Lei prima ha parlato di sviluppo demografico e sviluppo dell’industria. La domanda che volevo rivolgerle è questa perché non si è mai cercato, così sembra, uno sviluppo dell’industria verso il turismo visto che abbiamo un ambiente anche naturale oltre che monumentale e che si potrebbe fare benissimo turismo senza deturpare le migliori località? Grazie.
Giorgio. Mi è capitato di leggere una sua poesia in sardo che parla della sagra di Sant’Efisio intitolata a Rita e a Remundu e parla della Quarta Regia. Volevo sapere qualcosa in più sulla Quarta Regia. Vorrei anche sapere quando fu costruito il bastione.
R. – Va bene. Colle di San Michele: è importante? Il colle o il castello? Penso il castello, no? O meglio dire, certamente sono importanti il castello e il colle. Il colle è importante perché è rimasto una delle pochissime aree libere di Cagliari anche se abbondantemente accerchiato, comprese le strutture comunali, l’acquedotto… Il castello è certamente molto antico. Qualcuno dice che sull’area dove adesso sorge il castello ci sia stato un monastero, però io non conosco documentazione che lo dimostri. Il castello è certamente antico, sicuramente aragonese se non già pisano, ma sicuramente aragonese. Ed è una delle poche strutture militari medioevali rimasta in piedi, unica a Cagliari salvo la cinta muraria di Castello. È però anche una delle poche della Sardegna, perché il castello di Iglesias è in rovina, altri come Osilo non sono in condizioni migliori, Burgos, forse quello di Bosa è un tantino più conservato. E quindi rappresenta un relitto storico e architettonico molto importante di testimonianza di un’epoca e di una funzione.
Qual era la funzione di questi castelli? Sorgenti su aree elevate che consentivano il controllo del terreno, un po’ la stessa funzione dei nuraghi, tornando indietro di duemila anni, il controllo del territorio per sorvegliare e difendersi dai conflitti militari. Pensate a quanti conflitti ci son stati anche in epoca giudicale. I quattro giudici, anche se in sostanza appartenevano agli stessi ceppi familiari, non è che si volevano molto bene fra di loro e quindi tentavano di farsi lo sgambetto e poi erano appunto in continua difesa contro eventuali attentati. Per esempio in epoca aragonese, quando si è fatto più acuto il dissidio con gli Arborea che arrivavano almeno sino a Sanluri, certamente il castello di San Michele era un presidio difensivo contro il tentativo, a cui gli Arborea tendevano, di diventare i padroni dell’intera Sardegna. Hanno occupato Iglesias, hanno occupato Sassari. Veramente stavano per riuscirci. Adesso noi non poniamoci il problema se ci siano o se non ci siano riusciti, stiamo ai fatti come si sono svolti. Allora si tratta della presenza di un tipo di architettura, l’architettura militare, interessante tanto che ha giustificato l’intervento di restauro e di recupero, che ha consentito anche di arrivare al recupero del colle perché è in corso anche la sistemazione forestale e, nei piani che avevano giustificato anche il finanziamento dello Stato, dovrebbe diventare proprio la sede del museo del periodo medioevale.
Nell’attuale museo archeologico esiste anche un fondo medioevale che però è in mezzo a tutto il resto, romano, cartaginese… e poi perde sicuramente importanza, rispetto alla importanza del periodo nuragico e del periodo cartaginese. Lì troverebbe viceversa una sua collocazione che forse consentirebbe anche altri recuperi perché beni di questo periodo non è che non ne esistono diffusi qua e là. Mi si è detto che in una casa di Decimo c’è un sarcofago che proviene dalla chiesa di San Francesco di Stampace. La lastra tombale di Lapo Saltarelli, che vi ho citato prima e che era nella chiesa di San Francesco, è stata ritrovata casualmente perché era stata usata come lastra di marmo negli scalini di accesso al santuario di Bonaria.
Data del bastione di San Remy. È sostanzialmente coevo del municipio e la ragione è questa: il comune di Cagliari è povero, ma era soprattutto allora poverissimo, ma gli ultimi anni del XIX sec., Cagliari ebbe un colpo di fortuna. Il comune di Cagliari vinse una lunghissima, annosa causa contro lo Stato che, in una specie di riforma Vanoni di allora, aveva assorbito anche certi dazi doganali, certi diritti doganali, trascurando che per concessioni sovrane precedenti una parte di questi diritti doganali erano del Comune. Il Comune fece causa, una causa che è durata molto a lungo e che il comune di Cagliari, verso il 1895 mi pare, ha vinto. Per cui si è visto restituire dallo Stato una somma, la cito a memoria, di tre milioni. Una somma astronomica. Oggi non vi saprei dire in lire attuali. Con questi soldi, non senza dibattiti, polemiche, conflitti all’interno anche del consiglio comunale, si decise di fare finalmente la costruzione del nuovo municipio in via Roma, che poi costò molto più del previsto, perché i lavori durarono a lungo, e il bastione, la trasformazione dei vecchi bastioni.
Perché si chiama bastione? Perché è un vestito che è stato messo addosso a due vecchi bastioni della cinta muraria spagnola. Se voi entrate nella passeggiata coperta, un’arcata dà sul terrapieno, poi c’è un’altra arcata, e una terza arcata è addossata alle mura tant’è vero che esiste tuttora una comunicazione, una porta che va a finire in via Università dove c’è adesso la sezione dei vigili urbani, che passa attraverso il cunicolo delle mura. Dietro la passeggiata coperta quindi ci sono le mura. Gli anni allora son quelli fra il 1899 e il 1905. All’imbocco delle scale dove c’è la torretta c’è eternato il nome di quello che ha fornito le marmette, ditta tal dei tali 1905. Gli anni della costruzione sono quelli. Anche lì poi i lavori sono andati ovviamente alle lunghe, come capita tuttora.
Che cos’era la Quarta Regia? Tuttora, imboccando la strada che poi è la stessa che grossomodo si collega a quella che serve per venire qui, gli svincoli dell’area industriale, se si prende proprio la strada per Giorgino, si vede questa torretta piccolina. È l’edificio della Quarta Regia. Che cos’è la Quarta Regia? Al di là del nome pomposo è un ufficio di esazione di un dazio. Lo stagno apparteneva alla corona, quindi il pesce che ci si pescava era della corona, però veniva data la libertà o la concessione di pesca, a volte proprio sotto forma di concessione, a un imprenditore, a volte, per certi tipi di pesca, ai liberi pescatori. Ma del pescato la quarta parte era destinata a compensare la titolarità sovrana, quindi per ogni quintale di pesce, venticinque chilogrammi appartenevano al re. Quarta parte Regia. Un dazio, un tributo fiscale, riconoscimento della proprietà. Se posso fare una similitudine, le decime ecclesiastiche. Ma quella era più che altro proprio un’imposta.
P. Salvatore Morittu. Siamo arrivati già alle otto, dobbiamo chiudere. Le voglio fare una domanda per una risposta flash. Cagliari ha 1.500 ogliastrini, 450 bonorvesi, non so quanti altri logudoresi e via. Questa composizione di Cagliari, secondo lei, influisce in una sorta di “città non amata” da parte della gente per cui non ci si identifica con essa?
R. – Le dico di sì e anche qui facendo le doverose, numerose e lodevoli eccezioni di “esterni” che son diventati cagliaritani anche nello spirito. Però è vero. Per esempio, perché è decaduto malamente il Castello, il quartiere di Castello? Perché abbandonato dai vecchi abitatori, per ragioni anche giustificabili, quando le nuove tecniche costruttive hanno fatto case più confortevoli, al loro posto son venuti, soprattutto negli strati, ma parlo di strati fisici, più umili delle, case, gli inurbati che trovavano convenienza economica perché i fitti erano modesti, oppure se erano ogliastrini rivenditori perché si son comprate delle case abbandonate dai vecchi abitatori. Ma su queste case non avevano nessun rapporto affettivo, né avevano l’intenzione di starci, perché un disperato che veniva dal paese X e che si adattava a vivere in uno dei sottani inabitabili di Castello, sperava di starci 24 ore. Non aveva interessi né a tenerlo pulito, né a portarci migliorie. D’altra parte il basso valore economico non invitava neanche i proprietari, perché il reddito era modestissimo, a investire nel miglioramento. Questo ha influito moltissimo, il non amore, nel processo di decadenza del centro storico. Mentre non ha influito sotto altri profili perché in consiglio comunale abbiamo avuto tanti, parlo dell’esperienza mia, tanti esponenti di queste comunità. Abbiamo avuto un Morittu, bonorvese, tanti ogliastrini.
P. Salvatore Morittu. Ringraziamo don Paolo per la bella relazione che ci ha fatto e nel salutarlo vogliamo anche ricordare un aspetto che è importante. Voi avete visto la serenità, il sorriso di don Paolo, però don Paolo ha anche preoccupazioni di salute. Infatti la prossima settimana riprenderà un altro ciclo di cure. Bene, le vogliamo augurare che quel Dio nel quale lei profondamente crede le sia sempre vicino, le dia tutta la forza e il coraggio che veramente occorre per affrontare anche questa situazione, e mentre le assicuriamo il nostro ricordo, la ringraziamo anche del grande esempio che ci ha lasciato, non ultimo anche quello dell’affetto espresso stasera. Grazie e tanti, tanti auguri.
Il dialogo prosegue per iscritto
Valentina. Cagliari cresce a livello edilizio, culturale, politico e sociale, di anno in anno. A questa crescita, progresso, si affianca il decadimento di quei quartieri (Castello, Stampace, Marina) che rappresentano la storia della Cagliari passata. Lei ne ha già parlato, ma vorrei che approfondisse il discorso. Cosa si sta facendo, o almeno, cosa si pensa di fare perché questo decadimento non sia totale, irrecuperabile? Perché si dà la precedenza al progresso, dimenticandosi la nostra storia?
R. – Il fenomeno di sviluppo del tutto e di decadenza di una parte è comune a tutte le realtà urbane. In tutta Italia esiste il problema dello sfiorimento dei centri storici, cioè dei nuclei originali. Vi concorrono diverse cause: a) le tipologie edilizie in genere non corrispondono ai moderni criteri abitativi; b) le strade non sono adeguate al traffico; c) mancano dei “servizi” (scuole, mercati, spazi per lo svago, ecc.); d) la perdita di valore economico non consente alla proprietà privata la manutenzione degli immobili. Si aggiunga, per Cagliari, il danno provocato dai bombardamenti.
Un’ultima causa di degrado deriva dalle stesse norme urbanistiche. Paradossalmente la preoccupazione di salvaguardia del centro storico di Cagliari ne ha segnato l’inesorabile agonia con norme di estremo rigore e col rinvio a piani particolareggiati o mai fatti (Castello) o fatti e però decaduti. Ora vigono le “norme di recupero” che stanno consentendo alcuni interventi ma resta il problema finanziario: il singolo privato non è sempre in grado di affrontare le operazioni di risanamento che difficilmente hanno un ritorno economico.
Comunque, per Stampace alto (da Sant’Anna verso l’ospedale) esiste una proposta di piano, soggetta però a critiche anche aspre. In Castello il Comune sta (lentamente) realizzando il rifacimento delle strade e dei sottoservizi (acqua, gas, fogna, telefono, energia elettrica). Ciò ha già richiamato diverse attività artigianali e commerciali (antiquariato) e alcuni recuperi abitativi.
Raffaela. La mia riflessione è riguardo alla stagione lirica estiva presso l’Anfiteatro romano e adesso anche di quelle poche rappresentazioni al Civico. Riguardo la possibilità che si dà al cittadino di usufruire di queste poche occasioni tenendo conto che il prezzo dei biglietti non è sempre accessibile a tutti. Allora a Cagliari la cultura è per pochi?
R. – Certamente il costo degli spettacoli lirici, dei concerti, della prosa, è alto, perché alti sono i costi, a cominciare dalle “paghe” agli artisti. Il Comune già sostiene con interventi contributivi oneri intesi a equilibrare i bilanci degli spettacoli ma evidentemente ciò non basta a renderli accessibili a tutti.
Matteo. Prima che Selargius diventasse comune a sé, quando ancora faceva parte della città di Cagliari, che ruolo esercitava nell’economia del paese, che posto occupava politicamente e quali sono le sue radici?
R. – Selargius quando fu aggregato a Cagliari era comune autonomo (alla pari degli altri paesi del Campidano). È tornato ad esserlo nel dopoguerra. Era un centro agricolo di qualche importanza e con un territorio vasto e adibito alle classiche colture della zona: grano, vigna, mandorle e pascolo. Aveva però anche una tradizione nel campo dell’edilizia (muratori, piccapietre) da cui ebbero origine anche ceppi di impresari edili cospicui. Dal punto di vista politico quando era unito a Cagliari non aveva forse un ruolo specifico anche perché erano gli anni del regime fascista quando non era possibile fare politica che non fosse quella del Partito Nazionale Fascista.
Le sue origini sono forse tradite dallo stesso nome del paese: Selargius infatti, da “Cellarius” (cantine per il vino) o da “Cerarius” (in relazione all’agricoltura e conseguente produzione di cera) che riconducono alle attività agrarie. Un’altra etimologia potrebbe essere da “Salarius” in relazione al fatto che in epoca pisana e successivamente i paesi attorno allo stagno di Quartu e di Molentargius dovevano fornire la mano d’opera per l’estrazione del sale. Da notare che in dialetto il nome di Selargius è “Ceraxius” che si avvicina molto a “Cerarius” e anche a “Cellarius”.
Di Sant’Efisio, Sant’Elia e i cagliaresi
Davide. Due domande: in quale anno ha iniziato la sagra di Sant’Efisio a Cagliari e perché? E poi: come mai all’epoca Sant’Elia, Is Mirrionis, Sant’Avendrace, San Michele, ecc. sono stati i quartieri più poveri di Cagliari?
R.- La sagra di Sant’Efisio (1°-4 maggio) nasce da un “voto” emesso il 4 marzo 1656 dal Consiglio Civico di Cagliari per impetrare da Sant’Efisio la liberazione dalla peste che infierì dal 1652 al 1656 e che cessò subito dopo il voto. Il 1° maggio 1657 tenendo fede all’impegno, il simulacro di Sant’Efisio fu portato a Nora luogo del martirio per rientrare a Cagliari il successivo 4. Da allora il voto si scioglie ogni anno.
Circa le ragioni della povertà di alcuni quartieri periferici di Cagliari direi che esse sono insieme uguali e diverse. Sant’Elia, ad esempio, ha cominciato ad essere abitato, nel vecchio lazzaretto, da famiglie prive di risorse finanziarie che il Comune negli anni ’20 di questo secolo allogò in quell’edificio. Dopo i bombardamenti del 1943, si pose il problema delle famiglie rimaste senza casa e senza risorse. Si decise allora di costruire un blocco di “case minime” proprio a ridosso del lazzaretto facendo nascere il “Borgo Sant’Elia”. Ovviamente ad abitarvi andarono le persone di più basso livello economico, solo a queste sentendosi chiamato a provvedere il Comune.
Is Mirrionis è in parte situazione simile (utilizzo delle caserme oggi sede dell’ospedale), in parte frutto di una edificazione spontanea di ceti operai, specie di recente inurbamento, perché le aree costavano poco. Il grande, intensivo sviluppo edilizio è poi venuto dai piani di edilizia pubblica popolare (Comune e IACP) di cui destinatarie sono sempre le fasce meno abbienti. Ciò vale anche per San Michele (dove esisteva un poverissimo nucleo abitato prima della guerra – il “Villaggio Carboni” che utilizzava un vecchio caravanserraglio).
Maurizio. Perché l’Amministrazione comunale o chi ne ha l’incarico, non ha mai dato all’industria anche un indirizzo verso il turismo, così come fanno altre città marinare? E come mai si è deciso di fare il porto-canale senza fornire la città di qualcosa come alloggi adeguati, mense pubbliche, ecc. in prospettiva dell’afflusso di umanità che questa opera avrebbe portato in città?
R. – Le competenze del Comune in materia di turismo e industria erano minime, spettando ad altri enti salvo l’orientamento urbanistico generale (anch’esso però sovrastato dal piano consortile). La vera ragione è che non avendo Cagliari un proprio territorio libero, si sarebbe dovuto arrivare (tentativi furono fatti ma fallirono) a un piano intercomunale. Ora potrebbe arrivarci l’”area metropolitana” se sarà costituita.
Quanto al turismo, è forse mancata, più che la spinta pubblica, la sensibilità privata Cagliari è orientata al terziario commerciale e burocratico e del resto si palesa perdente colle sue risorse storico-artistiche, rispetto al richiamo dei valori offerti da Pula e da Villasimius.
Gianfranco. Mi piacerebbe sapere da lei le origini del quartiere di Sant’Elia e le sue attuali condizioni. Ho sempre sentito infatti, che esso è stato fondato da minoranze sociali (delinquenza, tossicomania, prostituzione, ecc.) di altri rioni.
R. – A questa domanda ho già risposto riferendomi al quesito di Davide. Preciserei però che non può dirsi che a “fondare” quei quartieri siano state le minoranze; piuttosto è che l’ambiente fisico e sociale ha favorito l’insorgere di fenomeni asociali.
Alessio. Tre domande: Cagliari è mai stata una città come centro di smistamento del tipo di quello che si vorrebbe fare oggi con l’apertura del porto-canale? È vero che il carcere di Buoncammino tanto tempo fa era un convento di clausura? E se non era un convento (come si dice) cos’era? Infine: quanto tempo esiste via Roma?
R. – Alla prima domanda rispondo no. Il porto ha sempre avuto la funzione di servizio del commercio locale. È stato solo quando l’armatoria ha messo in circolazione navi da 100 o 200mila tonnellate che si è vista l’esigenza di porti di smistamento e Cagliari ha proposto la sua candidatura.
Alla seconda: non mi risulta che nel viale Buoncammino ci fosse un convento nel posto dove poi è sorto il carcere. La sua costruzione risale alla fine del secolo scorso. Infine alla terza: la via Roma, nella sua configurazione attuale (palazzi coi portici) risale anch’essa al periodo a cavallo tra la fine del milleottocento e l’inizio del millenovecento. Prima era una strada di scarso valore di accesso al porto.
Luca. C’è qualche motivo particolare perché Cagliari non possiede case o palazzi di altezza elevata, a parte qualche eccezione? E poi: ho letto che in passato c’è stata una moneta chiamata “cagliarese”. Per quale motivo è stata sfruttata?
R. – Se ci si riferisce al vecchio centro (i quattro quartieri storici) credo – ma non ho elementi documentari per dirlo – che la ragione sia da trovare almeno in due circostanze: la prima è che gli edifici erano in genere padronali, servivano cioè all’abitazione del nucleo familiare e non c’era quindi bisogno di sfruttare intensivamente l’area per ricavare un reddito dalla locazione; la seconda è che il tessuto viario – senza giungere alle dimensioni minime dei carrugi di Genova – era (ed è) stretto e quindi una maggior altezza degli edifici avrebbe ulteriormente diminuito i necessari valori di insolazione (e conseguente luminosità) e aerazione.
Diversa è la risposta relativamente ai quartieri di espansione. Nei più relativamente antichi (ad esempio San Benedetto) si è dovuta rispettare la norma urbanistica che non consente di elevare più di una volta e mezzo (se ricordo bene) la larghezza della strada. Nei più moderni (ad esempio Fonsarda, CEP, ecc.) le altezze maggiori esistenti sono state consentite proprio dalla maggior larghezza delle strade e dalla disponibilità di area che ha permesso (e imposto) di conservare il rapporto tra metri cubi di edificio e metri quadri di superficie edificatoria, lasciando liberi spazi a verde o, comunque, inedificati.
Sul “cagliarese” personalmente non saprei dire nulla. Mi servo allora delle notizie che trovo nel libro “Monete della Sardegna”, di Enrico Piras. Vi si può apprendere che, sotto il re Giacomo II d’Aragona, a Iglesias fu coniata una moneta denominata “denaro” che era la base delle monete di specie, del sistema di conto, dei prezzi interni. Sotto il re Alfonso V fu coniata moneta da 2 denari, chiamata prima “denaro reale” e poi “reale minuto”. Sotto Ferdinando Il, infine, fu chiamata “cagliarese”. Si conoscono molte coniazioni di questa moneta sia in rame sia in “mistura”: sotto Ferdinando Il d’Aragona, sotto l’imperatore Carlo V, sotto Filippo II di Spagna (del valore di 3 cagliaresi), sotto Filippo IV di Spagna (del valore di 2 e 3 cagliaresi), sotto Carlo II (3 cagliaresi), sotto Carlo III (3 cagliaresi). La coniazione continuò sotto i Savoia: Vittorio Amedeo II, sotto Carlo Emanuele III (3 cagliaresi e “cagliarese vecchio”, “cagliarese nuovo”, “mezzo cagliarese”), sotto Vittorio Amedeo III e, infine, sotto Vittorio Emanuele I nel 1813.
Dell’identità cagliaritana e delle periferie, del Poetto e dell’Area metropolitana
Francesco. Vorrei porre quattro distinte domande. Chi è il “cagliaritano”? Cosa potrebbero fare i cagliaritani per Cagliari (e che cosa Cagliari potrebbe dare ai suoi abitanti)? Non pensa che sarebbe importante salvaguardare, restaurare e riabitare i quartieri storici di Cagliari nei quali oltre alle vestigia ci sono, nel senso più ampio del termine, radici e identità culturali? Ci sarà mai la possibilità che Cagliari abbia, dal punto di vista marittimo e commerciale in generale, tutta l’importanza che la sua posizione potenzialmente le dà?
R. – Nell’ordine, rispondo che se guardiamo alle caratteristiche dell’origine limitando la “cagliaritanità” a chi lo sia da alcune generazioni, i cagliaritani, oggi, forse non sono 30.000. Se invece guardiamo al rapporto che passa tra l’individuo e la città, è cagliaritano chi vi risiede con l’animo di diventarne membro stabile (non, perciò, i pendolari o chi aspira, al cessare l’attività, a tornare al suo luogo d’origine). Ma soprattutto è cagliaritano chi si immedesima nello spirito, nella tradizione, meglio se ne assume il dialetto; chi ama la città, chi si interessa delle sue sorti, chi la rispetta, chi collabora a farla migliore.
Forse ho già risposto per quanto riguarda ciò che i cagliaritani potrebbero fare per Cagliari; per il rovescio, per ciò che Cagliari dovrebbe dare ai cagliaritani (ma esiste una Cagliari che non è “i cagliaritani”?) è indubbio che occorre: più case, più lavoro, più ordine nel traffico, più verde, più scuole, più rispetto e recupero dei monumenti storici, più senso di solidarietà (ma ci si conosce?).
Anche al terzo quesito in parte ho risposto nel secondo. Certo è che il ritardo di cinquant’anni nel risanare le ferite della guerra e i trent’anni trascorsi dal piano regolatore del prof. Mandolesi, hanno accentuato il degrado dei quartieri storici che in conseguenza hanno anche subito un fenomeno di impoverimento umano. È quindi tempo di recupero (lungaggini burocratiche permettendo, il “piano di recupero” e del 1990 e si può dire che muova ora i primi passi) sia del tessuto abitativo sia dei beni culturali (chiese, edifici storici). E qui però insorge il problema finanziario le risorse proprie del Comune non sono neanche lontanamente sufficienti e perciò servono finanziamenti esterni (Stato, Regione, ecc.) che non sempre è facile ottenere e che talvolta vengono dati ma con criteri di destinazione che non sempre corrispondono a quelli del Comune.
Per raggiungere l’obiettivo della importanza marittima pari alla felice ubicazione di Cagliari e alla disponibilità di un entroterra idoneo da oltre trent’anni (ma alcune idee rimontano già al primo dopoguerra) fu costituito il Consorzio per l’Area Industriale che ha come elemento fondamentale proprio un porto adeguato alle esigenze moderne (caratteristiche dei natanti e sistemi di trasporto) il porto containers. Il finanziamento occorrente è stato assicurato dalla fu Cassa del Mezzogiorno e in parte dalla CEE, ma a spizzichi, in tempi lunghissimi. Recenti dichiarazioni della Società che ha eseguito i lavori assicurano che gli arredi (gru, ecc.) e i servizi (edifici per Capitaneria, vigili dei fuoco, Dogana) saranno portati a termine nel 1995. Il porto potrebbe così funzionare, sia col trasferimento dell’attuale porto di via Roma, sia richiamando correnti di traffico internazionale per lo smistamento delle merci.
Massimo. Vorrei sapere se esisteva e quale importanza ha avuto in passato il porto di Marina piccola. E poi come era, circa trent’anni fa, il rione di San Michele con tutte le sue caratteristiche.
R. – Il porticciolo di Marina piccola è recente. Forse ha una trentina d’anni. Esso quindi non ha avuto un passato un ruolo.
Circa la seconda domanda Tra il castello di San Michele, il colle di Tuvixeddu, la cantoniera ANAS di viale Sant’Avendrace esistevano vigne e campi di grano e favette. Questo fino alle soglie della seconda guerra mondiale. Era quindi una zona assolutamente periferica, con popolazione agricola e un nucleo (il Villaggio Carboni) di modestissime case ultra popolari. Dove oggi sorge l’ospedale di Is Mirrionis c’erano caserme. Quindi, campagna e rifugio di diseredati (nelle grotte di Tuvixeddu).
Roberto. Ho due domande. La prima sulla zona di Is Mrrionis: in che anno è stata costruita e di che materia. Secondo, ci può, parlare un po’ più precisamente delle grotte, se cioè venivano utilizzate per scopi militari.
R – Rispondo in sequenza. Valgono in parte le cose dette a Massimo circa San Michele Lo sviluppo e venuto nel dopoguerra sia con edilizia spontanea (ne esistono ancora tracce) sia con l’edilizia pubblica (IACP, INA casa, UNRRA, ecc.).
Tuvixeddu e Tuvumannu erano le cave dove si estraeva il calcare sia per la produzione del cemento sia per la produzione della calce Non so se le grotte siano state utilizzate per scopi militari mentre e certo che sono state abitate (ad esempio quelle di via Vittorio Veneto) sino a forse 35/40 anni fa.
Gianluca. Perché tutta la fascia di Su Siccu, dal liceo scientifico Alberti sino al molo foraneo non viene valorizzato a dovere? Visto che è uno dei pochi punti verdi della città, con la pineta molto trascurata che costeggia viale Colombo, non si potrebbe effettuare un porticciolo turistico? Vorrei poi sapere di più del progetto del lungomare Poetto, nel quale si dovrebbe vietare la circolazione delle autovetture nella strada interna percorsa dall’autobus. Nello stesso progetto ci dovrebbe essere una maggiore valorizzazione anche sul piano turistico. Quale?
R. – Tutta la zona che va dalla Darsena fino alla Fiera e prosegue verso Sant’Elia appartiene al Demanio dello Stato. In particolare la pineta del viale Colombo è del Demanio Marittimo e quindi il Comune non può esercitarvi alcun potere salvo a raggiungere intese che però, per la mia esperienza, non sono state facili. Per Su Siccu in effetti a un certo momento è stata avanzata l’idea di un nuovo porticciolo (uno esiste già ma non so più se l’idea vada avanti). Il Comune aveva anche pensato ad un “lungomare” che avrebbe dovuto raggiungere il nuovo quartiere di Sant’Elia. Credo che la pratica (si trattava di bandire un concorso nazionale di progettazione o di idee) si sia fermata. Circa la seconda domanda, direi che anche per il Poetto il Comune studiò un proprio progetto (ing. Casciu) ma la Regione avocò a sé la competenza ipotizzando (non senza qualche ragione) un piano intercomunale (Cagliari-Quartu). Non so a che punto stiano le cose. Credo di ricordare che sorsero proteste anche da qualche settore ambientalista per alcune interferenze con la zona delle saline.
Marco. Volevo sapere come, nel periodo del regno Piemontese, veniva sfruttato il litorale del Poetto.
R. – Risposta facile: non veniva sfruttato, o meglio, solo le fasce agricole retrostanti erano utilizzate. I bagni venivano fatti a Giorgino e Sa Scaffa. Per di più, il territorio era, fino alla Sella del Diavolo, del Comune di Quartu.
Alberto. Come mai è nata l’esigenza da parte delle piccole frazioni di staccarsi da Cagliari divenendo autonome?
R. – Un po’ per nostalgia dell’autonomia, un po’ perché ritenevano di essere trascurate dal comune di Cagliari un po’, infine, perché non si sentivano “città”. Ora, forse, la mentalità è cambiata.
Attilio. Quali erano le risorse principali dei cittadini cagliaritani?
R. – Senza dubbio la risorsa principale era il commercio (quasi tutto in mano ai Genovesi); poi la rendita feudale agricola delle grandi famiglie aristocratiche (ma molte di esse venivano proprio dal ceto mercantile); infine dai pubblici impieghi: si ricordi che Cagliari era la capitale del governo viceregio e che quindi vi avevano sede tutte le istituzioni di livello regionale (Comando Militare, Reale Udienza, amministrazione del Patrimonio, ecc.) oltre quelle provinciali e locali.