La questione femminile al convegno del 60° della FIDAPA cagliaritana, di Gianfranco Murtas
Lo scorso sabato 19 maggio la sezione cagliaritana della FIDAPA – Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari – ha celebrato i suoi sessant’anni di attività. Lo ha fatto con molti interventi di consuntivo, di riflessione sull’attualità e circa le prospettive della sua presenza sulla scena sociale nazionale e locale; lo ha fatto con un confronto di idee, libero ed aperto, così sul piano strettamente associativo come e più ancora, forse, sul complessivo piano delle dinamiche combinate della società civile e di quella economica rilevate dal punto di vista, come si dice, femminile.
Poteva rivelarsi utile un confronto fra l’oggi e l’ieri, addirittura l’ieri di un secolo fa. E così alla fiducia delle responsabili della sezione cittadina debbo l’accoglienza di un contributo su alcuni aspetti proprio della questione femminile in Sardegna nel passaggio fra Ottocento e Novecento, negli anni cioè della cosiddetta “belle époque” – modesta, forse, la nostra, ma comunque riconoscibile non solo per le atmosfere progressive delineatesi in quell’arco di venti-trent’anni, ma riconoscibile anche e proprio per gli step che, nel costume, nelle abitudini di vita, nell’organizzazione civile hanno marcato gli avanzamenti.
Sullo sfondo, sempre, l’irrisolta questione politica del voto, dell’elettorato attivo (e passivo) cioè, più in evidenza invece quella del lavoro e dell’istruzione, con un ritardo nel mare affogante, allora, dell’analfabetismo che è stato causa e conseguenza di una perdurante e stagnante marginalità sociale.
Certamente l’associazionismo cui ho potuto far riferimento nel mio contributo scritto – letto al microfono dall’amico Mauro Dadea (onore insperato per me, data la grande stima per l’intellettuale e operatore culturale multianime sempre attivissimo) – ha guardato ai ceti borghesi e benestanti della società, così anche nella “assistenza civile” animata nell’emergenza della grande guerra, più che al proletariato in quel tempo ancora governato dalle leghe e dalle camere del lavoro a guida maschile (anche la rivolta del 1906 conobbe ruoli divisi, e le donne della manifattura, nonostante tutto, non ebbero il primato né nella interlocuzione politico-amministrativa né nella narrazione cronachistica dei giornali).
Lo stesso associazionismo cattolico in capo alle conferenze vincenziane era più borghese che popolare, e forse soltanto all’interno del gruppo Donne dell’Azione Cattolica fidelizzate alle parrocchie era riservato uno spazio di agibilità e protagonismo a massaie e umili madri di famiglia operaia… magari madri di prole numerosa).
Il fascismo avrebbe confermato, e caricato di sentimento patriottico, le distinzioni o separatezze nelle organizzazioni di regime; la repubblica avrebbe poi conosciuto, tanto più nella sinistra social-comunista e in Sardegna, l’impegno femminile anche rischioso nella fatica pubblica, nella lotta per le terre ad esempio.
Nonostante la permanenza di limiti e contraddizioni (non certamente banali), la società moderna, liquida e… unisex – tale per merito soprattutto, credo, dello sviluppo della scolarizzazione e della universalità dei conseguenti accessi professionali –, pare abbia attenuato la ragione di certe spinte emancipazioniste che furono invece capitali in altre epoche. Gli statuti di uguaglianza civile, fissati nella costituzione e nelle leggi ma ancor più, si vorrebbe, nella coscienza diffusa, dovrebbero essere infatti mattoni del presente e del futuro della società, mattoni della democrazia vissuta nella sua realtà positiva, spazio di realizzazione dei talenti offerti alla comune e plenaria fruizione.
Qui di seguito ecco il testo della relazione offerta alla FIDAPA.
L’associazionismo femminile in Sardegna fra Ottocento e Novecento
Quando Cagliari era la Cagliari bacareddiana e contava 56mila abitanti, Nuoro era la Nuoro/“nido di corvi” che abbiamo conosciuto leggendo “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta, con 7mila abitanti appena, spalmati nei quartieri di San Pietro, Sèuna e bia Maiore. E proprio lì, e proprio allora, capitò che Grazia Deledda fosse candidata alle elezioni per il rinnovo parlamentare.
Era il 1909, lo stesso anno in cui il nostro Bacaredda pubblicò il famoso suo “L’ottantanove cagliaritano”, che rievocava i disastri dei moti contro il carovita del ‘6;
l’anno anche della nascita, nel capoluogo, di Francesco Alziator, in via Baylle, e di Giuseppe Dessì, in via Mazzini, gli autori celebrati di “La città del sole” e “Paese d’ombre”;
l’anno altresì in cui, da noi, si mobilitarono trenta studenti di Medicina e altre facoltà per andare a soccorrere, come barellieri, in Sicilia, i sinistrati del terremoto – centomila morti – di Messina e Reggio (nella squadra di volontari anche il giovanissimo Armando Businco, cui sarebbe stato un giorno intitolato l’ospedale Oncologico: da Palermo egli mandò le sue cronache che ogni giorno, e per un mese, aprivano la prima pagina de “L’Unione Sarda”);
era, quello stesso 1909, l’anno in cui, a Nuoro – modesto capoluogo del circondario sottoprefettizio in capo alla provincia di Sassari –, ancora si gustava il successo riscosso, alla Biennale di Venezia, da “La madre dell’ucciso” di Francesco Ciusa, il quale alla Biennale si ripresentava adesso con due altri lavori rimasti celebri anch’essi e che si possono ammirare alla nostra Galleria d’arte moderna: “La filatrice” e “Il nomade”.
La Deledda candidata al Parlamento
Ebbene, a marzo, quando si era trattato di rinnovare la Camera dei deputati, un gruppo di letterati nuoresi aveva lanciato il nome di Grazia Deledda come possibile candidata del collegio barbaricino, in opposizione all’uscente on. Are che a Montecitorio aveva votato contro il riconoscimento del diritto di elettorato attivo alle donne.
L’autrice di “Canne al vento” prima candidata donna in Italia. Possibile deputata senza però poter essere lei stessa elettrice. Fuori da ogni ufficialità, peraltro non richiesta, e senza neppure un giorno di campagna elettorale, sul suo nome si riversarono 34 voti, di cui 31 vennero poi annullati. Annullati perché? Perché le schede recavano apprezzamenti che la legge non poteva convalidare, del tipo «Grazia Deledda, fior di Sardegna», «Deledda, gloria di Nuoro», «Vogliamo in Parlamento Grazia Deledda, per protesta».
Lei assicurò di non averne saputo niente fino al giorno successivo al voto. «Credo che l’aspirazione da parte nostra di prender parte alla vita pubblica, certo in un tempo ancora molto lontano, non sia cosa senza alcun fondamento di possibilità. Occorre naturalmente che la donna italiana possa acquistare un grado di educazione che ancora non ha e, soprattutto, occorre che la società in cui viviamo ci prepari quelle condizioni di vita per cui la nostra partecipazione alla vita pubblica possa attuarsi», confidò a un cronista sardo che la raggiunse nella capitale, dove abitava dal giorno del matrimonio (ormai nove anni).
Aveva coscienza, la Deledda, che l’ingresso femminile in diversi settori della vita sociale non era stato sostenuto, fino ad allora, da una soggettività autonoma riconosciuta: «Gli uomini operai – disse – son liberi di scegliere il loro rappresentante dove più gli aggrada, o tra di loro, o nella persona, ad esempio, del loro padrone. Ed in questo è la superiorità della classe maschile e quindi il suo maggior diritto di fronte a noi donne. Alla classe femminile operaia, non corrisponde una classe direttiva ugualmente femminile. Dal ministero delle poste dipendono, ad esempio, centinaia di telegrafiste, ma non c’è ancora alcuna signora capo-sezione o divisione… Da noi – aggiunse – c’è solo il proletariato femminile: manca, o c’è in proporzioni scarse, trascurabili, l’aristocrazia femminile che guidi e rappresenti questo proletariato. Di qui la necessità di ricorrere all’uomo per essere rappresentato anche in Parlamento. Quando, poi, il numero delle donne che si possa degnamente rappresentare sarà aumentato, allora… allora le cose cambieranno».
Insomma, a suo parere, prima la società, prima il lavoro, poi la politica.
Andare a Montecitorio le sarebbe piaciuto, i due figli ormai grandicelli non avrebbero costituito un problema: «… io potrei benissimo andare alla Camera». Né avrebbe avvertito come una deminutio Io sbarramento d’età, per le donne, ai 50 anni, onde non distrarle dalle cure familiari, benché ritenesse un male per la vita pubblica perdere l’apporto di chi esprimeva, proprio in ragione dell’età giovane, «energie» e «facoltà intellettive» nel «migliore sviluppo», tali da configurare «un’innegabile superiorità dominatrice sull’uomo».
Discorsi in libertà… La Deledda godeva delle sue cose, oltre gli affetti: «i miei libri, il mio lavoro…». Ma se l’avessero eletta per davvero? «Oh, allora sarei andata alla Camera ed avrei frequentato Montecitorio fino all’annullamento della mia elezione. Per curiosità, per studiare l’ambiente, per riprodurlo, per vedere a quattr’occhi questa politica. Dicono che sia tanto brutta vista da vicino…».
Un’intervista, questa, che nessuno, con una eccezione, ha scovato e ripubblicato, e che racconta molto della sensibilità civile della scrittrice. La quale, giova ricordarlo, nel 1908 aveva partecipato al primo Congresso nazionale delle donne italiane, svoltosi nella capitale e rimasto senza conclusioni, e quattro anni dopo era nuovamente menzionata come probabile candidata al Parlamento, ancora nel collegio di Nuoro.
Una curiosità amena che si ricollega alla vicenda elettorale del 1909. Raffa Garzia, il giovane direttore de “L’Unione Sarda” e da allora pure professore di lettere al liceo Dettori (in classe anche Gramsci 18enne), pubblicò sul suo giornale un corsivo piuttosto ironico che accompagnava il commento virgolettato del milanese “Il Giorno” alla sfortunata candidatura deleddiana, ritenuta un boomerang per la causa emancipazionista. Si divertì Raffa Garzia a riferire l’opinione di un suo amico conservatore circa il diritto al voto femminile: (testuale) «egli mi spiegò lucidamente ieri che la donna è stata creata da Dio perché preparasse da pranzo al marito, perché gli spazzolasse gli abiti e perché lavasse il viso ed il resto ai bambini. Non essendo l’esercizio del voto compreso fra nessuna di queste funzioni, è evidente – concludeva – che esso sarebbe contrario alla missione stessa della donna nella vita.
«L’argomentazione era così stringente che mi lasciò disorientato. Tuttavia, domandai al mio amico se non ci fosse possibilità di errore nell’assegnazione delle sue funzioni naturali alla donna, e se non ci fosse la possibilità che, come la donna è superiore all’uomo nel preparare un’insalata, così essa potesse essergli superiore anche nel preparare quella specie d’insalata politica che si suole comunemente chiamare un Parlamento. Il mio amico mi spiegò che l’errore era possibile. Ammettendolo, bisognerebbe però ammettere che si fosse sbagliato nostro nonno: che si fosse sbagliato nostro bisnonno: che si fossero sbagliati tutti i nostri antenati fino ad Adamo: e noi commetteremmo una grande mancanza di rispetto verso i nostri genitori e progenitori soltanto supponendolo. “Concedere il voto alla donna – egli ha concluso – significherebbe dire: mio nonno sbagliava. E tu comprendi l’assurdità di una simile ipotesi”.
«Domandai al mio amico se questi erano tutti gli argomenti che egli aveva contro il voto alle donne. Egli mi rispose di sì, ed aggiunse anche che erano più che sufficienti. E mi spiegò che non bisognava dar retta a coloro che combattevano il voto alle donne per ragioni scientifiche, biologiche o politiche. “Credi a me, sono tutte finzioni… In fondo combattono tutti il voto alle donne per le stesse ragioni per cui lo combatto io. Soltanto non vogliono dirlo. E come me ritengono che la vera e sola ragione per cui va combattuta l’ingerenza della donna nella politica è che nonno pensava così».
Perorando in Parlamento, ora sono due anni, la causa di iniziative adeguate a celebrare il 90° del Nobel e l’80° della morte, un gruppo di deputati ricordò genericamente che la Deledda, in quel certo 1909, aveva sostenuto «il partito storico dei radicali, guidato da Ettore Sacchi, erede della sinistra mazziniana, orientato verso il repubblicanesimo e la giustizia sociale e propugnatore dei diritti civili e sociali delle donne».
La missione emancipazionista di Bastianina Martini Musu
Ed in effetti, a partire dalla esperienza costituzionale della gloriosa Repubblica Romana del 1849 – quella per la quale si sacrificò 21enne Goffredo Mameli – e dalle battaglie di Anna Maria Mozzoni e di Salvatore Morelli – il deputato massone che ripetutamente presentò proposte di legge per estendere l’elettorato –, tutta la secolare battaglia emancipazionista (quella delle suffragette) fu, in Italia, di marca mazziniana.
In Sardegna il nome d’oro dell’emancipazionismo femminile è quello di Bastianina Martini sposata Musu. Sassarese, classe 1892, poco più che ventenne negli anni della grande guerra organizzò nella sua città un ufficio di corrispondenza che consentiva ai familiari dei soldati che avessero difficoltà a scrivere loro nei teatri di guerra (causa l’analfabetismo di massa del tempo, oltre il 60 per cento della popolazione isolana) di raggiungerli: lei stessa e le sue collaboratrici riempivano, sotto dettatura di padri e madri e spose e fratelli, i fogli, comunicando notizie di casa, degli affetti ed affari domestici e di paese, e chiedendone, di notizie, sulla buona salute messa così continuamente a rischio nelle trincee e negli assalti… Provvedeva anche, l’ufficio sassarese di Bastianina, a donare le buste prescritte per la corrispondenza: molti non potevano permettersi neppure i 10 cent. di quel costo…
Personalità d’eccellenza, Bastianina prese infine residenza a Roma. Combattendo da qui la sua battaglia per l’emancipazionismo femminile, scrivendo sul giornale repubblicano “L’Iniziativa” e prendendo la parola a convegni e comizi. Durante la dittatura offerse la sua abitazione come luogo di incontro clandestino dei democratici e negli anni della guerra partigiana fu attiva nei collegamenti, militante del partito d’Azione – il partito di Parri, La Malfa e Lussu – e nominata infine, nel 1945, alla Consulta Nazionale (l’organismo che precedette la Costituente): cui non poté di fatto partecipare perché un tumore la divorò allora in breve tempo, rivelando anche tutto l’eroismo della sua partecipazione alla resistenza antinazista e antifascista.
Negli anni ’20, dunque, ripetutamente sostenne la campagna per il suffragio universale, incluso quello femminile. Ebbi, tempo addietro, dalla figlia Marisa, alcuni testi allora inediti di discorsi di Bastianina Martini Musu. Riporto qui alcuni stralci di quei contributi di riflessione ed impegno civile che valgono almeno a dare l’idea delle coordinate morali e intellettuali della sua personalità nella Sardegna e nell’Italia d’inizio Novecento:
«Nessuna, assumendo nuovi doveri nella grande trasformazione subita dalla società che costringa la donna a cercare lavoro remunerativo oltre quello che compie in casa, nessuna diserterà per questo l’orbita famigliare come vanno ripetendo gli avversari della nostra evoluzione.
«Nessuna diserterà dal suo posto accanto alla culla da cui un bimbo adorato tende le sue braccia, o dal capezzale di un caro infermo bisognoso di cure, ma dalla consonanza di intenti e di aspirazioni l’unione fra l’uomo e la donna sarà cementata assai più intimamente che non finora».
E così nel 1923:
«Presso gli ebrei la madre era esclusa dal santuario per più giorni se aveva partorito una femmina. In India se la donna non partoriva che femmine poteva essere ripudiata. A Sparta su dieci bambini abbandonati sette erano femmine perché il sesso equivaleva ad una deformità. A Roma le figlie erano spesso abbandonate dal loro stesso padre che legittimava immancabilmente i figli maschi […]. Il cattolicesimo si chiede se la donna abbia un’anima […].
«Ma la forza della verità e della giustizia è più potente di tutti i dispotismi e di tutti i codici del mondo e farà strada anche nell’animo dell’uomo.
«Egli la sognerà allora una sorella umana che l’ami con una devozione non fatta d’istinto, ma di cosciente amore – che proceda al suo fianco per un uguale intento verso più alte ispirazioni.
«E la donna sarà allora veramente un’uguale, una compagna, e come tale avrà il suo posto nella casa e nella famiglia che non sarà più un’istituzione sociale edificata sull’incerta base di convenzioni, di pregiudizi, di necessari interessi materiali, ma sarà una forza morale creata in virtù di volontà spontanea […].
«Ma come arrivare a tutto questo? La famiglia che è la prima forma di una società perfetta sarà veramente rinnovata solo quando la donna sarà veramente evoluta, quando essa sarà preparata alla vita col senso completo di tutti i doveri che la società le impone […].
«Rimanga pure se può la donna nella casa, ma diamola alla casa dopo averla severamente e teneramente educata […].
«Dobbiamo sviluppare in lei la sua personalità umana e sociale. Educare la fanciulla, come si è fatto fino ad oggi, all’unico scopo del matrimonio è opera crudele e pericolosa […].
«La donna non è uguale né fisiologicamente né psicologicamente a l’uomo; è in questa differenza la forza delle sue argomentazioni. Proprio per questa diversità si deve ammettere la sua indispensabilità in ogni campo della vita sociale e politica.
«Ma la diversità non implica inferiorità […]. Se la natura ha creato diversi organismi fisiologici non ha creato certo diversi esseri sociali.
«Del resto un tempo si affermava anche in nome della natura… di aver creato due specie di uomini, alcuni, pochi, per governare, altri, la moltitudine, per ubbidire; i primi atti al governo dello Stato, gli altri al lavoro rude dei campi e delle officine.
«Il presente ci ha dato ragione del contrario su questa così comoda legge naturale, e l’avvenire ci farà giustizia anche del resto.
«Si è detto che le donne devono fare la politica di casa, la politica del fiammifero di cucina, ma la politica domestica è intimamente legata a quella dello Stato, come la famiglia è legata alla nazione e all’umanità […]. Alla madre non si chiede soltanto di partorire il figlio, si chiede di farne un cittadino che, migliorando se stesso, migliori l’umanità […].
«Il monopolio politico esercitato dall’uomo è ingiusto e dannoso per la donna […]. La donna esce dalla casa non per distruggere, ma per creare una famiglia conforme al diritto di giustizia e di libertà […].
«Oggi la metà della famiglia umana, la metà dalla quale noi cerchiamo ispirazioni e conforto, la metà che ha in cura la prima educazione dei nostri figli, è, per singolare contraddizione, dichiarata civilmente, politicamente, socialmente ineguale, esclusa da quell’unità».
S’affaccia una loggia tutta al femminile
Allo stesso mondo ideale della Martini Musu appartengono le donne che, giusto alla vigilia della grande guerra, misero in campo, a Cagliari, sostenute dal Saggissimo del Rito Scozzese Antico e Accettato – che era poi il rettore dell’università e medico igienista Oddo Casagrandi –, il cantiere di una loggia massonica come altre se ne erano formate in quegli anni nelle maggiori città del continente.
Furono allora una decina, forse più, le signore – mogli o comunque familiari dei massoni in forza alla “Sigismondo Arquer” – che si attivarono per l’obiettivo. Con Antonietta Campagnolo, la più dinamica del gruppo, era anche Paola Satta, originaria di Thiesi, la prima donna laureata in medicina della Sardegna (così nel 1902).
Invero una donna era stata inclusa, piuttosto abusivamente però, nella Fratellanza dall’anonimo autore dei famosi “Goccius de is framassonis” cinquant’anni prima: era Maria Giuseppa Musio, moglie del professore, e prossimo rettore, e prossimo senatore, Gavino Scano, colui che un giorno avrebbe presentato alla città l’obelisco dedicato ai caduti sardi nelle guerre d’indipendenza, al centro della piazza Martiri: «Maria Peppa cun su lau / adi tentu grandu successu / e rappresenta su sessu / chi comenzada a affortiai / immoi depidi proclamai / aboliu su pannixeddu…».
Le donne associate in una loggia, quasi contraltare di quelle riunite nelle benemerite Conferenze vincenziane operanti presso le parrocchie storiche di Castello, Marina, Stampace, Villanova e Sant’Avendrace, o nelle Unioni Donne dell’Azione Cattolica, dovevano essere una novità a Cagliari. Ma gli eventi cambiarono all’improvviso i progetti: perché l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio di quel 1915, riorientò le energie associative destinate ad un Tempio rituale, verso le attività solidaristiche dell’assistenza civile, per il più nelle fila dell’Unione Femminile Nazionale.
Questo fu il sodalizio, la cui presidenza fu assunta proprio dalla dottoressa Satta, che spese il meglio del suo potenziale d’intervento in soccorso dei soldati al fronte – magari per dotarli di protezioni di lana là dove l’inverno spaccava la pelle – o dei loro famigliari, mogli e figli innumerevoli volte divenuti purtroppo vedove e orfani.
La sezione cagliaritana si costituì con le forme operative, in origine, di supporto al Comitato di Preparazione Civile.
Numerosi autori hanno trattato la materia – e fra essi Maria Francesca Vardeu e Carla Marongiu – e dai loro lavori emerge tutta la vitalità e la passione patriottica oltreché umanitaria delle operatrici, di cui dettero quotidiano conto, peraltro, le stesse cronache di giornale in quegli anni di guerra.
L’Unione Femminile Nazionale negli anni della grande guerra
Vennero organizzate kermesse le più varie – ora mostre d’arte o di ricami e cucito, ora lotterie e concerti, ora recite e perfino balli, letture poetiche e proiezioni cinematografiche (a Cagliari il cinema, muto ovviamente, aveva esordito nel 1905), ora vendite di coccarde tricolori per raccogliere fondi; altre volte erano passeggiate questuanti o sottoscrizioni direttamente finalizzate a finanziare le opere di soccorso: occorreva confezionare indumenti per i militari, occorreva approntare vestitini per i piccoli rimasti a casa e perfino corredini per i neonati figli dei soldati, occorreva assistere puerpere e, in generale, mogli con carichi familiari in eccesso. Utili, alla bisogna, gli spazi dei teatri cittadini – l’Eden, il Politeama, ecc. – e, d’estate, lo stesso Lido del Poetto di fresca e precaria inaugurazione, non essendo ancora tramontata la lunga stagione di Giorgino, fra stabilimenti e spiaggia libera.
Giusto al Poetto l’Unione Femminile cagliaritana collaborò al buon soggiorno in colonia – la colonia “Salviamo il fanciullo”, finalizzata alla cura degli scrofolosi ed allestita dalla Congregazione di carità e dall’Asilo della Marina – di diverse decine di bambini, a favore dei quali furono convogliati, ricavandole da più parti, risorse per il vitto e l’alloggio così come per il vestiario dalla testa ai piedi.
Alla stessa fascia anagrafica della popolazione, la più debole, volsero le cure di altre istituzioni alle quali pure l’Unione Femminile dette piena e continuativa collaborazione, o istituzioni che essa stessa promosse di lì a breve tempo: in particolare la “Casa delle Madri”, fondata all’indomani della guerra nella via che sarà detta Bacaredda, con l’appoggio della Clinica Ostetrica dell’università e del suo direttore professor Emilio Alfieri nonché dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari, e con una dotazione di circa 12mila lire esito di una larga colletta. Una ottantina di bimbi, da uno a tre anni, vennero da allora accolti nei giorni feriali ed affidati, anche per la parte nursery, a personale laico e religioso ed assistiti da medici pediatri.
Prima presidente della “Casa delle Madri” fu Lina Tronci, moglie di Enrico Pernis, il maggior dignitario della Massoneria sarda e, al tempo, presidente dell’Ospedale Civile, dopo esser stato anche assessore di una giunta dell’eterno Bacaredda. Nell’abitazione proprio di Lina ed Enrico Pernis – di lato all’istituto salesiano – un gruppo di attiviste aveva approntato un numero elevatissimo (ben 30mila) di “scalda-rancio”. Si trattava di carta di giornale imbevuta di paraffina e compressa in forma di rotoli, da cui i soldati al fronte ottenevano come riscaldare i loro pasti.
Preziosi interventi l’Unione Femminile assicurò altresì, unitamente alla Croce Rossa, nell’assistenza ai prigionieri di guerra nativi dell’Isola ed ai profughi provenienti dalle terre del Triveneto, né minor impegno essa mise in una quantità incredibile di attività che il bisogno e l’urgenza reclamavano nei duri anni del conflitto: operando all’interno del cosiddetto Comitato di Assistenza Civile che s’occupò di correntare la corrispondenza delle famiglie con i soldati – così come faceva Bastianina Martini a Sassari – e di sbrigare i più vari adempimenti burocratici, perfino della regolarizzazione di matrimoni (contattando municipi, parrocchie e comandi militari) onde assicurare ai congiunti l’assegno governativo, e s’occupò anche dell’allestimento del primo Dispensario antitubercolare cittadino, una stazione di cura elioterapica per bambini nel “solarium” del Dormitorio Pubblico (finanziato dalla loggia cagliaritana e imprestato alla Croce Rossa, là dove sarebbe sorto l’Istituto dell’Infanzia abbandonata, nel viale fra Ignazio)… Allestì una sua sartoria, non trascurò neppure le distribuzioni alimentari quando scoppiò l’epidemia di spagnola, nel 1918…
Sarebbe proseguita l’attività dell’Unione Femminile per alcuni anni nel periodo postbellico – a Cagliari fino al 1924, altrove anche dopo. Si sarebbe pensato allora a una Biblioteca circolante, ed anche a rinforzare la sperimentata colonia marina e la “Casa delle Madri”. I the danzanti di beneficenza ed i concerti al Poetto, le recite di una filodrammatica, ecc. dovevano servire a finanziare ancora le attività solidaristiche. Tutto cambiò con il fascismo quando ad essere avvantaggiate furono le organizzazioni del regime alle quali anche la sede venne procurata dal Comune, previo sloggio della Unione Femminile.
Le Cordeliane, nel primo dopoguerra
Risale al 1920, dunque all’immediato dopoguerra, una associazione femminile, costituitasi pure essa a Cagliari, nella casa di via Lamarmora della scrittrice Amelia Melis Devilla, che indirizzò i suoi interessi verso un mix piuttosto originale di attività assistenziali e culturali, queste ultime vaganti fra la letteratura, l’arte e l’etnografia.
Essa riprendeva l’input, o la suggestione, della testata fiorentina “Cordelia”, una rivista di «piacevole lettura» che era stata fondata da Angelo De Gubernatis – il noto studioso e letterato torinese che era stato amico della Deledda fin dagli esordi di questa – con lo scopo di procurare materiali e modalità di buona educazione alle ragazzine di certa media borghesia nazionale.
Alla versione isolana di una tale iniziativa ha dedicato un bel saggio, tempo addietro, Marcella Mocci, alla quale pure, in collaborazione con Franca Ferraris Cornaglia e Mirella Melis, si deve l’edizione critica di “La Donna sarda” e “Il Rinnovamento”, riviste lanciate a Cagliari nel 1898 (e resistenti fino al 1901) da Maria Manca Colombo, quella insegnante elementare che aveva ospitato per diversi mesi, nel 1899, proprio Grazia Deledda: la giovane Deledda che durante quel soggiorno cagliaritano conobbe Palmiro Madesani, sposato pochi mesi dopo, e con lui frequentò i salotti cittadini e passeggiò per le stradine di Monte Urpinu e dei quartieri alti, la giovane Deledda che, tanto più della casa all’angolo fra le vie Nuova (poi Sonnino) e San Lucifero, lasciò bella testimonianza nelle ultime pagine del postumo “Cosima”.
Le Cordeliane, dunque. Secondo lo schema sperimentato, «the culturali, conferenze, recite, feste danzanti» furono il mezzo utilizzato per procurarsi le risorse necessarie a finanziare l’attività statutaria, e in primo luogo la valorizzazione delle produzioni femminili sarde, ora d’arte ora d’artigianato. Per questo, quel tanto di «conferenze, letture, conversazioni letterarie e scientifiche, esposizioni, gite istruttive, visite a monumenti, musei, opifici, ecc.», tutto era finalizzato insieme «a mettere in degna luce i valori naturali, artistici, industriali dell’isola» ed a offrire «il più largo appoggio ad ogni iniziativa che [avesse] lo scopo di rilevare e sostenere qualunque buona forma di produzione dell’ingegno e dell’operosità regionali». A ciò si univa l’obiettivo di un solidarismo “ad intra”, il mutuo soccorso fra le associate, e “ad extra” nel campo largo della beneficenza.
Alla festa cosiddetta “delle ciliegie”, organizzata nel giardino pubblico nel giugno 1924, fra luminarie, decorazioni e musica a tutto spiano (quella della banda militare), i banchi di vendita di frutta e dolci si svuotarono in fretta e il raccolto finale fu di nette 5mila lire donate per metà all’Istituto dell’Infanzia abbandonata e alla citata “Casa delle Madri”. In un sol colpo si promuovevano le produzioni naturali e quelle della perizia pasticcera di tante dolciaie, e si offriva soccorso alle opere pie. L’elenco di quelle sovvenute era infinito: dal Buon Pastore all’ospizio Vittorio Emanuele, dalla Casa San Vincenzo ai Mutilati di guerra, all’Istituto dei ciechi «dove le cordeliane organizzavano letture settimanali di testi che non si trovavano scritti in Braille».
A dieci anni dalla sua fondazione, anche la colonia marina per i bambini scrofolosi entrò nell’agenda benefica delle Cordeliane – adesso presiedute da Dina Pisano Azzolina (moglie del famoso professor Liborio Azzolina, mitico docente dettorino ed universitario) che finanziarono integralmente un grande padiglione Doker il quale andò ad aggiungersi a quelli che vari filantropi – dal sindaco Bacaredda alla Semoleria Merello, da Francesco Cocco Ortu al professor Rinaldo Binaghi, e diverse istituzioni e aziende private – avevano nel frattempo donato, sostituendo le tende all’inizio piantate sulla sabbia, come in un campo indiano. Assommavano addirittura a 4mila i bambini allora assistiti, tolti – si scrisse – «dai tuguri dove si soffre e si muore… per donarli al sole, al mare!».
Continuarono ancora per una decina d’anni le attività associative delle Cordeliane cagliaritane: sempre mostre, sempre vendite di «ventagli dipinti, animali vivi e lavori femminili», magari da Signoriello, sempre lotterie, magari all’Eden park (dov’è oggi la sede dell’INPS) e magari a beneficio della nave-asilo “Domenico Alberto Azuni”, anch’essa ospitante «tante povere creaturine», sempre concerti “pro-ciechi”, sempre esposizioni di ricami, coperte, tappeti, bisacce e cestini (con colori e motivi isolani), sempre mostre floreali e d’arte – come quella volta per l’inaugurazione dell’ippodromo quando «centocinquanta signorine, tra cordeliane e simpatizzanti [indossarono] costumi sardi».
Non mancarono, nel circolo ora trasferitosi nella via Azuni, i corsi di ricamo per i quali vennero assunte le esperte ricamatrici teuladine, né mancarono le partecipazioni a manifestazioni d’arte, ed artigianato d’arte, della Sardegna, organizzate in continente: a Torino, a Firenze, a Perugia, a Milano…
Qualche fotografia dell’Archivio Stefano Lucchese presenta, datati 1940 e 1941, gruppi femminili fascisti (in divisa) di signore di buona società, dalla Mathieu-Simonetti alla Pani-Angioni, dalla Scano-LoddoCanepa alla Pitzurra segretaria del fascio. E’ molto probabile un avvenuto assorbimento delle Cordeliane, da parte di qualche similare organizzazione della dittatura. La materia sarebbe interessante da approfondire, ma siamo qui fuori dal range temporale di questa relazione.
Nel movimento cattolico
E invece un cenno almeno, in finale, merita l’associazionismo femminile cattolico, inquadrato per il più nell’Azione Cattolica e nel volontariato vincenziano.
Gli annuari di “Sardinia Sacra” del 1929 e del 1937 danno dettagliato conto della organizzazione diocesi per diocesi: vale qui precisare che i gruppi Donne Cattoliche, Gioventù Femminile ed Universitarie Cattoliche, operanti (quando possibile) a livello parrocchiale, godettero di piena autonomia dagli altri, con una loro propria dirigenza. Il fascismo costrinse, dal 1931, a confinare le attività associative nello stretto ambito religioso, togliendo loro la possibilità di spaziare nel sociale come era avvenuto fino ad allora.
Alimento ai circoli di Azione Cattolica femminile fornirono le Conferenze vincenziane che in larga maggioranza però mantennero la propria stretta impronta caritativa. Certamente il carisma di talune personalità d’eccellenza del mondo vincenziano – quello stesso dei preti “della Missione” (a Cagliari come a Sassari, e valga per tutti il nome di padre Giovanni Battista Manzella) – ebbe felici ricadute sulla formazione delle cosiddette “dame di carità” che in ambito religioso avevano corrispondenza nelle suore “cornette” o Figlie della carità (si pensi all’Asilo della Marina di suor Nicoli e poi di suor Tambelli a Cagliari). Impiantatasi già prima dell’unità d’Italia nei due capoluoghi provinciali, la Società femminile conobbe gran rigoglio organizzativo all’inizio del nuovo secolo quasi in ogni paese della Sardegna, dove i preti della Missione seminavano le loro prediche (erano le cosiddette “missioni”).
In larghissima prevalenza femminili, le Conferenze costituitesi nei primi decenni del secolo furono circa 200. Nell’Isola, in quel periodo, operarono circa un terzo di tutte le Conferenze vincenziane attivate nell’intero Paese. Ha scritto Tonino Cabizzosu: «Il volontariato femminile vincenziano, che operò in centri urbani e rurali, si sviluppò e si esaurì in un’ottica ancora ottocentesca in cui l’elemosina e la carità, strettamente considerate, avevano la priorità assoluta. L’apertura al sociale del Manzella rimaneva ancora su ambito assistenziale, altrove ampiamente superato», anche se va detto che non mancarono i tentativi di «promuovere strutture permanenti finalizzate all’accoglienza, alla protezione e all’educazione dei piccoli, dei malati e dei poveri». Così soprattutto nel nord isolano, in cui si aprirono una trentina di asili infantili.
Conclusioni
Molto è cambiato e molto è rimasto di quel mondo di cento anni fa. L’associazionismo femminile sardo e cagliaritano, del quale ho dato appena un cenno esemplificando alcune militanze, trova oggi – in ambito di volontariato sia sociale che culturale – espressioni le più varie.
Le stesse trasformazioni della nostra società hanno cambiato i codici o i paradigmi dell’impegno pubblico femminile, mischiando per lo più le componenti di sesso. I movimenti femminili dei partiti – ora che i partiti sono altra cosa rispetto a un tempo – sono scomparsi, alla storia restano affidati i giudizi sulle esperienze partecipative al “movimento della pace” dei primi anni ’50, sulle stesse lotte bracciantili per la terra, che costarono il carcere a non poche donne (fra le tante ricorderei Fides Bussalai). Tuttavia la “questione femminile”, tanto più nel mondo del lavoro, mantiene ancora oggi una sua evidenza, rivela i ritardi che permangono e giustifica le chiamate all’impegno riformatore.
Piace ricordare in conclusione, nell’associazionismo “di servizio”, almeno due dati che segnano sorridenti obiettivi centrati: la prima presidenza femminile di un club rotariano cagliaritano è del 2010 (quella di Marinella Ferrai Cocco Ortu); al 1967 risale la fondazione in città del Soroptimist club, con la presidenza di Maria Cugia Cremese.