Ciao, professore! Salutando Manlio Brigaglia, il consulente di Dio per le cose della Sardegna, di Gianfranco Murtas
Fortunati quelli che hanno conosciuto e frequentato, chi molto chi poco, Manlio Brigaglia, il consulente di Dio per le cose della Sardegna. Professore vero ed omnibus. Sento l’urgenza di scriverne, a poche ore dalla scomparsa; fuori dalla forte emozione del momento tornerò su lui e la sua prorompente personalità, la sua generosità di uomo di scuola, il suo singolarissimo ed insuperabile mix di radici cattoliche e trasversalità democratica nel senso più laico del termine. Sarà allora testimonianza più documentata, adesso soltanto una testimonianza contenuta, breve, condizionata dal battito immediato.
Nei suoi messaggi, anche quelli delle email, era il tocco della sua leggerezza tutta sassarese che tanto mi colpiva e anche affascinava. Questo di appena di tre settimane fa, del 20 aprile: «Ti scrivo tutto quello che mi hanno detto (anche con un po’ di casino, forse, perché sono un po’ sordo). Accetta il buoncuore, come dicono alla Maddalena. Auguri sempre. Manlio». E di poche ore prima: «Ho avuto notizie e appunti da […], ultimo direttore dell’Archivio storico comunale. Anche lui ha avuto qualche difficoltà. Stasera mi porta un altro giro di note, ti mando tutto entro stanotte. Saluti. Manlio». E di tre giorni prima: «Ti cerco un contatto. Pensavo di trovare qualcosa nel libro sull’arte in Sardegna nell’Ottocento di Magnani e Altea, che avevo qui sulla scrivania ieri sera. Ma ora non lo trovo più, ti cerco un contatto come si deve. Saluti. Manlio».
Tutto d’iniziativa, senza solleciti. Gli fai una domanda – quella sulle datazioni e gli autori dei busti risorgimentali a Palazzo Ducale –, ed egli risponde immediatamente, e se non sa, si attiva nel suo giro perché tu resti comunque soddisfatto. E ti aggiorna sugli step della sua ricerca.
Il sassarese che amava Cagliari
Era un professore che ti allargava la mente, Manlio Brigaglia, ma era anche un protagonista della scena civica sarda e sassarese che poteva dare testimonianza di un vissuto. Poteva esserlo per tutte le vicende della Rinascita degli anni ’60, per quelle del banditismo di quel decennio in cui io ragazzino mi formavo, ascoltavo Radio Cagliari (e dalla sua voce e da quella di Fernando Pilia e Michelangelo Pira scoprivo la Sardegna complessa) e leggevo la domenica la sua rubrica nella seconda pagina de “L’Unione Sarda” e poi, era il 1971, le sue ricostruzioni fra storia e società di “Sardegna perché banditi”. Più tardi, all’università, ecco sul banco la sua “Sardegna contemporanea” (condivisa con il professor Boscolo e con Lorenzo Del Piano, altro amico mio degli anni più maturi), ma intanto ecco anche “Il lunedì”, il giornale settimanale ch’egli dirigeva, fra Sassari e Cagliari”, preparatorio della migrazione di redattori da “La Nuova Sardegna” verso i nuovi lidi di “TuttoQuotidiano”. E alla fine di quella breve stagione, eccolo ancora ritrovato, il professore, sul fronte dei cosiddetti “cattolici del no”, fra quegli intellettuali credenti, cioè, schierati contro l’abolizione della legge sul divorzio al referendum del 1974. E dopo ancora, lui che era stato amico dei giovani turchi sassaresi e delle loro tante anime – da Cossiga a Soddu, da Dettori a Giagu a Colavitti – eccolo vicino a un PCI che apre agli “indipendenti di sinistra” e, pur ancora con molte contraddizioni, si candida alla partnership governativa. Era la stagione segnata in progress dal terrorismo rosso dopo che da quello nero stragista…
Ebbi allora, da giovanissimo, qualche saltuario scambio di corrispondenza col professore, allora – era il 1971 o il 1972, e lavoravo sulla biografia di Guido Aroca, un deputato sassarese del Partito Popolare Italiano – si andava ancora per francobolli. I rapporti più maturi sono stati di quest’ultimo trentennio. E intanto però la biblioteca di casa si è allargata progressivamente a tutti o quasi i suoi titoli. Nel cuore della sezione “brigagliana” ho infilato “Manlio Brigaglia, cinquant’anni di scrittura”, la bibliografia degli scritti dal 1950 al 1998 che ha curato Elisabetta Pilia per la Libreria Dessì Editrice, e che meriterebbe adesso una ristampa con aggiornamenti…
La mente ritorna a qualcuno di questi episodi più recenti.
L’affetto nostro per Vindice Ribichesu
All’indomani della morte di Vindice Ribichesu, grande amico e fratello e giornalista, e dopo anche averlo celebrato in Consiglio regionale, mi apprestai a raccogliere di lui alcune centinaia di articoli firmati nella lunga esperienza professionale maturata a “La Nuova Sardegna” (fino al 1974, cioè al cennato abbandono del giornale per la questione Rovelli) e su tutta una serie di testate quotidiane e periodiche, comprese quelle da lui dirette. Mi occorreva focalizzare la fase dell’apprendistato giornalistico di Vindice a “L’Unione Sarda”. Mi mandò la sua testimonianza, il professore. Eccola (preceduta da un cordialissimo autoironico «Ti allego un …memoriale. Saluti e auguri sempre. Manlio»):
«Non sembra vero, ma Vindice è stato il mio primo alunno. In quella IV A dell’“Azuni”, insieme con lui, c’erano soltanto altri due maschi. Con tutti e tre ci davamo del tu, perché avevamo poco meno la stessa età. Era la primavera del 1948, io avevo appena compiuto i 19 anni, facevo l’ultimo anno di Lettere a Cagliari. Si ammalò (per quindici giorni soltanto, per carità) la loro severissima signorina Devilla. Il preside mi chiamò a sostituirla. Le ragazze erano già conosciute come le più carine di Sassari: e forse per questo i tre maschi erano seduti nei primi banchi, in modo da non distrarsi. Per farmi rispettare cominciai a cacciare dalla classe qualcuna delle più indisciplinate: anche loro, le ragazze, mi davano del tu, del resto. Mi dannai l’anima a insegnargli qualcosa, ma quando tornò la Devilla le dissero che non avevo fatto nulla. Qualcuno me lo spiò, da lì imparai a non fidarmi degli alunni (poi magari altri alunni avrebbero imparato a non fidarsi di me).
«Vindice lo ritrovai, per quello che mi ricordo, nell’annata 1° febbraio 1955-30 gennaio 1956. Fui assunto come corrispondente dell’“Unione” (di Crivelli, dici giusto) come corrispondente da Sassari: loro facevano addirittura una vera e propria edizione sassarese, ci si erano scornati Angelino Demurtas, mandato da Cagliari, e Paolo Fadda, cagliaritano con lavoro a Sassari, poi Filippo Canu, cui succedetti. Con un emolumento di 80 mila lire al mese, che erano tutt’altro che poche. Con quelli pagavo uno che mi faceva la cronaca nera e un manipolo di ragazzi d’Università, fra i quali Vindice (del resto, sarebbero finiti tutti, erano quattro o cinque, giornalisti). Facevano dei pezzi di “bianca” che servivano a riempire una pagina che non finiva mai. Io gli davo 500 lire a pezzo, tanto per l’“Unione” quanto per “Il Tempo”, nella cui pagina sarda aiutavo un amico corrispondente da Sassari. Venni assunto con una telefonata, a poche ore dall’inizio dell’incarico: che ebbe un avvio drammatico, perché a Campu Lazzari, qui sotto Sassari, un camion si sfregò contro un autobus affollato di maestrine che andavano alle scolette dei paesi: ne morirono sette, ma io non riuscii a far arrivare le foto a Cagliari, il buco mi fu rimproverato a lungo.
«Di quel Vindice non ho altri ricordi, né lui ha mai dichiarato di essermi stato due volte allievo. Ci rivedemmo nell’estate del 1973, quando un gruppuscolo di sei o sette redattori della “Nuova”, già all’inizio della carriera, si ribellò tanto a Cesaraccio – ci fu anche un processo, o comunque una querela per un loro volantino contro di lui – quanto alla proprietà rovelliana. Che mandava i direttori e dettava la linea (in realtà la dettavano loro, i padroni non hanno bisogno di comandare). In agosto fecero un giornale del lunedì, titolo “Il Lunedì della Sardegna”, io direttore responsabile perché ero uno dei pochi che contemporaneamente non lavorasse alla “Nuova”. Il giornale durò fino al luglio successivo, partecipammo al trionfo del no al referendum sul divorzio. Gli altri non-“Nuova” erano a Cagliari mio fratello, Beppe Podda, Alberto Rodriguez (grande utilizzatore dell’offset per la grafica della prima pagina, che è bella, a vederla, anche oggi), Michelangelo Pira, un Enzo (Pirastru?) giovane e un po’ invasato socialista.. Stampavamo da Fossataro. Ma il giornale lo facevamo tutto a Sassari. Poi la domenica quasi tutti scendevano a Cagliari (io lo feci solo un paio di volte, loro avevano impresso al giornale una svolta di forte sinistra, contro gli accordi per una linea, magari critica, di centrosinistra “regionale” e io mi ero così tirato da parte che quando il giornale chiuse mi pregarono di scrivere il canonico pezzo d’addio ma lo misero in quarta pagina), e siccome c’erano le “Domeniche a piedi” sfrecciare per la deserta 131 con licenza prefettizia era un godimento in più.
«Questo è tutto, per ora. Ci deve essere altro, chissà che non me ne ricordi uno di questi giorni».
L’amore a Lussu e al sardoAzionismo
Di formazione e idealità cattoliche Manlio Brigaglia era un ecumenico che, non soltanto da storico professionale, comprendeva “per sentimento” le complessità della storia sociale, le stratificazioni del pensiero politico come s’era evoluto in Italia e le contraddizioni anche del suo inveramento nelle vicende del territorio; da gallurese fattosi sassarese aveva penetrato con curiosità intellettuale ma anche con partecipazione umana, le esperienze maturate in luoghi fisici lontani da quelli praticati – metti i Campidani, metti il Gerrei o l’Iglesiente – ma anche i luoghi che per ideologia si sarebbero detti lontani dal suo: così il sardismo o, meglio, il sardoAzionismo, Lussu e Giustizia e Libertà – quanti titoli al riguardo portano la sua firma! –, il repubblicanesimo mazziniano di Michele Saba sassarese e Silvio Mastio e Cesare Pintus cagliaritani… Fu il primo, Brigaglia, a riportare alla ribalta della conoscenza pubblica il nome di Silvio Mastio, mi pare nel 1970, su una rivistina repubblicana – “L’Edera” – diretta dall’indimenticato Bruno Josto Anedda, rinnovando quel ritratto biografico nel 1986 nel collettaneo “L’antifascismo in Sardegna”.
Fu con noi repubblicani, Brigaglia, e fu il più bravo e gustoso, al convegno che, nel 1985, tenemmo all’università di Sassari, per celebrare la grande memoria di Michele Saba e, con la sua, tutta la dignità patriottica e democratica del repubblicanesimo sardo, che muoveva da Gio.Maria Angioy, solcava l’intero l’Ottocento, da Efisio Tola a Giovanni Battista Tuveri, a Giorgio Asproni, a Pietro Paolo Siotto Elias, ecc. fino agli approdi del primo Novecento e all’antifascismo combattente appunto di Mastio e Pintus, ma anche di Francesco Burrai e degli altri che in patria o in Spagna rischiarono tutto, e all’antifascismo testimoniale di uomini egregi metti come Gonario Pinna…
Nel 1990, apprestandomi a mettere in stampa tutta una serie di studi sul rapporto fra sardismo ed azionismo negli anni del passaggio dalla dittatura alla democrazia repubblicana – avevo allora molti inediti raccolti fra Cagliari e Nuoro – , a lui, al professore, ricorsi, ed egli ripetutamente – “imbarcandosi” in una corriera da Sassari apposta per me – se ne venne nel capoluogo e presentò lavori come “Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano”, o “Sardismo e Azionismo negli anni del CLN”, o ancora “Bastianina, il sardoAzionismo, Saba, Berlinguer e Mastino”.
Ogni volta che lo chiamavo anche mi scusavo, immaginando il disturbo di fargli fare (tutto gratis, anzi a sue spese) duecento e passa chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. «No – mi rispondeva puntualmente – ho piacere di venire a Cagliari, ho studiato qui negli anni della guerra, qui ho mio fratello e mio padre… Eppoi io voglio bene a Cagliari, sono uno di quei sassaresi che amano Cagliari». Mi sentivo speculare a lui: anch’io, cagliaritano, amo moltissimo Sassari e i sassaresi, un pezzo del mio mondo ideale – dalle comunità di padre Morittu al Banco di Napoli di palazzo Giordano, da Antonio Marras alle rotative antiche de “La Nuova Sardegna” e alle logge Angioy e Mameli, dalle memorie liberomuratorie di Mario Giglio e Cenzo Simon, a quelle repubblicane dei Saba e di Angelo Rundine, a quelle degli arcivescovi Agostino Saba e Paolo Carta – è al Rosello.
Pagine collaborative, fra Massoneria, Madonnine e football
Ho pubblicato alcuni degli interventi di Manlio Brigaglia, brillanti sempre, propiziati dalle occasioni sardoAzioniste e repubblicane. Spero di poterli riproporre fra qualche tempo. E, d’altra parte, con infinita minor misura della sua assistenza, non negai la mia quanto fu lui a richiederla a me. Particolarmente gradevole mi rimane il ricordo dell’accompagnamento cui he mi invitò a fornire ad giovane e bravissima laureanda, nell’anno accademico 1990/91, del suo corso in Materie letterarie della facoltà di Magistero: “Per una storia della Massoneria in Sardegna (1867-1925)”. Egli era il relatore, e quella fu forse la prima di una serie di tesi sull’argomento che sono state discusse, ora a Sassari ora a Cagliari, nell’ultimo quarto di secolo.
In epoca più recente – era la primavera del 2016 – mi… sfruttò con il sorriso sempre sulle labbra: «Caro Gianfranco, un mio amico (interessato alla vicenda, forse come protagonista o simile) si è messo in testa di scoprire chi ha scritto un fantasy sardo-politico che si intitola qualcosa come “Un giallo irrisolto”, firmandosi Capitani. Hai qualche notizia sul mistero? Grazie. Manlio». M’attivai subito, naturalmente: il comandante chiamava, obbedire era come sdebitarsi di tanta fiducia. Figurarsi quanto poi arrivavano i riconoscimenti per la risposta, come una promozione da caporale a… sergente maggiore addirittura: «Letto in questo momento, sei impagabile. Come si direbbe Sherlock Holmes in cagliaritano? Grazie mille. Manlio».
In debito restavo, e infatti ecco ancora io a chiedere e lui pazientemente a rispondere. Qui siamo nel gennaio dello scorso 2017 e riporto il messaggio soltanto per dare un’ennesima conferma della cura tempestiva ch’egli metteva in ogni relazione che mai derubricava nella categoria del “disturbo”. Gli chiedevo della famiglia del grande Tavolara e delle madonnine Etfas: «Caro Gianfranco, Tavolara ha lasciato una figlia unica, che si chiama Luisa (chiamata mi pare Luisanna), coniugata G[…]M[…]. Né l’una né l’altro figurano nell’elenco del telefono, mentre ne hanno uno intestato a Luisa ad Alghero, ma non ci vanno quasi mai. Ho provato in diversi modi, tutto è cancellato. Quanto alle “madonnine”, che io ho frequentato nei commenti parlati ai documentari di Fiorenzo Serra sull’Etfas (ci volevano sempre), le aveva volute Pampaloni, che era un grande devoto della Madonna, come dimostrano anche i nomi delle borgate della Riforma (Stella maris, Tottubella etc.. Se ti serve altro, chiedi pure. Auguri. Manlio».
E l’addendum a tamburo battente: «Caro Gianfranco, credo che il tipo di Madonnina lo avesse scelto Tavolara. Ora che me lo hai suggerito, ricordo la frase finale di un documentario che diceva proprio così: “protegge l’uomo e benedice i campi”. Sempre auguri. Manlio».
Da sassarese amico dei cagliaritani commentò una volta un mio articolo che proponeva qualche riflessione critica all’indomani dell’aggressione di qualche tifoso (non sportivo ovviamente) mio concittadino ad altri della tifoseria turritana (era il maggio dello scorso anno): «Caro Gianfranco, il tuo molto sensato pezzo ha tre utopie: la prima è che in un campo di calcio i giocatori possano fare giri d’onore in onore di un nero buuato; la seconda è che questi razzisti, figli della maleducazione nazionale (e paracriminale) possano essere educati dagli uomini di buona volontà; la terza è che un sindaco di Cagliari venga a Sassari come a Canossa. Altri tempi, altri imperi. Ti ricordo sempre con affetto».