Radici storiche e prospettive dell’autonomismo sardo, di Antonello Angioni

La relazione è stata proposta dall’avv. Antonello Angioni, componente del Comitato per Sa Die de sa Sardigna e vicepresidente della Fondazione Siotto,  nel salone di Palazzo Vice Regio in occasione delle celebrazioni di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile 2018.

 

 

Oggi – in questa prestigiosa sala, carica di storia, alla presenza delle autorità civili e religiose – si celebra “Sa Die de sa Sardigna”, la giornata del popolo sardo. Il luogo prescelto non è certo casuale. Come ci ricorda il grande dipinto alle mie spalle, è qui che Alfonso il Magnanimo, nel 1421, presiedette il Parlamento sardo, costituito dai tre Stamenti: il militare, l’ecclesiastico e il reale. Ed è qui che, dal 1949 e per molti anni, si riunì il Consiglio Regionale della Sardegna. Siamo dunque in un luogo dall’alto valore simbolico che ha visto operare, nel corso dei secoli, le istituzioni rappresentative della Sardegna.

Quest’anno “Sa Die” si arricchisce almeno di tre importanti significati. Il primo è dato dalla concomitante ricorrenza dei 70 anni dello Statuto di autonomia speciale, che può rappresentare l’occasione per l’avvio di una riflessione, seria e documentata, sulle radici storiche e sulle prospettive dell’autonomismo sardo. Il secondo dal fatto che, proprio questa sera, in Consiglio Regionale, verrà discusso il d.d.l. destinato a dare alla Sardegna un proprio inno ufficiale: è “Su patriota sardu a sos feudatarios” (comunemente conosciuto come “Procurade ‘e moderare”) scritto e pubblicato da Francesco Ignazio Mannu tra la fine del 1795 e gli inizi del 1796. Il terzo motivo – terzo non certo in ordine di importanza – è costituito dal fatto che oggi, prima della parte civile delle manifestazioni, nella attigua Cattedrale, è stata celebrata da diversi vescovi della Sardegna ed alla presenza di mons. Angelo Becciu, la messa in lingua sarda.

 

Dicevo che quest’anno ricorrono i 70 dello Statuto sardo, promulgato con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3. Da allora ha preso avvio il percorso della Regione Autonoma della Sardegna che ha riconosciuto ai sardi, per la prima volta nella loro storia, il diritto di autogovernarsi. Tuttavia – se il 1948 segna l’inizio, sul piano istituzionale, dell’autonomismo sardo – occorre considerare che quell’idea ha origini assai più antiche.

 

Può infatti ritenersi che l’aspirazione dei sardi all’autogoverno – e quindi al riconoscimento di una propria soggettività politica e civile – affondi le sue radici nel periodo giudicale, allorché il territorio dell’Isola era suddiviso in quattro regni disciplinati da proprie istituzioni. Intorno al 1392-1395 Eleonora d’Arborea promulga la Carta de Logu, codice di leggi del Giudicato d’Arborea (di fronte a me c’è il grande dipinto del Bruschi che interpreta l’evento). Pensate che tale corpus di norme – la cui applicazione, in occasione del parlamento di Alfonso il Magnanimo del 1421 di cui ho detto, verrà estesa a tutta la Sardegna – rimarrà in vigore fino al 1827 allorché sarà sostituito dal Codice delle leggi civili e criminali del Regno di Sardegna (il c.d. Codice feliciano).

 

Chiusa l’esperienza giudicale, l’idea autonomista si svilupperà, sia pure in forma parziale e limitata, nell’ambito della monarchia catalano-aragonese e soprattutto in età spagnola, attraverso la vita degli Stamenti, gli antichi parlamenti sardi, con un processo dialettico – incentrato sulla concessione del donativo e sul riconoscimento dei privilegi – che vide il sorgere ed il lento affermarsi della consapevolezza, in capo all’elemento locale, di costituire un “popolo distinto” rispetto ai dominatori di turno.

 

Per la precisione fu Pietro IV il Cerimonioso a dar vita, nel 1355, al primo degli istituti autonomisti allorché convocò e presiedette a Cagliari il Parlamento, un organismo articolato in tre bracci, detti appunto Stamenti, riservati ai rappresentanti della nobiltà, del clero e delle città regie. Nel 1418 verrà istituito il Governo Viceregio, che aveva sede proprio in questo edificio, avente competenza territoriale sull’intera Isola. Nel 1564, iniziò a funzionare la Reale Udienza, il più alto consesso di giustizia del Regno che, di fatto, esercitò funzioni più ampie rispetto a quelle giudiziarie.

E’ nell’ambito degli Stamenti – attraverso una lotta plurisecolare fatta di vittorie effimere, di dure sconfitte ma anche di faticose e graduali affermazioni – che doveva formarsi quella coscienza che, col linguaggio di oggi, potremmo definire “nazionalitaria” o “autonomista” sarda. In quelle antiche istituzioni rappresentative si sviluppò, soprattutto nella seconda parte del Cinquecento e nel Seicento, la lunga e tormentata lotta per gli “impieghi”, con la quale veniva rivendicata l’attribuzione degli incarichi pubblici (civili e militari) e delle prelature ai sardi.

 

Quella diffusa consapevolezza di costituire un “popolo distinto” riemerge poi, ad un livello di maggiore maturità, alla fine del Settecento, durante il “triennio rivoluzionario sardo” (1793-1796). Si va dalla resistenza al tentativo d’invasione francese alla formulazione alla Corte sabauda delle «Cinque domande» (una vera e propria piattaforma politica autonomista), dall’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794 alla «secessione» sassarese, per poi giungere ai moti antifeudali del 1794-1796 che videro protagonista Giovanni Maria Angioy. Qui il carattere fortemente autonomista (e, nella circostanza, contrario all’assolutismo e antipiemontese) è ben chiaro, anche se l’epilogo della “Sarda Rivoluzione” lasciò l’amaro in bocca ai tanti patrioti che si erano spesi per quella causa.

 

In particolare, l’insurrezione cagliaritana del 1794 – ancora oggi viva nella memoria collettiva – sta alla base di “Sa Die de sa Sardigna”, la “Giornata del popolo sardo”, istituita con L.R. 14 settembre 1993, n. 44, e che tutti gli anni, il 28 aprile, si celebra, per iniziativa della Regione Autonoma della Sardegna e in collaborazione con numerose associazioni e fondazioni costituite in apposito Comitato. Tale circostanza ha contribuito a inaugurare una serie di studi storiografici che hanno gettato nuova luce su quei fermenti di rinnovamento economico e civile e sulla circolazione di idee politiche che l’insurrezione rese possibile.

 

Questo periodo, assai interessante, racconta – forse meglio di ogni altro – la vicenda di un popolo, il popolo sardo, e, come in un grande affresco, narra anche le sue attese, le sue rivendicazioni, le sue lotte, il suo affacciarsi alla storia e la sua ferma volontà di prendervi parte. Le lotte sono quelle che contadini, pastori e intellettuali, dagli inizi del Settecento, conducono in tutta l’Europa contro il feudalesimo e l’Ancien Régime. E sono proprio quelle lotte che danno l’avvio, nel vecchio continente, alla conquista delle libertà moderne che segnano l’inizio dell’età contemporanea.

 

Chiusa la gloriosa pagina della “Sarda Rivoluzione”, dopo qualche decennio, nell’ambito delle idee risorgimentali che avevano scosso tutta l’Italia, anche la nostra Isola è attraversata da un’ondata di entusiasmo popolare che trova forma in un variegato movimento di opinione favorevole alle riforme economiche, sociali e politiche. Tale movimento, nel novembre del 1847, formula la richiesta della «fusione perfetta della Sardegna con gli Stati di Terraferma». Il 30 novembre 1847 il re Carlo Alberto annuncia la “fusione perfetta” decretando la fine dell’antico Regnum Sardiniae e quindi delle sue leggi, dei suoi ordinamenti e delle sue istituzioni (tra cui gli Stamenti, il Viceré e la Reale Udienza). L’anno seguente i sardi entrano a far parte, a pieno titolo, del primo parlamento subalpino.

 

La “fusione” peraltro non porta alcun effettivo beneficio alla Sardegna che continua ad essere relegata ad una condizione di tipo coloniale. I vecchi problemi non trovano adeguata soluzione e, nell’arco di pochi anni, matura la coscienza della necessità di un’azione autonomista per dare alla Sardegna un ruolo meno subalterno rispetto al “Continente”. Tuttavia quando, all’indomani dell’unificazione nazionale, si dovette disciplinare la vita dello Stato Italiano, la scelta fu quella dell’accentramento del potere politico e amministrativo: scelta dettata soprattutto dalla preoccupazione che le profonde differenze allora esistenti tra le singole entità territoriali (espressione degli antichi stati preunitari) potessero compromettere l’unità nazionale da poco raggiunta. In realtà, l’analisi storica dimostra che tale scelta, ben lungi dal favorire la realizzazione di una salda e profonda unità, ritardò solo la crescita democratica e la coesione sociale del Paese.

Ovviamente non mancarono le voci contrarie e, tra queste, va ricordata quella di Giovanni Battista Tuveri, filosofo di idee federaliste e repubblicane e acceso sostenitore della necessità di dare pienezza di poteri ai Comuni. Come pure vanno ricordate le interessanti figure di Giorgio Asproni, un autonomista sardo ben inserito nel movimento democratico italiano d’ispirazione mazziniana, e di Giovanni Siotto Pintor che, con la sua autocritica, a trent’anni dalla “fusione perfetta”, denuncia la perdita dell’autonomia e delle istituzioni di autogoverno del popolo sardo che riteneva compatibili con la formazione di una più ampia unità statuale.

Nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia la classe dirigente isolana, costituita in prevalenza dai grandi proprietari terrieri, non seppe svolgere una funzione autonoma all’interno del nuovo Stato la cui presenza si manifestò attraverso l’esattore, i carabinieri, la leva obbligatoria ed un apparato burocratico “estraneo”, se non ostile, al tessuto economico ed ai bisogni che le popolazioni esprimevano.

 

In siffatto contesto, sul finire dell’Ottocento, i fenomeni del banditismo conoscevano una forte recrudescenza, soprattutto nelle zone interne dell’Isola: una situazione grave che trova puntuale riscontro, prima, nell’inchiesta parlamentare presieduta da Agostino Depretis (tra il 1868 e il 1871) e, poi, nelle due inchieste condotte dai deputati sardi Francesco Salaris (1885) e Francesco Pais Serra (1894-1895). Le relazioni conclusive evidenziano la necessità di approntare un complesso organico di provvedimenti eccezionali per la Sardegna. Notevole fu, in quegli anni, l’impegno del deputato liberale Francesco Cocco Ortu teso a riservare alla nostra Isola un’attenzione ed uno spazio nell’ambito della definizione delle linee politiche nazionali. E’ lui il principale artefice delle leggi speciali per la Sardegna che, nel 1907, vengono raccolte in un testo unico.

 

Agli inizi del Novecento, l’Isola è attraversata da un vasto movimento di riscoperta e di valorizzazione della storia e della civiltà locale che trova espressione in intellettuali del livello di Grazia Deledda, Sebastiano Satta e Francesco Ciusa. Sullo sfondo di questo movimento di idee, un giovane socialista nuorese, Attilio Deffenu, si mise alla testa di un ampio schieramento anti-protezionista che saldava la Sardegna al Mezzogiorno nella lotta per vincere l’arretratezza e il sottosviluppo. In particolare, si chiedeva un’adeguata soluzione alla “questione sarda” e si rivendicava un nuovo rapporto – sul piano politico ed economico – tra la Sardegna ed il governo centrale.

 

La Grande guerra accentuò i limiti e le contraddizioni presenti nello stato liberale. Alla sua conclusione (fine del 1918) in tutta Italia si sviluppò il movimento dei reduci e dei combattenti che, in Sardegna, ebbe la forza e la capacità di sviluppare un’azione autonoma e consapevole finalizzata al riscatto economico e sociale dell’Isola. Erano soprattutto gli “intrepidi sardi” che avevano combattuto nella “Brigata Sassari” ad animare il dibattito che ben presto avrebbe dato  vita ad un partito politico, il Partito Sardo d’Azione, che indicò la strada per costruire una nuova organizzazione della vita economica, sociale e politica in chiave autonomista.

 

Tale rinnovamento si sarebbe dovuto realizzare su un duplice terreno: quello delle riforme economiche e sociali e quello della riforma dello Stato attraverso la costituzione delle regioni che, spezzando l’accentramento, avrebbero dovuto porre le basi dell’autogoverno, indispensabile strumento per una crescita civile e democratica. In questa prospettiva, nell’Isola, si sviluppò un ampio movimento di popolo che legò vaste masse di proletariato rurale e intellettuali delle città. Così l’idea dell’autogoverno contraddistinse il pensiero e l’opera di valenti sardi tra cui vanno ricordati Umberto Cao, Giovanni Maria Lei Spano, Angelo Corsi, Emilio Lussu e Camillo Bellieni. Con essi e con altri (penso anche a Gramsci) la “questione sarda” usciva dalle elaborazioni teoriche per diventare istanza di popolo.

 

Agli inizi degli anni Venti, il nascente fascismo, ben consapevole del valore del movimento sardista, cercò in tutti i modi di attuare la fusione tra le due forze politiche. Nonostante una percentuale significativa dei quadri e dei militanti del Partito Sardo d’Azione diede testimonianza della propria opposizione al fascismo, la fusione riguardò buona parte dei quadri sardisti, alcuni dei quali aderirono al regime sperando di far accettare alcune delle rivendicazioni fondamentali del  Partito Sardo d’Azione. Tale speranza era destinata a naufragare in quanto, durante il fascismo, si verificò un accentramento ancora più rigoroso rispetto al passato. In compenso, nel novembre del 1924, su sollecitazione dei deputati fascisti ex sardisti, il governo emanò la “legge del miliardo” che stanziava quella imponente cifra per realizzare, in Sardegna, un piano straordinario di opere pubbliche. Da allora si verifica una significativa modernizzazione della nostra Isola.

 

Come è noto, il 25 luglio del 1943, il Gran Consiglio vota la sfiducia a Mussolini e, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la Sardegna viene sottoposta al governo militare alleato che porta all’istituzione, il 27 gennaio 1944, dell’Alto Commissariato per la Sardegna che assume un ruolo sempre più importante al punto di poter esercitare – sia pure in caso di necessità – «tutte le attribuzioni del governo centrale». Di fatto questo organismo della burocrazia militare divenne il primo nucleo del potere locale in una prospettiva autonomista. In breve, si rese necessario affiancare l’Alto Commissario prima con una Giunta e poi con una Consulta  Regionale, espressione dei ricostituiti partiti politici antifascisti. Alto Commissario era il generale Pietro Pinna di Pozzomaggiore che rimase in carica dal 29 gennaio 1944 sino all’elezione del primo Consiglio Regionale, avvenuta l’8 maggio 1949, che ne segnò la soppressione.

 

Quel periodo storico fu caratterizzato da una grande vivacità culturale, da forti tensioni politiche e sociali e da un inconsueto ottimismo. Sono anche gli anni dell’occupazione delle terre e della rivendicazione della riforma agraria da parte dei braccianti. Si chiede l’ammodernamento dell’economia isolana e sia apre un dibattito sulla gestione della nascente autonomia che deve essere partecipata dal basso e capace di dare adeguate risposte alle istanze di superamento della tradizionale arretratezza.

 

In questa temperie viene elaborato lo Statuto Sardo frutto – al pari della Costituzione della Repubblica – della positiva collaborazione tra partiti politici di diversa ispirazione. Discusso in via definitiva dall’Assemblea Costituente (nelle sedute del 28, 29 e 31 gennaio 1948), era stato sottoposto in precedenza al vaglio della “Commissione dei 75” e studiato da un’apposita Sottocommissione che aveva predisposto il testo sulla scorta dell’elaborato proposto dalla Consulta Regionale Sarda. Decisivi furono in particolare gli apporti di Renzo Laconi, Emilio Lussu, Antonio Segni, Velio Spano, Salvatore Mannironi, Pietro Mastino, Enrico Sailis e Piero Soggiu.

 

L’approvazione dello Statuto aveva dato ai sardi una risposta alla plurisecolare aspirazione all’autogoverno e un modello di organizzazione democratica. In quel particolare momento storico, speranza e consenso, creatività e mobilitazione, si fusero nella coscienza collettiva dei sardi. Tuttavia, già sul finire degli anni Settanta del Novecento (allorché le regioni a statuto ordinario erano divenute una realtà operativa), iniziò una riflessione più profonda sui contenuti dell’autonomia.

Tale riflessione – tuttora in corso – rende necessario un approfondimento serio sulle ragioni della “specialità” per verificare l’attualità ed il significato del riconoscimento di un’autonomia “differenziata” a favore della nostra Isola. E’ certo che l’autonomia dovrà collocarsi nell’orizzonte internazionale ed europeo, caratterizzato dalla crescente interdipendenza tra le diverse aree del mondo e dal fenomeno della globalizzazione. In altri termini, l’autonomia dovrà essere ridefinita per rispecchiare una realtà profondamente mutata nei suoi tratti materiali e immateriali. Maggior spazio dovrà essere riservato anche alla tutela del paesaggio e dei beni ambientali e culturali che sempre più contribuiscono alla formazione della nostra identità culturale in un contesto caratterizzato da crescente interdipendenza e sussidiarietà.

In questa prospettiva i sardi dovranno dare contenuti innovativi a parole controverse e complesse, quali “identità” e “specialità”. L’idea, originale e forte, intorno a cui fondare il nuovo patto con lo Stato risiede nella peculiarità di questa terra, del suo popolo e della sua cultura che la distinguono dalle altre parti della Repubblica. In altri termini, a 70 anni dall’approvazione dello Statuto speciale, occorre riscoprire e valorizzare una concezione dell’autonomia come apertura alla interazione tra i popoli nel rispetto delle diverse identità. L’autonomia non può quindi ridursi ad una forma di chiusura rivendicazionista ma deve aprirsi al mondo moderno per consentire alla Sardegna di partecipare, con la sua identità storica e politica, ai processi di integrazione economica e culturale che hanno – e sempre più dovranno avere – dimensione europea e mondiale.

 

Antonello Angioni

 

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