A “su connottu” centocinquant’anni dopo: parlando a Nuoro di pastori e consiglieri comunali, di uomini di Chiesa e uomini di loggia, di Gianfranco Murtas
Si potrebbe declinare, la sommossa, anche al femminile, non al maschile, per l’energia messa in campo da Paskedda Zau e sua figlia Tonia, e anche da altre loro colleghe popolane – Tatana, Mariantonia, Ormena ecc. – nella petizione già ribelle gridata già all’uscita dalla messa di Santa Maria e “operata” nelle strade di Santu Predu e nelle stanze di Palazzo Martone, un secolo e mezzo fa.
Se ne sono fatte rappresentazioni sceniche, con numerosi figuranti, nei giorni passati così come negli anni più recenti, si sono fatti dibattiti di approfondimento su aspetti diversi della vicenda storica di “su connottu” (il salto comunitario di Sa Serra), si è perfino fatto un processo con capi d’imputazione e ragioni esimenti da ogni colpa, si sono ricercati i documenti amministrativi e giudiziari sepolti dal tempo e s’è concessa, da liberi vicari di Domineddio, una pur breve risurrezione – quella che tanto temeva il popolo infelice di Salvatore Satta – ai protagonisti nuoresi finora ingessati da un giudizio di “vulgata”, neppure importa se benevolo o di condanna.
Forse anzi è stato soprattutto questo il miracolo che l’iniziativa “dibattimentale” a più livelli promossa da Michele Pintore e Gianfranco Colli ha compiuto: un miracolo civile e di cultura, di nuova consapevolezza delle complessità cioè, e delle coesistenze di ragioni diverse ed opposte in capo agli stessi attori in scena e prima e durante e dopo la sommossa. Onore a loro, a Pintore e Collu, e a Gianluca Medas rivoluzionario regista-cronista capopopolo. Resurrezione doveva esserci, e tutti quanti siamo stati coinvolti, fiancheggiatori di questo o quello per personali prossimità ideali (anche don Tonino Cabizzosu con il vescovo Demartis e il sistema clericale diocesano con i suoi analisti storici od io, più modestamente, con Giorgio Asproni, Gavino Gallisay, Giuseppe Cottone e anche Salvatore Maria Pirisi Siotto ed i due maggiori Satta Musio, il rettore e il magistrato), la nostra parte l’abbiamo retta, convinti non di avere ragione, ma di avere delle ragioni.
Dovrò limitarmi a questo primo tempo soltanto della “tre giorni” nuorese, cui ho direttamente partecipato, altri dirà il resto che è il più. Ma intanto, associando passato e presente, la memoria risvegliata di episodi lontani e la rielaborazione d’oggi, pacata e critica, intelligente, di una battaglia che parve necessaria e invece doveva essere evitata se maggior preveggenza ci fosse stata da parte degli organi di uno stato però ancora troppo distante e indifferente agli interessi sociali – tanto più ai nostri di sardi –, risalgono le suggestioni del Passio messo su carta con genialità pirotecnica da Salvatore Rubeddu e che molti anni fa (era il 1969, quando eravamo a cento e un anno soltanto dai fatti) Gonario Pinna aveva ristampato, per i tipi dell’editrice Sarda Fossataro, nella sua Antologia dei poeti dialettali nuoresi: quelle suggestioni, bisogna dirlo, che la valentia spettacolare di Marco Moledda ha saputo riprodurre nella mattina di venerdì 27 aprile nell’aula magna dell’Università nuorese, sono state di per sé un valore aggiunto all’assemblea e convegno.
Il “Passio” di Salvatore Rubeddu
Va detto che Salvatore, 21enne appena quando assisté alla sommossa, apparteneva a quel cenacolo ideale dei poeti popolari ed anticlericali (ne ha scritto belle pagine anche Sebastiano Dessanay) cui fu dato di assistere alle trasformazioni epocali che coinvolsero la sua e nostra terra nel secondo Ottocento: nacque nell’anno stesso della “fusione perfetta”, il 1847, e conobbe, nella sua adolescenza, la Sardegna fattasi madre (misconosciuta) dell’Italia unita, conobbe le contrastate fatiche dei democratici alla Asproni e il poco venuto dalla commissione parlamentare d’inchiesta del 1869, vide comunque avanzare le prime linee ferroviarie dell’Isola e in parallelo lo sfregio dei disboscamenti progressivi dove più dove meno, registrò le imprese dei banditi di montagna e alla macchia, tenne la contabilità delle vendette e dei carabinieri abbattuti, ebbe perfetta cognizione ed ogni aggiornamento delle grandi e delle piccole cose nel viver quotidiano della sua Barbagia, della fame e delle cavallette, del colera e delle guerre continue ed intestine, sotterranee e in superficie, del clero di Santa Maria ed altrove, misurando le distanze dei “padroni” dello spirito dalle strette e permanenti necessità, pedagogiche in primo luogo, della gente.
Morì giovane, nell’anno in cui a Roma uscirono le pagine della Rerum Novarum, davvero poco incidente sulla realtà sociale dell’Isola (seppure qui fu, con molto artificio retorico, più volte riproposta nei suoi capitoli): fu anche l’anno, quello, in cui una lapide venne affissa sulla casa di Giorgio Asproni, celebrandolo, a tre lustri dalla scomparsa e nel 21° anniversario della «liberazione di Roma», come «mente aperta ai grandi ideali di libertà / animo temprato a virtù antica». Asproni, a cui Sebastiano Satta – il Vate riconosciuto – avrebbe un giorno dedicato versi di pietra: «– Noi lo vedemmo e udimmo – i vecchi dicono / seduti all’ombre verdi del sacrato, / e a lui pensando, i pii vecchi risognano / tutti i migliori sonni del passato – / Noi lo vedemmo e udimmo. In lui la ruvida / possa della sua gente: e il dritto e sano oprare…».
Morì appena due mesi dopo quella cerimonia democratica e di patria, Salvatore Rubeddu. Aveva studiato in Sardegna ed a Pisa, aveva scritto un romanzo storico (poi, malauguratamente, distrutto) e versi, molti versi, aveva campato impiegandosi al Comune, all’Ufficio del Registro, a quello del Dazio, di cui fu il direttore, e per breve tempo aveva anche insegnato alle scuole elementari di Nuoro. Fu Rubeddu, nel giudizio di Pinna, un partigiano del popolo, un suo avvocato con i mezzi di una «lingua caustica, pronta a fustigare gli abusi e i favoritismi».
Così – egli prosegue – «prese ferma posizione di solidarietà con coloro che promossero e attuarono la sommossa popolare de Su Connottu (Contro l’applicazione d’una deliberazione del Consiglio di Nuoro che decideva di lottizzare e vendere ai privati una notevole parte dei terreni comunali) scrivendo quel Passio de su Connottu che, entro la cornice del latino maccheronico, mostra le punte culminate del più schietto dialetto nuorese; così ebbe a trovarsi sempre alla difesa dei deboli e dei poveri. Senza che si possa affermare quale fosse, se pure ne aveva, la sua ideologia politica, oggi lo si direbbe – con una terminologia corrente – un uomo di sinistra. Dalla sua produzione poetica – quella, naturalmente, che è rimasta a noi perché molta parte è ancora dispersa – è possibile ricavare una nota costante: un vivace, anzi profondo anticlericalismo che investe (come voleva la stampa dell’epoca) non la Chiesa, come potenza spirituale e temporale, ma i preti. Si sente, leggendo le sue poesie, che la satira contro costoro è esercitata con gusto, talvolta feroce. Ma le cose migliori, anche oggi più valide, sono Su Zudissu Universale, Sa Bibbia, Su Passiu, alcune strofe del Brindisi a Su Connottu (a imitazione del Brindisi a Girella del Giusti) e certi quadri di ambiente che esulano dalla consueta bozzettistica di colore e hanno spesso il segno dell’acquaforte e della puntasecca».
E così, a proposito di “su connottu”, oltre a risuscitare Paskedda Zau e gli altri amici e avversari, s’è risuscitato – merito di Pintore, Colli e dell’arte di Marco Moledda – anche Salvatore Rubeddu.
Nei versi in latino maccheronico
In illo tempore, – dixit Paschedda Zau – : «a su Connottu», et Tonia filia eius: – «arga e muntonarju [immondezza di immondezzaio] – non sunt sos benes de babbu tuo». Et mater: – «Veni retro Toniam, sa cosa l’isperto [la scevero] deo». – Et ex horto, ivit ad domum Martoni quae appellatur domum communalem – et ibi afferravit papiros cum dentibus, exclamans: «Ecco su samben de su poveru». Et Tonia Porcu, ivit in rionem Sancti Petri gridans: «Iscubilae [Uscite dall’ovile] – Chi non si ponzan cussa abbasanta» – et cum acuto sermone omnes incitabat gridare: «Fora su Cossizu»! [Fuori il Consiglio!] – Et Tatana Crudu in medio Turbae, arrizzavit codam fusi, dicens: «Andamus a su Profeta». – Et Mariantonia Mamujadinensis: «Corfu e balla [Colpo di palla], a nos cheren a sa limusina» [Ci vogliono ridurre all’elemosina] – et asinus lasciavit in farina manducans, – et dum regreditur, cum farinam non invenit, asinum mazzucavit [bastonò] – et filens dicebat: «Ja mi l’happo pizicanda» [Già me l’ho combinata bella] – et Tonia Ormena exivit cum strale [scure] ad truncandum januam – Et filius Berritta cum fucile ivit ad assaltandum truppam. Ita filius Ghisau, qui cum capitano, venturi fuerant ad manus. – Et Demontin iratus – volebat furare bandieram et cazzottum habuit in concam [sul capo] – Et e ferita eius sicut rivus, sanguinem ischizzinabat [schizzava]. – Et Pintor cum bandiera nante turban, ivit exortans gridare: «A su Connottu» – Et Moritta in finestra Corbi, gridabat ad Turuddam: «Bae jà t’arranzo deo» [Va’, t’aggiusto io]. Et postea omnes, iverunt ad Merriolam, et vinum acchirriabatur [E fu portato il vino], dicens illa: «A contu nostru».
Le relazioni storiche, fra protagonisti e fatti
Importante la relazione introduttiva, la mattina di venerdì 27, di Michele Pintore che ha dato conto di tutte le acquisizioni da lui e da Colli fatte negli ultimi anni di ricerche impegnative e assolutamente meritorie fra archivi i più vari per disseppellire dalla dimenticanza i perché immediati e palesi e quelli di fondo e ancora nascosti o quasi. Proprio nel dettaglio, nei passaggi anche legislativi ed amministrativi della lunga vicenda che si concluderà con la sommossa, gli arresti e con l’amnistia sollecitata da Asproni e firmata da Vittorio Emanuele II a favore delle diverse decine di imputati – con i popolani anche i borghesi (anche don Gavino Gallisay e dottor Cottone) e svariati sacerdoti – è stato il più della esposizione di Pintore, il tanto da-apprendere-per-comprendere l’intero “caso” nuorese del 1868.
Non meno importante l’intervento piano, dotto e documentato di Tonino Cabizzosu, professore di storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica di Cagliari, a difesa – se può dirsi così – della figura eminente del vescovo Salvator Angelo Demartis, avversata da Asproni e dal fronte politico liberal-democratico oltreché da ambienti dello stesso clero diocesano, un domani amata o almeno rispettata e apprezzata da Salvatore Satta (che tratteggia le virtù di «monsignor Dettori» nelle pagine de Il Giorno del giudizio). La conclusione del relatore è stata, direi, in convergenza con le riflessioni di Pintore: che, cioè, le responsabilità vere e più profonde del malessere sfociato nella sommossa, e della sommossa stessa, siano individuabili non nel vescovo e i suoi mali consigli istigatori (come pure non nella borghesia massonica per semplicità, o invero con semplicismo, giustapposta ideologicamente al Consiglio comunale attuatore della legge del Regno del 1865 sulla privatizzazione), ma nelle istituzioni appunto di uno Stato regnicolo – governo e Parlamento – tardo a comprendere per davvero la sofferenza sociale dell’Isola, tanto più delle sue zone interne.
E’ questa, d’altra parte, la linea interpretativa di tutta la vicenda sostenuta nel tempo dagli storici che meglio e più a fondo se ne sono occupati, e fra essi l’indimenticato e caro professor Lorenzo Del Piano (autore di diverse opere sulla questione della terra in Sardegna ottocentesca).
Saranno certamente pubblicate, speriamo a breve, le relazioni sia di Pintore che di Cabizzosu, e poi anche quelle degli esperti delle terre civiche e dei valori comunitari – da Fabrizio Mureddu a Dario Capelli, da Stefania Piras a Mondino Schiavone e Francesco Nuvoli – che hanno occupato la sessione serale del convegno, ancora venerdì 27, così com’è da augurarsi vada in stampa anche il resto del recitato nelle strade cittadine, a partire dal cimitero di Sae Manca e fino alla piazza San Carlo, all’insegna di “il ritorno di Paskedda Zau”, con gli arricchimenti del canto di Michela Capra (accompagnata dal contrabassista Pierluigi Manca): destinazione il vecchio municipio.
Piace qui ricordare le fattive collaborazioni anche alla messa in scena da parte del Circolo Marianna Bussalai, della Compagnia teatrale Garcia Lorca, della Sezione LI.BE.RU. Paskedda Zau, e l’intervento dei molti donanti moralità ed energia alla protesta e alla rivendicazione: Anna Paola Corimbi, Francesco Mureddu e Sofia Prino, Luisella Sanna e Francesca Mercurio, Mariangela e Francesca Fenu, Elena Cumpostu, Sandro Dessolis e Giusi Dessena, Elisa Carrone e Mattea Cherubini, Tonino Mesina e Piero Pais, Marco Moledda e Giovanni Fadda, Vittoria Marras e il gruppo Sas Nugoresas.
Né certamente ultimo sarebbe il merito – da tradurre in testo scritto e socializzare rapidamente negli Atti – delle parti sostenute da Gianluca Graziani e Alberto Pinna, Lucia Jole Massidda e Tonino Iozza, Luisella Pirisi e Antonio Cualbu, Sabrina Cadinu e Basilio Brodu, Gianfranco Mureddu e ancora Vittoria Marras, insomma dai rappresentanti dell’Ordine degli Avvocati di Nuoro, della Scuola Forense e della stessa compagnia dei Carabinieri del capoluogo che, nella sala consiliare del nuovo Municipio, tutti si sono cimentati in un virtuale “processo a Paskedda Zau” (episodio spettacolare di ripensamento storico che dal 2008 almeno, così a Cagliari, ha diversi sapidi precedenti, partendo nientemeno che da Sigismondo Arquer).
Perduta perfino la memoria del suo sepolcro in quel di Sae Manca, Paskedda ha avuto, sarebbe da potersi concludere così, la gloria di un dibattimento, di un riconoscimento dunque, finalmente di un riconoscimento pubblico! Riconquistato il nome nella sua breve risurrezione, sembra ormai segnata la sua sorte futura: entrerà, rientrerà anzi, a buon diritto, lei con la sua umanità, nella storia cittadina e della Barbagia, e il suo nome brillerà nella toponomastica anche, soprattutto s’affaccerà la testimonianza del suo vissuto nelle (competenti) risposte che gli scolari di Nuoro, facendo bella figura, potranno dare, in occasione d’ogni esame, ai loro professori (non soltanto… continentali).
Quella volta che Romano Ruju dette la sua lettura
Ci fu polemica dura fra don Ottorino Pietro Alberti e Romano Ruju, nel 1972, sulle pagine del settimanale diocesano nuorese L’Ortobene. Polemica dura e lunga, a molte puntate, a proposito del modo in cui l’autore aveva profilato i suoi protagonisti.
Romano aveva pubblicato in volume (destinandolo a diverse stampe successive: 1975, 1987, 2008) il testo della sua azione scenica in due tempi titolata proprio “Su connottu” e portata al pubblico dalla Cooperativa Teatro di Sardegna.
L’edizione del 1972 fu prefata da Francesco Masala, intellettuale social-lussiano di enorme capacità evocativa, allora anche Oratore della loggia massonica cagliaritana intitolata a Sigismondo Arquer. Lo stesso Masala offrì prologo ed epilogo già alla prima ristampa (arricchita di contributi biografici sull’autore nel frattempo scomparso), uscita come quarto Quaderno della Compagnia teatrale. Non si pose certo problemi – spirito libero come era – Francesco Masala a parteggiare per i “rivoluzionari” contro quelli che il vescovo Demartis e molti dei suoi, stretti in un clericalismo senza respiro, consideravano quasi gli affamatori dei nuoresi poveri, essi padroni del Municipio e forse anche delle terre e di ogni opulenza: i massoni, cioè i… sodali virtuali del Masala presente.
Appena possibile conto di riproporre i testi di Masala ma poi anche quegli altri della polemica – di Alberti contro Ruju, e risposta – ma sarà soltanto per omaggio affettuoso alla memoria dell’arcivescovo che fu amico, e ristoro al giovane e sfortunato autore (il quale per parte sua non lesinò, nella diatriba, gli argomenti a proprio sostegno, che non furono davvero pochi).
E intanto proprio come anticipato omaggio a quest’ultimo, prima che ad Alberti, ed anche come abbrivio alla mia relazione nuorese dei giorni scorsi, riproduco qui appresso alcune delle pagine del dramma, da cui chiaramente emerge il giudizio ideologico che Ruju attribuisce al presule che fu intimo di Pio IX…
Tratto dall’azione scenica in due tempi
Notte del 22 aprile 1868… Passano alcune persone con passo svelto avvolte nella penombra. Gridano:
- Morte al Papa!
- Abbasso i Paolotti!
- Evviva i Massoni!
- Fuori il vescovo!
Monsignore – Li sentite? Gettano discredito sulla chiesa, sul Papa e sul mio nome. Sono convinti che siano i preti a eccitare le sommosse, mentre non sanno di certi predicatori di ateismo che minano le basi di ogni civile convivenza, di certi millantatori di libertà e di indipendenza che hanno eretto a sistema l’egoismo e, come dice Robespierre, considerano la società come una lotta di scaltrezza, […] il mondo come un patrimonio di furbi bricconi!
Vicario – Vostra Eccellenza è solo da pochi mesi qui e non si è ancora potuto rendere conto della gravità dei fatti che si vanno verificando. In quindici anni ho avuto modo di constatare cose spaventose. Tutto è in stato di fallimento, anche in seno alla diocesi […].
Monsignore – Ho constatato, ho constatato quanto dite […]. E non vi nascondo che molte pecorelle non belano, ma… ululano […]. Mi sono di già premurato di inviare un relazione dettaglita alla Santa Sede e in attesa che Sua Santità mi dia opportuni consigli prego per la pace di tutti, anche di quelli che avrebbero immediatamente bisogno di essere purificati col fuoco dell’inferno.
Vicario – Vostra Eccellenza intende forse parlare dei Massoni?
Monsignore – Avete detto, avete detto bene amico mio: la massoneria, che domina il Comune e tutta l’attività pubblica di Nuoro. Costoro non si contentano più di spadroneggiare, ma scherniscono e deridono la mia persona, come è capitato poco anzi. Mi hanno duramente attaccato sui giornali per aver promosso l’obolo di San Pietro e per aver cercato di illuminare il popolo sul sacrilego attentato commesso ai danni dello Stato Pontificio.
Vicario – Il marcio non è circoscritto alla massoneria, monsignore […]. Con l’abolizione dei diritti di ademprivio e di cussorgia e con la concessione di 200mila ettari di terra alla società delle ferrovie, lo Stato ha creato nuovo caos e alimentato la fiammella dei nuovi disordini… Si era sperato bene con l’abolizione dei feudi, ma lo Stato si è inserito, nuovo padrone, beffeggiando apertamente i pastori e i contadini […]. Sapete bene, monsignore, che noi poveri preti siamo le seconde vittime di questa situazione assurda, perché anche le nostre decime sono andate a farsi benedire… oh, pardon!
Vanno in alternanza le scene in seminario, in consiglio comunale, nella cantina popolare (con pastori e contadini, un poeta e alcune donne tra cui Paschedda Zau:
– Ho io delle proposte concrete da fare. Il Comune ha progettato un piano di lottizzazione che va contro gli interessi del popolo. Ebbene, siccome siamo noi il popolo e a noi il piano non piace sapete che facciamo? Lo distruggiamo, lo facciamo a pezzetti, bruciamo tutti i documenti ed è fatto! […]).
Un consigliere, il giorno dopo la sommossa, rivolgendosi al sindaco ed ai colleghi:
– Ma credete veramente che il gesto criminoso sia stato guidato dalla mente di pochi pastori ignoranti o addirittura da una donna?… Signori, sappiamo bene che il clero non ci è stato amico e che il suo più illustre rappresentante, monsignor Demartis, dacché si trova a Nuoro ha frapposto senza veli fra noi e la buona amministrazione della cosa pubblica ostacoli di ogni sorta. Prove inconfutabili sono i suoi ricorsi contro il Comune per riavere la sede del vescovado da noi giustamente destinata a Corte di Assise. Altra prova inoppugnabile, illustri colleghi, è l’averci additato all’opinione pubblica come nemici del popolo quando dovemmo per giuste necessità, requisire la chiesa di Santa Croce […]. La spinta decisiva, la molla che ha fatto scattare il congegno, la scintilla che ha fatto scoppiare la bomba puzza d’incenso lontano un miglio […].
2° consigliere – Signor sindaco, signori consiglieri: il nome del vescovo è un comodo alibi per tutti […]. Non si tratta né del popolo né del clero, anche se quest’ultimo, a mio avviso, ha tentato di manovrarne le fila […]. Per me, nella sommossa di ieri c’è chiara, lampante la mano dei Massoni. Ed è in questa direzione che orienterei le indagini, se non vogliamo punire degli innocenti. E’ chiaro che la ribellione, […] se non fosse scoppiata ora sarebbe divenuta realtà fra non molto, come tutte le cose che giungono inevitabilmente a maturazione dopo anni di miseria e di ingiustizie. Ed allora a ribellarsi non sarebbero stati pochi ingenui animosi aizzati da gente furba e senza scrupoli, ma tutto il popolo finalmente convinto che per scrollarsi di dosso una così pesante eredità è necessaria la rivolta non la sottomissione, la lotta armata non le parole… Che cosa aspettate dunque a dimettervi? Dimostrate, almeno una volta, di possedere un po’ di dignità, quel po’ che ogni uomo, per meschino e basso che sia, riesce sempre a trovare nel fondo della sua anima.
Sindaco – Basta con le accuse! Non è questo il luogo per le prediche o per i comizi di piazza. Finché gli animi saranno eccitati e la gente parlerà con la voce della collera non ci sarà possibile trovare un punto d’intesa. Nel riservarmi di rassegnare le dimissioni, dichiaro sciola la seduta.
Voci – Finalmente l’hai detta! Fuori! Ladri! Sanguisughe dei poveri! La terra a tutti! A su connottu! […].
In preghiera, il vescovo (uno sguardo al crocifisso e uno al ritratto di Pio IX):
– Padre beatissimo, perché si tenta con ogni mezzo di far credere al governo che io sia stato il capo motore e l’istigatore della sommossa avvenuta il 26 aprile scorso? […]. Protesto contro chi intende attentare alla mia innocenza. So soltanto che si è trattato di una dimostrazione popolare diretta contro il municipio ed avente lo scopo di impedire o almeno sospendere la divisione e la vendita dei terreni comunali. Il vicario mi ha riferito che la dimostrazione sul suo esordire si mostrò pacifica e disarmata e per primo si limitò a chiedere di soprassedere alla divisione e alla vendita dei terreni de “Sa Serra”. Poi gli animi si eccitarono e si oppose resistenza alla forza pubblica che intimava alla folla dei dimostranti di sciogliersi e, infine, prese d’assalto il palazzo municipale, gettando dalla finestra tutte le carte che poterono rinvenire e facendo un falò nella pubblica piazza… Posso tuttavia dire che il popolo non c’entra, perché furono visti due, pubblicamente riconosciuti come capi della massoneria stropicciare alcuni zolfanelli e appiccicare il fuoco alle carte frastagliate… La domenica successiva si temette in una nuova dimostrazione ed io che dovevo tenere Messa Pontificale per la dedicazione della chiesa e cantare l’inno Ambrosiano per le fauste nozze del principe ereditario, ritenni opportuno consultarmi prima col sottoprefetto e procedetti alla funzione quando egli mi assicurò che siffatta funzione non poteva dare il minimo appiglio al disturbo dell’ordine pubblico […]. Padre Santo, se è possibile, liberatemi da questa diocesi, in cui è tradizionale la persecuzione ed il crudo strazio che hanno menato sempre dei vescovi chele furono da Dio inviati […].
Dall’esterno, le voci:
– A morte il Vescovo! Vattene! Nemico dei Massoni e falso amico del popolo! Basta col doppio gioco! […] Clero e massoni, ladri e mangioni!
Nel marzo dell’anno successivo i membri della commissione parlamentare d’inchiesta commentano le risultanze del loro lavoro:
– Il nostro viaggio aveva uno scopo preciso: quello di renderci conto delle reali condizioni di arretratezza dell’isola. Invece, finora non abbiamo fatto che passare da un ricevimento all’altro, complici le autorità locali che si sono preoccupate non tanto di prospettarci le esigenze della loro isola, quanto di ben figurare con piatti succulenti, dolcetti caratteristici e contorno di canti e danze.
– Avete osservato quante bellezze nasconde quest’isola misteriosa, quante immagini suggestive degne di un gran bel romanzo.
– Il Governo ci ha mandati in Sardegna e noi ci siamo venuti. Questo ci hanno chiesto, questo abbiamo fatto. […]. Appena a Roma riferiremo e vedremo quali misure proporre… ed ora ragioniamo: questa “inferma sorella” è poi tanto inferma? Beata la gente, beati i pastori e i contadini che vivono lontani dai rumori e dai problemi delle grandi città! Lavorano, sognano, cantano e ballano tutto il giorno, compongono poesie in dialetto senza pensarci sopra […]. A Roma dovrebbero vivere per rendersi di come è veramente dura e disumana la vita!
La loggia Eleonora nella tormenta del 1868
Ecco a seguire la mia relazione:
Sarebbero innumerevoli le suggestioni nei passaggi “intertemporali” fra ieri e oggi, a dover accennare alla storia della Massoneria nuorese magari nel rapporto con la Chiesa locale, nel contesto della ricorrenza del 150° dei moti di “su connottu” ma non soltanto in tale contesto.
E’ materia da trattare, questa, con animo sereno e cordiale, con il distacco giusto dalle tenzoni ideologiche e dal carico emotivo di un secolo e mezzo fa, e anzi, con una simpatia umana per tutti i protagonisti in scena, oggi entrati nel “non tempo” del grembo di Domineddio:
dal vescovo Salvator Angelo Demartis Cuccuru al dottor Giuseppe Cottone, a don Gavino Gallisay Serra e a suo fratello e già sindaco don Francesco Gallisay Serra, al successore di questi, avvocato e prossimo parlamentare Giuseppe Maria Pirisi Siotto, magari al rettore Francesc’Angelo Satta Musio, certamente al nostro Giorgio Asproni,
ai popolani di campagna, pastori e allevatori poveri rimasti ingiustamente senza nome se non nelle carte bollate che sarebbero venute e comunque rappresentati da Paskedda Zau (Pasqua Selis Zau), magari anche il sottoprefetto, i consiglieri comunali, i carabinieri, la guardia nazionale.
Ma aggiungerei anche Romano Ruju e Ottorino Pietro Alberti che nel 1972 furono in contesa per molte puntate sulle pagine de L’Ortobene allora diretto dall’indimenticato don Gonario Cabiddu. Ruju infatti aveva presentato un suo lavoro teatrale, titolato proprio “Su connottu” (allora, neppure ventenne, lo recensii sulla Nuova), Alberti aveva contestato la parte assegnata al vescovo Demartis. Ripubblicherò appena possibile quelle pagine, omaggio ideale all’uno e all’altro – a don Ottorino, in quel momento, oltreché professore alla Lateranense anche rettore del seminario regionale appena trasferito da Cuglieri a Cagliari, ed a Romano, che purtroppo meno di due anni dopo ci lasciò a soli 39 anni.
Dovremmo trattare la materia con spirito di cordialità, poiché non siamo qui a dare i voti. Ma qualche focus, anche gustoso, la materia lo merita.
Gavino Scano e Francesco Ciusa
Mi verrebbe da ricordare, andando al vescovo nostro caro e amatissimo Giovanni Melis Fois, un passaggio della sua lettera pastorale del 23 febbraio 1975 – anno santo – quando, riferendosi alla storica disamistade fra bittesi e orunesi e richiamando anche la parte del suo remoto predecessore Demartis «buon pastore e padre», evocava altresì, appena tre righe sotto, le parole di Gavino Scano, l’austese che prima di essere rettore dell’università di Cagliari e senatore del regno fu per lunghi anni l’Oratore della loggia Vittoria ed uno dei riferimenti morali della Libera Muratoria sarda di fine Ottocento, praticante il genere letterario delle “imitazioni bibliche”, il quale aveva dettato per la pietra nel sagrato della chiesa di San Giovanni, sull’altopiano di Bitti, l’epigrafe: «Bitti ed Orune – raccolti in solenne plebiscito – spento ogni odio – con la fede dei fratelli – giurate paci eterne – questa lapide posero – perché i nipoti leggendo memori – intendano – la virtù santa del perdono – le gioie ineffabili – della concordia e dell’amore».
E c’è anche un altro e più recente episodio che meriterebbe ricordare, a proposito della Massoneria sarda e nuorese e della Chiesa cattolica diocesana, della fine del 1988: quando tornarono, con grandi onori da parte del clero e del laicato organizzato e per destinarle alla chiesa di Santu Caralu, le spoglie di Francesco Ciusa, quel Francesco Ciusa che la Chiesa aveva avuto per avversaria, giudice saccente in certi propri ordinamenti, nella sua gioventù – nel 1911 – e anche nella sua vecchiaia – nel 1948. Reclamato, giustamente, per la sepoltura a Santu Caralu, non poteva dimenticarsi come Francesco Ciusa avesse subito due volte la scomunica (che in verità non turbò mai la sua bella coscienza): la seconda perché candidatosi alle politiche in una lista social-comunista, la prima perché accostatosi alla Massoneria nella loggia di Oristano (la Libertà e Lavoro) e divenuto Maestro nella loggia di Cagliari (la Sigismondo Arquer, evocante la figura del martire di Toledo arso vivo dall’Inquisizione).
Quanta acqua sotto i ponti! Tutto serve a darci il modo e la misura con cui trattare la materia, passando dal particolare episodico – questo che ho richiamato – al generale – a cosa sia davvero la Massoneria –, per tornare al nostro particolare nuorese e inquadrare la vicenda del 1868 nelle sue luci più probabili, anche se forse non piene e certe, per difetto di documentazione, a riguardo della Libera Muratoria.
Nelle lettere inviate a Pio IX dal vescovo Demartis – il «frataccio» nella definizione piuttosto dileggiante offertane da Giorgio Asproni – il riferimento ai massoni nuoresi a lui ostili, o tali ritenuti, è insistente.
Nella valutazione del presule e nei contos che se ne sono avuti per lunghi anni la Massoneria, o per essa la loggia Eleonora, nella Valle del Marreri e del Cedrino, sarebbe la personificazione corporativa della ideologia e anche degli interessi della borghesia laica subentrata ai ceti dell’ancien régime, dei baroni alleati del clero nel governo della cosa pubblica.
I vescovadi vuoti, solo Montixi
Le riforme che dai primi anni ’50 dell’Ottocento, da prima dell’unità d’Italia cioè, sopprimono le decime ed aboliscono il foro ecclesiastico, la giurisdizione della Chiesa sui reati commessi dai religiosi, hanno creato il clima: ne sono venute scomuniche ai funzionari e ai ministri coinvolti nelle decretazioni, ed anche, all’incontrario, ritorsioni da parte del governo, con esili imposti ai disobbedienti (vedi il Marongiu Nurra, arcivescovo di Cagliari, esiliato a Roma, capitale non d’Italia ma dello Stato Pontificio) e la mancata provvisione delle diocesi una volta vacanti.
Per un quindicennio circa in tutta la Sardegna funzionerà un solo vescovo, don Giovanni Battista Montixi, ordinario della diocesi di Iglesias, chiamato qua e là per le cresime: Montixi il “liberale” che sarà fra quei pochi vescovi che non voteranno nell’estate 1870, al Concilio Vaticano I, il dogma della infallibilità pontificia.
A Nuoro monsignor Emanuele Marongiu Maccioni rinunciò alla diocesi nel 1852, anziano e stanco, logorato anzi. Da allora e per tre interi lustri, fino al 1867, la diocesi venne governata da un vicario capitolare, eletto dai canonici della cattedrale di Santa Maria della Neve: don Francesco Zunnui Casula, che sarebbe divenuto vescovo – ma preconizzato per Ales e Terralba non per Nuoro – proprio quando Nuoro ebbe finalmente il suo pastore nella persona di padre Demartis, carmelitano sassarese e fra i maggiori leader della sua famiglia religiosa.
E così il vecchio Montixi di Iglesias, Demartis di Nuoro e Zunnui Casula di Ales e Terralba furono i tre vescovi sardi convocati alla fine del 1869 per il Concilio Vaticano I, conclusosi in fretta e furia alla vigilia della storica e santa breccia di Porta Pia. (Ricordo che la ricostruzione dettagliata di quella partecipazione la dobbiamo proprio ad Ottorino Pietro Alberti, e che nelle pagine dedicate specificamente al vescovo Demartis, alla sua biografia e alla sua corrispondenza con Pio IX, gli echi dei moti di “su connottu” di un anno prima sono abbondanti).
Un’altra specificazione che spiega il contesto in termini anche molto diversi e sorprendenti, a proposito di Chiesa e Massoneria e Sardegna è quella, perfino paradossale, degli interessamenti dei liberi muratori, o dei dignitari del Grande Oriente d’Italia in tempi tanto calamitosi a pro della carriera felice di questo o quell’ecclesiastico o di altri aggiustamenti profani di convenienza ecclesiastica.
Di quelli di Giorgio Asproni v’è proprio un florilegio nel suo Diario privato-politico (si pensi anche a tutti i contatti con monsignor Salvatore Maria Sagreti, uditore nel supremo tribunale della Consulta a Roma),
ma si pensi anche a quelli del bittese Antonio Giuseppe Satta Musio – fratello del rettore di Orune – deputato del Grande Oriente per la Sardegna, cioè leader della Massoneria sarda negli anni fra ’60 e ’70 –
e di Francesco Salaris Artiere della loggia Vittoria (parlamentari l’uno nella Camera subalpina e l’altro in quella del regno d’Italia)
propiziati direttamente o meno dal canonico De Castro, a proposito della provvisione episcopale delle diocesi scoperte della Sardegna, quando sembrò che il varco liberale concesso al papa dal governo (allora nella capitale Firenze) per le nomine non proposte si risolvesse in una infornata di «fratacchioni», religiosi, uomini del clero regolare non diocesano cioè, con obiettiva umiliazione di quest’ultima: in gioco allora Demartis carmelitano per Nuoro, Bonfiglio Mura servita per Cagliari (ma inviato più tardi ad Oristano), e un altro ad Alghero. A Tempio avrebbe allora rinunciato un candidato, ma lì c’era allora tutta l’inquietudine – sempre a proposito di Chiesa e Massoneria (quella del Villamarina) – per la vendicativa reazione papale alla supplica che il clero locale, mobilitato dal vicario capitolare canonico Tommaso Muzzetto, aveva indirizzato a Pio IX perché rinunciasse spontaneamente al potere temporale.
Meriterebbe una pubblicazione integrale la corrispondenza del Satta Musio con il canonico De Castro, affacciata per alcune puntate dal professor Del Piano ormai trenta e passa anni fa (cf. Giacobini e Massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento, Cagliari, Edizioni della Torre, pp. 192-212). Da essa trarrei adesso soltanto un passaggio riguardante stricto sensu la nostra materia: «persuadetevi che la Massoneria non si occupa di religione e lascia la libertà che ciascuno segua quella che vuole… essa si occupa di tutto ciò che porta il bene ed il progresso dell’umanità… In questo senso vorrei nell’interesse della nostra Sardegna che in ciaschedun paese potesse sorgere una di tali società e le medesime farebbero molto bene, più di quello che fecero i nostri conventi che tramontarono. Non bisogna mai andar dietro i pregiudizi, ma questi bisogna combatterli».
Il partito della borghesia
E’ la borghesia intellettuale o professionale o d’impresa che subentra nella conduzione delle amministrazioni pubbliche, comprese quelle comunali, così anche in Sardegna e anche a Nuoro. A Villasor addirittura vi fu una giustapposizione fra la loggia e il consiglio comunale, sindaco in testa. Nel Tempio della Sivilleri si discusse di promuovere una società operaia di mutuo soccorso e un ricovero di mendicità nel circondario, e gli stessi Fratelli nelle vesti però di consiglieri comunali, con il sindaco Michele Vaquer, di quei propositi fecero una delibera formale, prima di scrivere al governo e per l’ennesima volta chiedere la soppressione della pena di morte nel regno. Per dire, l’amministrazione e la politica.
La Massoneria, che nel suo ultimo discorso parlamentare del 16 maggio 1925 Antonio Gramsci avrebbe definito il “partito della borghesia” (avvertendo come l’instauranda dittatura fascista, sopprimendo le logge, si preparava a sopprimere anche i sindacati e i partiti e le associazioni e i giornali liberi, e direi, all’inizio, a contenere anche la libertà della Chiesa e dell’Azione Cattolica), fu interprete in larga parte – la Massoneria – di questa transizione.
Una società ecumenica, e politica
Peraltro, nata in Inghilterra all’inizio del Settecento fra aristocratici e borghesi che amarono chiamarsi “liberi muratori” come appunto s’erano chiamati i costruttori delle grandi cattedrali gotiche d’Europa o dei grandi edifici pubblici nel basso medioevo, ora assumendo evidentemente in chiave soltanto elettiva la definizione, la Massoneria fu ecumenica già soltanto per questo dato sociale, ma fu ecumenica anche e soprattutto sul piano ideale e valoriale.
Le prime scomuniche vennero sostanzialmente perché la Chiesa, inter-prete della ideologia della “societas perfecta”, non poteva accettare che cattolici e protestanti ed ebrei potessero sedere – come capitava anche a Roma – su un piano di assoluta parità, senza pretesa di alcuno di catechizzare l’altro o di considerare se stesso portatore di tutta la verità.
Ma chi avrebbe mai immaginato che i “deicidi”, bollati tali dai pontefici lungo i secoli potessero essere chiamati “fratelli maggiori” da altri papi? E chi avrebbe immaginato un Paolo VI che definì “provvidenziale” – dono di Provvidenza – l’assunzione, da parte dell’Italia unita, di Roma quale sua capitale? Eppure per quella Roma, per non cedere Roma all’Italia, quante furono le condanne dei tribunali pontifici, quante volte tribunali e governatorati del papa Pio IX credettero di dovere azionare la lama della ghigliottina?
Il papa-re e la ghigliottina, l’AGDGADU
Si sa che, ancora poche settimane dopo i moti di “su connottu” e le lamentazioni rinnovate del vescovo Demartis a papa Mastai, proprio centocinquant’anni fa, la lama del boia dello Stato Pontificio staccò la testa di Giuseppe Monti – 33 anni – e di Gaetano Tognetti – 24 anni. Furono le ultime decapitazioni autorizzate da Pio IX, che la pena di morte aveva reintrodotto dopo che la mazziniana Repubblica Romana del 1849, quella per cui morì 22enne il nostro Goffredo Mameli, l’aveva invece abolita.
Fu merito di Giorgio Asproni, deputato bittese allora al Parlamento di Firenze, dopo che di Torino e prima che di Roma liberata, l’aver fermato la mano del boia: non solo egli lanciò, con altri repubblicani, una sottoscrizione per sovvenire alle famiglie dei decapitati, certamente non assistite da nessuno Stato sociale, ma pronunciò parole di fuoco verso un pontefice Vicario di Cristo che decretava lui il giorno e l’ora della fine della vita di questo o quello, anche di questo o quel patriota, e due uomini in carne ed ossa – Giulio Ajani e Pietro Luzzi (68 anni in due) – già prenotati al patibolo, ebbero così salva la vita:
«… Monsignor tale, che io conosco pure intimamente, e della cui opera mi son valso per salvare la testa all’Ajani e al Luzzi», annotò l’Asproni l’11 maggio 1869.
E sei mesi prima (il 1° dicembre 1868): «L’opinione pubblica in Italia rare volte si è manifestata così forte come in questa manifestazione. E questo prova ancora una volta qual tesoro di odio ci è in Italia contro la feroce ed ipocrita signoria dei preti».
E’ bene, trattando di Massoneria e di Chiesa, anche della loggia nuorese intitolata alla giudicessa d’Arborea e del vescovo Demartis, avere nozione di tali grandi coordinate valoriali. Perché accanto alla storia sociale c’è anche la storia ideale o ideologica.
Completo il quadro generale. Società nata ecumenica duecento anni prima che l’ecumenismo fosse accolto nelle elaborazioni teologiche della Chiesa di Roma, la Massoneria assunse in Italia caratteristiche che in parte la distinguevano dalle Massonerie di altre parti del mondo. Impegnata con i suoi uomini nel movimento unitario risorgimentale si “sporcò” di politica, essa che era nata per non trattare di politica nel senso delle partigianerie, ma anzi per superare le partigianerie, o per far convivere in armonia le diverse partigianerie, le diverse opzioni, le diverse verità, nella politica appunto come nella religione, senza alcun puntare ad alcun sincretismo.
Fattasi di necessità anticlericale essa non fu però mai irreligiosa. Proprio un anno dopo gli eventi di “su connottu”, il Venerabile della loggia di Sassari (intitolata a Goffredo Mameli) presentò alla costituente – una sorta di congresso nazionale – in svolgimento a Firenze un ordine del giorno teso a sostituire la classica formula oblativa “Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo” – Dio cioè, Jahvè per gli ebrei, Allah per i musulmani – con l’espressione positivista “Alla Gloria della Patria Universale e del Progresso Indefinito”: la proposta fu respinta pressoché all’unanimità. A conferma della religiosità massonica, in uno alla distanza dalla Chiesa di Roma, con i suoi assolutismi dottrinari.
Borghesi e laici dunque furono anche i massoni nuoresi riuniti nella loggia, o attorno alla loggia, Eleonora coeva degli eventi di “su connottu”: una loggia che entrò in gioco nello stesso 1867 dell’arrivo a Nuoro del vescovo Demartis.
In quello stesso anno – che fu anche quello del fallito sforzo garibaldino in quel di Mentana per liberare Roma dal papa-re – avvenne altresì l’iniziazione massonica, nella loggia Universo di Firenze capitale, di Giorgio Asproni.
Il circuito massonico sardo, anni ’60-70
Si associò, la loggia Eleonora, alle altre otto (a voler allargare al 1869 la conta delle formazioni) operanti nell’Isola: alle cagliaritane Vittoria, Fedeltà, Fede e Lavoro, Gialeto, Libertà e Progresso, alla sassarese Goffredo Mameli, all’ozierese Leone di Caprera, all’oristanese Mariano IV d’Arborea.
Presto, nell’arco di altri tre anni, altre se ne sarebbero costituite anche ad Iglesias – la Ugolino –, a Villasor – la menzionata Sivilleri –, ad Alghero – l’Antro di Nettuno e la Giuseppe Dolfi –, a Tempio Pausania – la Spartaco –, e poi anche a Porto Torres – la Domenico Alberto Azuni – e a Macomer – la Eroica Macopsissa.
Numerose altre ne sarebbero negli anni o decenni a seguire, e di varia obbedienza (di Piazza del Gesù come di Palazzo Giustiniani), anche a Nuoro e nel Nuorese fino a coinvolgere personalità di gran nome – accennerei qui adesso soltanto a Pietro Mastino, fondatore del Partito Sardo, antifascista e padre della Repubblica, e magari forse a Luigi Morittu, avvocato e consigliere provinciale, e Giacinto Satta, poeta e pittore baroniese sindaco di Nuoro di stretta religione mazziniana, che a Roma, dove trascorse molti anni della sua vita giovanile, frequentò lo studio di Giuseppe Nathan, fratello del Gran Maestro e sindaco.
Attorno alle quelle logge sarde dell’Ottocento, ed alle successive, fecero contorno le associazioni umanitarie, sociali e civili come la Società per le biblioteche popolari circolanti, quella gli Amici della istruzione (per l’alfabetizzazione popolare), e poi la Corda Fratres studentesca, la Dante Alighieri culturale, la Croce Verde assistenziale, ecc.
Il nazionalitarismo
Merita intanto dire del titolo distintivo assegnato alla loggia nuorese – Eleonora –, che rispondeva a una sensibilità affermatasi in una parte della Massoneria sarda già nella prima metà degli anni ’60 dell’Ottocento. Come sarebbe capitato molti anni dopo (nell’estate 1984), quando pressoché tutti i critici d’arte inciamparono avvalorando l’autenticità dei “colli” di Modigliani invece falsificati da un gruppo di buontemponi, così è notorio che l’intera intellettualità isolana cadde nel tranello, a metà Ottocento, dei falsi d’Arborea, di quelle pergamene cioè che raccontavano l’eccellenza di una storia politica e culturale nella Sardegna dell’alto medioevo, prima del Mille, quando addirittura il volgare italiano sarebbe nato nelle nostre corti pregiudicali (tre-quattrocento anni prima di San Francesco e di Dante Alighieri).
I falsi ispirarono il mito nazionalitario sardo. La Massoneria intellettuale di Cagliari, Oristano e Nuoro, impegnata a raccogliere fondi per l’erezione di una statua a Eleonora d’Arborea (che effettivamente sarebbe stata scoperta nel 1881 ad Oristano) inciampò alla grande nell’imbroglio: intitolò al mitico, inventato re Gialeto, una sua loggia a Cagliari (nel 1869) e, poco prima, ai grandi della casa d’Arborea le logge di Oristano – Mariano IV, padre di Eleonora – e di Nuoro – Eleonora la giudicessa. Tavole architettoniche, relazioni storiche e morali cioè, furono lette nella più solida loggia cagliaritana, la Vittoria, fin dal 1866, circa le “Naziona-lità”, quella sarda fra esse, e però niente fu vissuto in chiave di un gretto e sterile nazionalismo, ma anzi venne offerto il modello autonomistico sardo alle popolazioni sorelle del continente perché come gli Arborea resistettero agli invasori aragonesi, così s’auspicava i veneti facessero verso gli austriaci. Fu la storia della terza guerra d’indipendenza.
Dunque, borghesia, liberalismo, nazionalitarismo: i tre caratteri forti della Massoneria sarda e anche della periferica Massoneria nuorese.
Anni ’60, non ‘50
Nulla accredita per vero quanto riferito da Ottorino Pietro Alberti storico circa le origini addirittura nei primi anni ’50 di una loggia a Nuoro, esito di qualche iniziativa personale di militari malvisti e in rotta con i comandi: il riferimento fu a Paolo Daniele, comandante militare.
Il 1852 significa sette anni prima che il Grande Oriente Italiano (così si chiamò dapprincipio) prendesse forma a Torino, capitale del regno sardo-piemontese.
E’ vero che qualche loggia sul continente italiano operò alle dipendenze di Grandi Orienti stranieri allora vitali, fra cui quello francese, ma si trattò di città di solida tradizione latomistica o vivacità culturale, come Livorno, Pisa, Napoli, Bari, Palermo, Genova, Nizza (ancora italiana)…
Nuoro contava allora 4mila abitanti, era relativamente isolata nella stessa Sardegna, e viveva una vita civile e culturale piuttosto modesta a valutarla con i parametri più significativi. Era soltanto, dopo la fusione perfetta del 1847-48, capoluogo di una divisione amministrativa; dopo il ’59 sarebbe stata capoluogo dei circondari della provincia di Sassari e sede di sottoprefettura, tribunale ecc.
Giuseppe Cottone
Dunque ecco la Nuoro di Asproni e del suo maggior sodale Giuseppe Cottone, e di Gavino Gallisay, il famoso don Missente Bellisai de Il Giorno del Giudizio di Salvatore Satta, fondatori – Cottone e Gallisay – della loggia Eleonora.
Cottone è un medico (si segnala già al tempo della epidemia colerica del 1855, quando casa Asproni si offre come ospedale: solo medico per 5mila abitanti, poi specificamente medico delle carceri), è un siciliano – suddito del regno dei Borbone – venuto giovanissimo in Sardegna, e qui “naturalizzatosi” ha allignato la sua famiglia (Giuseppa Deledda nelle carte parrocchiali, Giuseppa Calvisi Mameli nelle note asproniane, la moglie, e due figli: il futuro pedagogista Carmelo, e Maria Sofia): ex garibaldino rimasto fedele all’idea, è uno dei fondatori, nel 1871, della Società Operaia nuorese che con la Massoneria avrà sempre rapporti d’intelligenza. (Nel ventennale, in coincidenza con lo scoprimento della lapide in onore di Asproni, ad essa giungerà un messaggio del Gran Maestro Lemmi: «Egli fu mio carissimo amico, compagno di fede e di lotta, fratello nell’Instituto Massonico del quale, finché visse, propugnò strenuamente i principi e le aspirazioni»).
Interessante una nota asproniana, a proposito di Cottone e del vescovo Demartis, del 25 agosto 1871: «Ho ricevuto lettere di Giuseppe Cottone, che mi ha mandato un “Indirizzo” da presentare al re contro il Vescovo di Nuoro per le dottrine regicide da lui sostenute in pro dei re e principi spodestati. Ho rimesso tutte queste carte al senatore Musio ed aspetterò la sua deliberazione. Quel frate mitrato è un furioso reazionario».
Gavino Gallisay
Don Gavino, fratello minore del deputato Francesco (sindaco dell’antivigilia della sommossa, è pure lui, come Asproni, e pur senza la dottrina di Asproni, un democratico ed un anticlericale, impresario di molte vocazioni (dai trasporti di lunga distanza nell’Isola all’edilizia, il cimitero di Sa ‘e Manca incluso). E anche il capitano della squadriglia volontaria nazionale, la squadra antibanditismo convenzionata con il governo (che ha rinunciato per qualche anno ai presidi dei carabinieri in Barbagia), la cui causa sarà sostenuta in Parlamento da Asproni nel 1872, quando il governo recide i mandati: 40 uomini, poi 60, costo giornaliero per lo Stato 4 lire a testa, 1.400 all’anno e per tutti i sessanta £. 84.000.
E’ stato, in gioventù, con Garibaldi in America latina (e padrino di battesimo di Menotti, il primogenito del generale ed Anita, e chiamerà Menotti uno dei propri figli); sarà quasi vent’anni dopo il fratello Francesco, nel 1889, anche lui sindaco di Nuoro.
Nobile di origini spagnole-galiziane, il palazzo di famiglia a Santu Predu (via Plebiscito), è stato molto ricco, racconta Salvatore Satta, ma ha dissipato il patrimonio giocando a carte: e quanto non ha avuto più nulla è sembrato placarsi, continuando «ad accarezzarsi i suoi favoriti, senza avvicinarsi più al caffè, ove nessuno s’accorse della sua sparizione». Fine ingloriosa d’un uomo comunque fascinoso.
Salvatore Maria Pirisi Siotto
Sono Cottone e Gallisay i capi della loggia ed a loro si associa per certo Salvatore Maria Pirisi Siotto, avvocato e anche sindaco, per qualche tempo, del capoluogo: giusto nei giorni di “su connottu” e dopo.
Il suo nome figura, così come quello di Cottone, fra i rappresentanti della Eleonora alle varie costituenti che si convocano, quasi con cadenza annua, nelle maggiori città d’Italia, prima di stabilizzarsi a Roma fattasi ormai, dopo Porta Pia, italiana anche giuridicamente. E’ anche da dire che al passaggio all’Oriente Eterno di Giorgio Asproni, avvenuto il 30 aprile 1876, a lui subentrerà, con rinnovo elettorale, nel seggio parlamentare, distinguendosi per tre legislature (dalla XII alla XIV, cioè fino al 1882), tanto più impegnandosi nelle difficili battaglie per il trasporti ferroviari interni all’Isola. Nel 1876 la loggia è, però, già in irrimediabile declino (come altre in tutta la regione).
Le lamentazioni del vescovo
Tutti e tre questi nomi – Cottone, Gallisay e Pirisi Siotto – incrociano dunque quello del vescovo Demartis, che nelle confidenze al pontefice dell’8 e del 15 giugno 1868 e nella denuncia formale al ministro di Grazia e Giustizia datata 17 luglio, si dice «Schernito, sbeffeggiato e deriso nei pubblici fogli e nei giornali della Setta per aver promosso l’Obolo di S. Pietro» e per aver condannato il tentativo garibaldino di Mentana.
Scrive che «la Setta massonica in Nuoro ha cercato e cerca in tutti i modi tribolarmi». La prima lettera è datata neppure due mesi dopo l’assalto degli agro-pastori ai municipio, devastato dalla rabbia per reazione ai provvedimenti attuativi della legge di privatizzazione del salto.
Il Comune è stato identificato, forse anche su istruzione del vescovo, e credibilmente a ragione, con la borghesia libero-massonica attuativa, nell’ambito delle responsabilità amministrative ricoperte, della legislazione nazionale ed anche nella convinzione che nella formazione di un ceto medio agrario d’impresa sia molto del potenziale di sviluppo economico dei territori socialmente depressi.
Ed è da quel fronte – scrive Demartis, il «frate mitrato» come lo definisce Asproni – che sarebbero venute le aggressioni ideologiche, e non solo, alla Chiesa: «insultato nella propria casa di abitazione», il presule fa la conta delle volte, partendo dalla notte del 22 aprile (quasi vigilia dei moti) quando «si emisero le sacrileghe e feroci grida di “Morte al Papa”, “Abbasso i Paolotti”, “Vivano i massoni”, “Fuori il vescovo”…
La cronaca del vescovo è drammatica, quando si riferisce alla devastazio-ne di casa Martone, ai documenti stracciati e bruciati dalla rabbia popolare. «In tale occasione si videro due pubblicamente riconosciuti come capi della Massoneria stropicciare i zolfanelli ed appiccare il fuoco alle carte frastagliate». Come a dire che si commetteva il reato, dai reprobi della loggia, per scaricarne la colpa sull’avversario, ora quello sociale – il popolo in furie – ora quello ideologico – il vescovo ispiratore.
Per allontanare Demartis
Dopo un lungo elenco di circostanze in cui il suo ufficio e la sua persona sarebbero stati umiliati, monsignore lo espone al ministro De Filippo (è in carica allora il secondo governo Manabrea): «le grida feroci di: morte al Papa – abbasso i Paolotti – vivano i Massoni – fuori il Vescovo, emesse la notte sopra il 22 ultimo aprile dal medico Cottone e don Gavino Gallisay, è una pagina bella per intimorirlo [il vescovo, che scrive in terza persona] e costringerlo ad abbandonare la sede; la diabolica calunnia inventata ad arte che lo denunziava come autore ed istigatore della sommossa e successivi atti vandalici avvenuti in Nuoro nel 26 detto mese; e finalmente le opposizioni che finora si sono usate allo scopo che non venisse restaurato l’Episcopio, … sono ancora una prova eloquente del pericolo ben grave a cui desso [sempre il vescovo] trovasi esposto».
Si direbbe che tutta la vicenda della loggia Eleonora, poco meno d’un decennio, si consumi nel conflitto con il vescovo. Perché poi ci saranno altre lettere, come quella dell’ottobre 1871 del sindaco Fratello Pirisi Siotto al papa affinché provveda al trasferimento del presule ostile (cf. Diario asproniano, 19 ottobre 1871).
Si può dire qualcosa di più, pur nella insufficienza dei supporti documentari, essendo i prevalenti costituiti, al momento, dalle carte della curia vescovile di Nuoro e dalle collezioni dei giornali, peraltro purtroppo lacunose anch’esse.
Da ben intendersi, sul punto, soprattutto il Corriere di Sardegna che da Nuoro riceve frequentissime corrispondenze e tutte polemiche verso il vescovo Demartis.
Francesc’Angelo Satta Musio
Circostanza, questa, che ritorna nel cahier de doléance di quest’ultimo ed ha un particolare rilievo perché appare certo che autore di numerosi degli articoli in questione vengano dalla penna di don Francesc’Angelo Satta Musio, il rettore di Orune, personalità fra le eminenti della storia ecclesiastica e civile della Barbagia negli anni di prima e di dopo l’unità d’Italia, prete progressista e patriota ma di personale indole autoritaria, educatore anche pratico degli agricoltori, imprenditore in proprio, che finirà abbattuto nel febbraio 1873, sulla strada di Marreri, dal fuoco forse di proprietari ostili ai suoi piani di riforma fondiaria… Socio onorario dell’Operaia nuorese, che ne onorerà la memoria – e la Rivista della Massoneria Italiana pubblicherà la notizia –, si ricorda la sua omelia patriottica per l’unità d’Italia, a dispetto degli interessi temporalisti della Chiesa piina…
Il liberale don Francesc’Angelo è uno degli amici più cari, fin dall’infanzia bittese, di Giorgio Asproni (sono in distribuzione vari testi biografici molto interessanti e documentati, anche di don Francesco Mariani): per la sua morte violenta il “canonico ribelle” e deputato piangerà calde lacrime.
Egli è poi fratello, come detto, di quell’Antonio Giuseppe Satta Musio, magistrato e già deputato per una legislatura nel Parlamento subalpino, leader di primo livello della Massoneria sarda degli anni a cavallo fra anni ’60 e anni ’70 e fra i comproprietari (col Serpieri e Gavino Scano) del Corriere di Sardegna. Il presidente “universale” – nel senso che tutti i comitati se lo disputavano (né lui si negava) come capofila – che molto si sarebbe impegnato, come s’è detto, nella causa eleonoriana.
E ad Eleonora, a «sa sarda eroina Eleonora» dei massoni sardi del tempo, don Francesc’Angelo dedicherà bei versi in «limba sardoa muntagnina»: «Ue sunt sos triunfos de Arborea…», «No perit no de sos benefattores…», «De Castaliu in s’unda, Euterpe bella…».
Altri Fratelli
E’ ipotizzabile che l’assassinio del rettore di Orune, le crescenti insoddisfazioni o frustrazioni del Satta Musio magistrato-editore, gli impegni professionali o politici dei Gallisay e Pirisi Siotto così come il provvisorio trasferimento di Cottone in quel di Villasor (figurerà Venerabile anche lì, dopo Vaquer il sindaco), siano loro a determinare, in concorso, la fine della esperienza latomistica nuorese.
Fra gli attivi della loggia o nel suo giro, ma al momento ancora senza riscontri certi data la dispersione degli archivi, potrebbero ritrovarsi quelli che il Corriere di Sardegna segnala fra i più intraprendenti nelle iniziative pro-monumento ad Eleonora. In particolare riterrei probabile appartenente alla loggia l’insegnante Giuseppe Floris Pugioni (o Puggioni), che s’affaccia di frequente nelle corrispondenze al Corriere di Sardegna, in rapporti epistolari anche lui con Asproni al quale segnala come «segreto ispiratore» della sommossa («opera dei clericali») il vescovo Demartis (annota la circostanza, Asproni, il 17 maggio e l’indomani egli stesso commenta: «C’è recrudescenza clericale e furore reazionario»;
e l’indomani ancora, rimanendo in argomento e registrando un colloquio con il sottosegretario dell’Interno Borromeo: «Al [deputato] Garau ho indicato [per l’ufficio di sotto-prefetto a Nuoro] il Consigliere Sanna Denti [altro magistrato e altro futuro parlamentare, successore del Satta Musio come leader della Massoneria sarda], che è d’indole conciliativa e conosce Nuoro. Garau ha pure accennato alla necessità di traslocare il Vescovo Demartis, che sarà sempre causa di dissidj e di turbolenze»).
Scambi epistolari con Asproni da Nuoro intratterrà un altro massone – elencato nei famosi Goccius de is framassonis del 1865 –, magistrato pure lui e prossimo sindaco di Cagliari, al momento – all’indomani dei moti di “su connottu” commissario regio in città fino al ripristino elettivo, quando la vittoria sarà dei cattolici: è Emanuele Ravot.
La Massoneria del Novecento
La loggia Eleonora, nella versione giustinianea del Novecento, non avrà repliche importanti se non… cento anni dopo! Prima del fascismo funzionerà appena un Triangolo dipendente da Sassari, direi in concorrenza con la loggia detta Barbaricina e il capitolo scozzese detto Vera Luce, in associazione Nuoro-Ozieri, nell’Obbedienza scissionista ferana: gran dignitario martinista quel Vincenzo Soro biografo di Sebastiano Satta e, da ragazzino, suo scrivano, sostituto di quella mano del poeta bloccata dall’emiparesi. Come avvenne poco dopo la partecipazione del Vate – era il settembre 1908 –, al congresso del Libero Pensiero in svolgimento a Tempio Pausania.
La ripresa liberomuratoria a Nuoro, dopo la seconda guerra mondiale e un percorso fra alti e bassi, da ormai settant’anni, fino ad oggi. Oggi, mi si dice, con ancora accresciuta qualità civica e impegno sociale.