Dio, la natura sarda e l’uomo pensoso: il triangolo d’oro di Dante Usai, presbitero e poeta orrolese, di Gianfranco Murtas
Un tempo Orroli, dico la Orroli sarcidanese di un tempo, la Orroli che era il motore maggiore forse della antica diocesi di Dolia, pareva una specie di fabbrica di preti, press’a poco come Samassi, nel Campidano di Cagliari, o Quartu Sant’Elena. Se ne saranno contati dieci e più, di preti, soltanto tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento – rivedere per i riscontri le raccolte di Sardinia Sacra del 1929 e del 1937 – e presenti ancora nella memoria, ora chiara ora labile, di chi scrive e ci ha vissuto vicino e in buona armonia.
Già dei secoli più remoti, tracce se ne troverebbero negli indici alfabetici del “patrimonio ecclesiastico” che l’équipe di studio coordinata da don Tonino Cabizzosu nell’ambito dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari ha elaborato per il III volume di Inventari, editi dalla cagliaritana Arkadia nel 2014: dai secenteschi – colleghi, ma soltanto perché contemporanei, di don Abbondio nel secolo del cardinale Federigo e anche di Galileo – Giovanni Battista Casula a Girolamo Aresu, Antonio Olla e Cosimo Sirigu , Francesco Tronci e Salvatore Demetrio Aresu, Bartolomeo Olla e Domenico Pisano, Antonio Sirigu, e Antonio Vacca Esquirro, ai successivi Sebastiano Aresu e Giovanni Tommaso Serra, Giovanni Battista Lochy e Vincenzo Medda e Antioco Sirigu, ai “napoleonici” Giovanni Battista Aresu e Francesco Orrù…
Degli ultimi o ultimissimi, battezzati anch’essi al fonte della cinquecentesca parrocchiale di San Vincenzo martire, ricorderei don Giuseppe Orrù classe 1885 – cofondatore (con monsignor Piovella) delle Ancelle della Sacra Famiglia e a lungo rettore del seminario arcivescovile –, don Tarcisio Sirigu classe 1912, don Ottavio Cauli classe 1914, don Eugenio Pisano classe 1924 (ordinato a Orroli stesso), don Eliseo Mereu classe 1926, don Ignazio Siriu classe 1939, don Bruno Siriu classe 1940… don Dante Usai, anche, classe 1927.
Don Dante presbitero e ora anche poeta. O meglio: poeta da settanta e passa anni, ma tale rivelatosi a tutti soltanto adesso grazie ad una bella pubblicazione ottimamente, e sobriamente, prefata dal vescovo emerito di Lanusei Antioco Piseddu, storico e memorialista di vaglia: Confidenze. Raccolta di poesie, Ortacesus, Sandhi Editore, 2017. Una silloge di 65 composizioni, ora brevi o brevissime quasi flash, ora elaborate e diffuse o spalmate perfino in cento versi…
Un uomo di studi, fra libri e cattedra
Ordinato, dal nuovo arcivescovo Paolo Botto, nella cattedrale cagliaritana di Santa Maria domenica 16 luglio 1950, solennità carmelitana – pervenuti all’altare insieme con lui, dopo gli studi al Regionale di Cuglieri, i chierici Ivan Marras e Lauro Pinna ed anche fra Bernardino Maccioni OFM – aveva vissuto quel giorno, don Dante, minuto e riservato, proprio come una gran festa. Perché con lui e i tre altri ordinandi, s’erano affollati anche – chi per la prima sacra tonsura, chi per l’ostiariato ed esorcistato, il lettorato ed accolitato, chi per il suddiaconato, insomma per gli ordini minori e altresì per il diaconato, altri quindici compagni di studi, fra cui due prossimi vescovi: Pier Giuliano Tiddia ed Antonino Orrù. Per capirne di più: la Sardegna era rappresentata, quel giorno, in quasi tutti i suoi territori, in specie del centro-sud, da Dolianova a Sinnai, da Cagliari a Gergei, da Sanluri a Pirri, da Samassi a Giave, da Burcei a Terralba, da Sarroch a Muravera…
Certo, i tempi erano ingrati, ma la fioritura era copiosa e gradevole. O all’incontrario: la fioritura c’era ma, purtroppo, anche l’ingratitudine dei tempi. O forse ancora, potrei azzardare rovesciando di nuovo le situazioni, per la Chiesa tante volte più clericale che evangelica l’ingratitudine era un peso grave sì, ma tanto grave quanto anche artificioso. Nella stessa pagina del Monitore Ufficiale (cf. il fascicolo di maggio-giugno 1950) che riporta le cronache delle sacre ordinazioni nella primaziale cagliaritana, si riferisce, ampiamente e polemicamente, delle «attività protestanti» da riprovare per il tanto di «perversione» ad esse connaturato e destabilizzanti la vera fede, e si notifica la distanza delle «Autorità Ecclesiastiche» dall’Opera denominata «Compagnia del S. Cuore di Gesù – Evaristiani»… Quanta acqua è passata sotto i ponti della storia, e quante volte davvero i profeti, anche quelli umili di periferia, sono stati zittiti dai potenti dignitari dell’autoreferenzialità clericale! L’ecumenismo è ora entrato, (giustamente) gettonatissimo, nel nuovo vocabolario del cattolicesimo, e nell’Isola i semi di carità degli evaristiani sono riconosciuti e celebrati dai monsignori di vario rango che cercano di emanciparsi dalle strettoie del pensiero unico e conformista.
Subito assegnato, in quanto titolare, al corpo docente del Tridentino in cui aveva studiato, da adolescente, prima della guerra e nei primi anni del conflitto, don Dante aveva avviato la professione che costituiva poi una precisa declinazione del suo ministero. E in tale immaginaria, eppur fecondissima, retrovia avrebbe trascorso l’intera sua esperienza ministeriale. Erano qualcosa come centottanta, allora, nel 1950, gli studenti iscritti al diocesano di via Università, fra medie e ginnasio: preside era, già da anni, l’ancor giovane monsignor Giovanni Cogoni (futuro vescovo di Iglesias) e direttore spirituale don Pier Giuliano Tiddia (futuro arcivescovo di Oristano); nel collegio docente anche don Matteo Dentoni, don Ivan Marras (il collega-gemello), don Carmine Fais, don Luigi Frau, don Ausilio Tidu. Erano, quelli – andrebbe ricordato –, gli ultimi anni di permanenza del seminario nel solenne stabilimento settecentesco progettato dall’ingegner Belgrano di Famolasco. Fra il 1954 e il 1955 i ragazzi e tutti quanti, suore assistenti comprese, si sarebbero trasferiti a Dolianova, tappa obbligata in vista della… terra promessa, il nuovo modernissimo complesso sul fianco orientale del colle di San Michele (esordio programmato nel 1960, dopo il pontificale e la solenne benedizione del cardinale Alfredo Ottaviani segretario del reazionarissimo Sant’Officio).
Proprio nel nuovo seminario, ancora affidato al rettorato di monsignor Cogoni (e poi di don Tiddia), don Dante Usai avrebbe avuto i galloni di vicario, conquistando nel 1973 – giusto in coincidenza con il passaggio del bacolo pastorale dal cardinale Sebastiano Baggio a monsignor Giuseppe Bonfiglioli – e per una dozzina d’anni quelli di rettore. Rettore fino al 1985 – tempo ormai di episcopato Canestri –, mentre l’insegnamento (nelle classi del liceo, riportato a Cagliari da Cuglieri, come primo step del trasferimento complessivo del Regionale nel capoluogo) egli l’aveva lasciato, dopo ventisette anni di onorato servizio, già nel 1977. Dalle stanze del seminario nuovo aveva seguito, con i confratelli e gli oltre duecento studenti fra medie, ginnasio e liceo, le vicende del Concilio Vaticano II; in quelle stanze aveva affiancato don Tiddia nel preparare al meglio l’accoglienza di papa Paolo VI in visita a Cagliari. Fu il 24 aprile 1970. Due settimane prima, il Cagliari aveva vinto matematicamente lo scudetto, e la città e la Sardegna intera, mischiando il sacro e il profano, la parrocchia e lo stadio, Gigi Riva e il pontefice, sembravano aver realizzato, nell’arco di pochi giorni soltanto, il riscatto di secoli di storia!
E’ stato il mondo di don Usai, il seminario arcivescovile di Cagliari. Ad esso, fra storia ed attualità, ha dedicato, nel 1973, un lungo articolo – quasi un saggio – nel numero unico di benvenuto al nuovo presule diocesano (cf. In occasione dell’ingresso in Diocesi di S.E. Mons. Giuseppe Bonfiglioli, Cagliari 17 giugno 1973), titolo “Il seminario cruccio del Pastore e della Chiesa nei suoi problemi passati e attuali”. Un articolo replicato in Gratitudinis ratione: per i cinquant’anni del Seminario Arcivescovile di Cagliari, pubblicato da Tonino Cabizzosu nel 2009.
In epoca più recente e per dieci anni, ancora per incarico dell’arcivescovo Giovanni Canestri, rinnovatogli dal successore monsignor Ottorino P. Alberti, aveva svolto le funzioni di vicario episcopale per le religiose. In cumulo a quell’ufficio, e già dal 1981, era cominciata per lui una impegnativa esperienza anche come giudice presso il Tribunale Ecclesiastico Regionale. Dal 1995, quando altri sarebbero andati verso la meritata pensione, una nuova responsabilità ecclesiale gli fu proposta, e fu da lui accolta con animo lieto: quella di direttore della Biblioteca diocesana, allogata proprio nel seminario di San Michele (al tempo alle cure del rettore don Giovannino Ligas). Un servizio di altri quindici anni.
Fu monsignor Alberti, uomo di studi, pubblicazioni scientifiche e congressi storici, a pensare a lui come figura di riferimento in un servizio operativo importante per l’utile culturale, a largo spettro, di clero e studenti e della città intera. Si consideri che l’anno successivo anche l’Archivio Storico Diocesano, intanto trasferito nei locali del seminario e assegnato per lunghi anni alla competente responsabilità del francescano padre Vincenzo M. Cannas, avrebbe conosciuto un opportuno restyling con l’attribuzione delle funzioni direttive a don Cabizzosu, professore di Storia della Chiesa in facoltà Teologica.
Un poeta in clergyman
Torno ai versi di questo prete oggi 91enne, lucidissimo e attivissimo ancora, garbato e sapiente, fortunatamente in buona salute. Prete in clergyman, e colpisce – fra tanti talarini trentenni, con sottane e mantelli e saturni in testa, come in replay di scene filmiche dell’Ottocento trascorso, soldati ancora d’una controriforma irrisolta – la sobrietà anche del vestiario di questo sacerdote, come di quasi tutti i suoi colleghi più anziani in diocesi e dei vescovi nessuno escluso.
Segnato dal “riorientamento” dell’abito mentale (guida di quello materiale) che il Concilio aveva donato al clero impegnato nelle trincee sociali delle diocesi del mondo, anche delle nostre, don Usai ha compiuto pure lui di recente, raccogliendo l’insistito consiglio di molti, il gran salto nella condivisione sentimentale dei suoi versi poetici. Superando modestie e timidezze. Poeta come altri preti, come Parini e Zanella, come Rebora e il nostro David Maria Turoldo, secondo la traccia evocata da don Antioco Piseddu nella bella, asciutta presentazione dell’opera andata a stampa. «Si intuisce – egli ha scritto – che lo sguardo del poeta è passato attraverso un faticoso lavoro di purificazione, liberandosi da molte scorie ingombranti. E’ riuscito così a ritrovare un suo candore… E con l’innocenza ritrovata, egli dialoga con se stesso, in intimi colloqui e col suo Dio. Ma ha un mediatore privilegiato: la natura. Si immerge in essa, si perde in essa».
Si misura con gli accidenti della sua vita (e chiunque altro potrebbe, invero, prendere il suo posto ponendosi dinnanzi alle proprie personali vicende esistenziali). Ne elenca alcuni, di questi accidenti esistenziali del suo confratello poeta offerti adesso alla condivisione fraterna, don Antioco: l’«amaro rigurgito delle incomprensioni che bruciano l’anima», il «tormento dell’ingratitudine da parte di chi si è molto amato e beneficato», lo «smarrimento di chi ha perso la via e non la sa più ritrovare», il «senso di vuoto della vita quando non si è soddisfatti di essa»… Fino alla conquista correttiva, compensativa e forse salvifica delle visioni, felicemente tutte sarde: delle alture del Gennargentu, del mare di Muravera o del largo del Flumendosa; fino alla magia pacificante «della poesia, bella e faticosa, che ti prende per mano e ti proietta verso il sublime e tenta di riempirti di infinito». Ecco qui il gran miracolo, il recupero dell’innocenza.
Le «confidenze» di don Dante erano state affidate, prima che alla carta di un libro (in copertina una veduta di Perda Liana in territorio di Gairo), alle onde segrete dello spirito. Aveva iniziato diciottenne: «Era una forma di dialogo con me stesso e con le cose. Un diario intimo – ha confessato egli stesso –. Esprimevo gioie, ammirazione per le cose belle e grandi della vita, tante volte sofferenza e anche contestazione e rabbia… Mai avrei pensato a una pubblicazione».
Sono sessantacinque i testi poetici che iniziano e terminano, nella presente raccolta, consumando un ventennio appena, sì ad alta intensità ma, in fondo, piuttosto poco del ben più lungo arco di vita dell’autore. Come se questi avesse voluto oggi, dall’alto delle sue 91 primavere, rispecchiarsi in quel sé adolescente o giovanissimo e poi debuttante nella società degli adulti, prete da subito impegnato nell’educazione e nelle cure dei nuovi giovanissimi, i nuovi se stesso dalla vita donati al mondo. Oppure per spiegare alla sua intelligenza e alla sua coscienza quanto di quelle sensibilità e inquietudini di sessanta e settant’anni fa siano rimaste nell’età matura, facendo pressione al permanente bisogno di recupero di innocenza… (Soltanto l’ultima – “Confessioni di Pietro” – porta una data relativamente recente, il 2005: l’anno della morte, dopo tanta insopportabile sofferenza, di Giovanni Paolo II e il passaggio al pontificato di Benedetto XVI, diversamente rivoluzionario, come ogni cosa nella storia è diversamente rivoluzionaria. «Numerate o secoli / quante furon l’anime da man robusta / nella nave di Pietro / portate a salvamento. / E’ sublime il concento / di quell’immenso stuolo / di vergini, di martiri, di santi, / uomini grandi in opere e in parole»).
Ne proporrei qui di seguito tre soltanto delle sue liriche, rappresentative del tutto. La prima della serie è fissata su un quaderno nel cruciale 1945: diciottenne studente di liceo già a Cuglieri, cinque anni prima della sua ordinazione (“Confidenze”). La seconda è datata 1954, pochi anni dopo l’inizio del suo ministero, accompagnatore/assistente di bambini in una colonia montana (“In colonia, 1954”). La terza, infine, è senza data ma da collocare nella metà degli inquieti eppur fecondi e positivi anni ’60, ed elabora l’interrogazione intima della sua vocazione (“La voce”).
CONFIDENZE
Io vi saluto, salve, o rocce antiche
che, tal sicure, v’innalzate rare
e belle; salve, tutte voi a me care
ombre silvestri e voi mie fonti amiche.
Non ricordate quel fanciullo antico,
che, vispo e lesto, sempre a voi d’intorno
si trastullava? Io sono: ancor ritorno
quivi di nuovo giovin, vecchio amico.
Con voi le lotte a confidar io sono,
la vil miseria, i dolori, ogni palma,
dolce ristoro ed il contento all’alma
mia tormentata, a ritrovarne il dono.
IN COLONIA, 1954
Sopra la vetta, che si staglia scura,
nel cielo brillan le stelle e la luna,
al primo quarto, rispecchia i suoi raggi
nelle tranquille acque del lago, e appare,
come la sagoma d’un mostro informe,
il Gennargentu ed emerge dalle ombre
come un enorme dito, di una strana
mano, che addita il cielo,
chiamato Perda Liana.
Lungo le strette valli,
profonda e misteriosa
è calata la notte.
Intorno regna sovrano il silenzio:
ancora più il suo incanto
ne avverti al gracidar di raganelle
in riva al fiume, dal fruscio dell’erbe
smosse dal vento, che, alitando fra olmi
e lecci secolari,
è come il fluir di tante cascatelle.
In cima a quel capanno
si posa, dopo un volo
lieve qual soffio di vento, una strige;
col suo rauco lamento
rammenta mito e voce
di quella strega che schernisce e uccide.
Anche la volpe di sotto al lentisco
molesta un merlo che, volando, stride.
Sorridon, penso, di sogni innocenti
i piccoli ospiti in cura, e le donne
nella struttura godono
di quest’aere montano.
Immerso in questa pace
penso a quel vespro, alcuni anni lontano,
quando aspettavo, ansioso, il giorno santo,
certo, il giorno del Carmine.
E lassù quelle stelle
vi palpitano ancora;
le acque del lago or rifletton la luna
e mi rammentan quel mare d’allora,
che diffondeva bagliori di sole;
poi il silenzio dei monti
dan voce a un turbine di sentimenti.
Ma della notte, sì, di quella notte
dove sono i miei sogni?
Spira, o vento, più forte,
lungi, tu, porta le ombre.
LA VOCE
Nella mia vita c’è una voce, chiara,
e quando, intorno, al mio sguardo un sipario
di nubi tempestose
si cala scuro, appena percepita
penetra fin le radici del cuore
con il tormento delle umane cose.
Ma l’orecchio la ignora,
perché diretta essa scende nell’anima,
e se tu sei esanimato rincuora.
Non so da dove venga,
il nome suo non so, è una voce soave,
e la conosce il cuore.
È del miele più dolce,
e come rugiada aurea
ricca di sole, essa emana un profumo
come di mille fiori a primavera.
La distinguo fra tante:
quando la sento, a null’altro ripenso,
e nulla vedo, o ascolto,
perdo il senso del tempo,
dimentico ogni cura.
La individuo tra cento e poi, velata,
la gusto nel silenzio
delle sere d’autunno,
di una notte stellata,
riposante nel chiasso.
La odo aleggiar tra gli alberi in giardino,
nell’arido deserto.
La sento anche negli antri delle grotte
quando, con strane voci, rugge il vento
e con supplizi atroci
tortura gli alberi della foresta,
e più distinta la odo
qualora il cielo s’infiamma al tramonto,
se sussulta la terra
allo scoppio del tuono
della presenza io godo.
Ancor la sento di mistero piena
nel pianto delle stelle,
nello stormire di rami e di foglie,
nell’ombra e nella luce;
mi risuona nello sguardo sereno
d’un fanciullo innocente,
come al brillio d’un mare incandescente.
A me piace inseguirla
nel tumulto di folle,
m’è caro ritrovarla quando, solo,
e nel buio della notte,
in questi vani o nel viale, le parlo
della mia vita o degli intrighi umani.
La invoco, assorto, guardando l’azzurro,
non attento alle parole, né al senso
del mio roco sussurro.
Attendo tacito, in cammino tra i pini,
tra il frinire dei grilli,
nell’alito del vento
lumi ai problemi vari.
E con lo sguardo fisso nell’oscuro
le parlo con il cuore
col sospiro dell’anima,
che è nauseata dalla perfidia umana.