Non ci sono alternative: questo Pd va sciolto? di Massimo Cacciari
I democratici dovevano rinnovare la sinistra e invece l’hanno riportata al passato tenendola bloccata su divisioni figlie di tradizioni superate. E no, non possono stare insieme quelli che vogliono dar voce ai nuovi sfruttati e quelli che cercano voti nell’elettorato filo berlusconiano.
L’attuale afasia e immobilità anche tattica del Pd rappresentano la fase ultima di quella storia che i miei venticinque lettori mi hanno ascoltato ripetere da un decennio a questa parte. C’è oggi chi ciancia di un’identità da ritrovare. Ma quale identità può ritrovare chi mai l’ha avuta? Un po’ di memoria non guasterebbe.
Mi rendo conto che è difficile averla se certe vicende non si sono vissute dall’interno; la politica si impara anche facendola. E chi l’ha fatta alla fine dello scorso decennio ha sperimentato in corpore vili , cioè sulla propria pelle, come il Pd nascesse da due sub-culture politiche ormai entrambe asfittiche, logorate, incapaci di ripensarsi criticamente. Fosse stata soltanto un’unione “a freddo”, come dicono ancora benevoli critici! Era in realtà il tentativo di comporre due correnti esaurite: una quasi-socialdemocrazia (una forza che da tre decenni tentava invano di farsi socialdemocratica, come Napolitano sa bene), completamente spiazzata di fronte alle trasformazioni del sistema sociale di produzione e delle forme del lavoro al suo interno – e terze file della tradizione cattolico-popolare, tenute sostanzialmente insieme soltanto dalla leadership prodiana. (I pochi veri protagonisti del “popolarismo”, tipo De Mita, seguivano un po’ dall’alto con sufficienza e ironia la navicella degli scadentissimi eredi). Forse all’inizio i Fassino e i Rutelli, segretari Ds e Margherita, erano i più consapevoli di queste strutturali debolezze dell’operazione e della necessità di aprire una vera fase costituente, programmatica e aperta.
Ma troppo modesti, troppo deboli rispetto ai loro azionisti di maggioranza, i quali altro non volevano che tenere in pugno l’azienda, certi che il nemico fosse solo il Cavaliere. La disperata ricerca del leader travolse ogni riflessione e condusse inesorabile a Renzi, cui va se non altro il merito di non avere nulla a che spartire con le “sensibilità” che avevano condotto al partito mai nato, cioè al Pd.
Il caso Renzi sconta tutti i limiti di qualsiasi politica “entrista”: se la conquisti dall’interno ti trovi un’organizzazione già in qualche modo formata e puoi godere di ampie rendite, ma la sua metamorfosi a tua immagine e somiglianza risulterà poi diecimila volte più ardua. E guai comunque, una volta che la vittoria appaia sicura, logorarsi in diatribe, incomprensibili per l’inclito pubblico, con gli sconfitti. Renzi esprimeva un indirizzo culturale e politico egemonizzato dalla narrazione sulle meravigliose sorti che attendevano Paese e Globo grazie all’avvento delle nuove tecnologie, e sulla necessità di adeguare i tempi e i modi della politica a quelli della azione e della decisione economico-imprenditoriale. Anche nelle forme espressive si trattava di una versione aggiornata, più credibile su certi slogan solidaristici, più simpatica esteticamente, della strategia berlusconiana.
Le sue potenzialità di penetrare nel campo elettorale di Forza Italia apparvero subito. E subito si comprese che Renzi non avrebbe potuto sfruttarle. Il Pd impediva a Renzi di svolgere con chiarezza e coerenza la propria partita. Così come impediva agli oppositori di Renzi, al suo interno, di svolgere la loro. Si potrà dire: l’uno e gli altri avevano una idea molto oscura sul che fare. Renzi ha iniziato a sentirsi un potenziale Macron troppo tardi, e comunque dopo l’esempio dell’amico francese. La sinistra nel Pd restava incatenata a ipotesi di Stato sociale-assistenziale condannate da decenni di crisi fiscale (in tutto l’Occidente) e a una difesa semi-reazionaria dell’assetto istituzionale e amministrativo vigente. La fortuna ha voluto, almeno, che la sua antica leadership venisse finalmente spazzata via insieme a Liberi e Uguali.
Una sinistra può nascere soltanto dalla fine del colossale equivoco rappresentato dal Pd. E altrettanto una forza di centro capace di sottrarre voti e consensi all’egemonia leghista. Il Pd come sigla può anche sopravvivere, ma solo rappresentando una delle due parti. Continuare da separati in casa significa continuare a suicidarsi. Quante prove occorre ancora accumulare per convincersene? E quale sinistra? Intanto, una che cessi di credere che basti evocare il nome per significare qualcosa.
Dire sinistra oggi è come dire democrazia. Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Della cosa si tratta, e non di nomi. Si tratta di dar voce, rappresentanza sindacale e politica, garanzie previdenziali alle miriadi di nuove forme di lavoro che di indipendente non hanno che la partita Iva; si tratta di smantellare il sistema amministrativo-burocratico del Paese, che grava sui nostri conti, sulle nostre imprese e sulle possibilità di investimenti dall’estero più di centomila terremoti; si tratta di riprendere con forza un disegno di sistema in merito alle riforme: è necessario abolire davvero Senati e Provincie, è necessario davvero accorpare funzioni e servizi tra Comuni, è necessario davvero disboscare l’intrico delle società partecipate, dove l’interesse politico scorrazza dietro la foglia di fico del diritto privato.
Se c’è qualcuno nella sinistra Pd che ha questo in mente, si faccia avanti, lo dettagli, ne costruisca un programma di governo. Si vuol passare attraverso un Congresso? Bene; se ne definisca al più presto la data; lo si organizzi nel modo più aperto chiedendo a tutti gli interessati anche non iscritti di contribuirvi e garantendone una rappresentanza. Come si fece, si parva licet …, al congresso che pose fine alla storia del Pci.
Il Partito Democratico è nato con l’obiettivo di essere un partito di governo. Ma ora riscopre un ruolo di minoranza. Ma per fare cosa, per essere chi? È il momento di ripensare tutto
Dal Pd di questo decennio occorre comunque uscire. Altrimenti? Altrimenti è probabile, come il 4 marzo ha già indicato, che lo spostamento di opinioni e voti dall’area Pd all’area Cinque Stelle continui - così come, parallelamente, quello da Fi alla Lega. Altrimenti è probabile che il bipolarismo si vada riformando, dopo magari un’esperienza di governo comune, che è arduo ipotizzare abbia lunga vita, tra una destra-destra leghista (capace di mettere la sordina ai suoi vaneggiamenti anti-europeisti e sovranisti), e un centro-sinistra pentastellato. Con possibili momenti di Grosse Koalition all’italiana tra i due. Tutto sommato, operazione più facile ai Cinque Stelle che a Salvini: Salvini deve guadagnarsi una buona fetta ancora di elettorato berlusconiano – e potrebbe incontrare sulla sua strada un rinnovato Renzi -, mentre nulla vieterebbe a Di Maio, soprattutto sui temi fondamentali del lavoro e della difesa dei redditi più bassi, di lanciare una sfida aperta alla sinistra Pd.
Dove sono finiti, d’altronde, socialisti e comunisti greci e spagnoli? O la sinistra significa cultura di governo, approccio sistemico ai problemi di riforma, competenza, autorevolezza – e allora può chiedere anche sacrifici, vero ex Pci? – oppure il suo destino è la liquidazione nell’ampio seno dei movimentismi, dei populismi e delle politiche d’occasione.
L;’espresso, 09 aprile 2018