UN NEW DEAL PER LA SARDEGNA, di Federico Francioni
EDITORIALE della DOMENICA, della Fondazione Sardinia
Premessa. Crisi economica, degrado ambientale, inquinamento, spopolamento, invecchiamento della popolazione, bassissima natalità, disoccupazione soprattutto giovanile, ripresa dell’emigrazione: di fronte a problemi di tale portata occorre un progetto generale da connettere all’autodeterminazione della Sardegna. Certo, in quella che, molto schematicamente, possiamo definire come cultura sardista-indipendentista, le parole “progetto” o “programma” sono state considerate talvolta con sospetto, come ennesima, inutile “lista della spesa”, suscettibile in prevalenza di allontanare l’attenzione dall’obiettivo strategico finale. Ma l’esigenza di dare forza concreta ad una tensione progettuale per liberare la nostra terra da ogni tipo di subalternità, anche culturale, viene osteggiata anche e soprattutto dalle oligarchie autoreferenziali locali che vedono nel mantenimento dello stato di cose presente e nella terachia un elemento indispensabile per mantenere il potere e per il proseguimento dei singoli nel loro cursus honorum.
In relazione ai movimenti sociali ed al tessuto associazionistico, ma non solo, ognuno di noi deve assumere piena responsabilità della problematiche incombenti, deve sentirsi chiamato a fornire un proprio personale contributo. Cerchiamo di costruire insieme una Carta rivendicativa del popolo sardo o meglio – come ha da tempo suggerito Salvatore Cubeddu (direttore della Fondazione Sardinia) – un New Deal di matrice roosveltiana e keynesiana, contro il liberismo selvaggio e le nefaste politiche di austerity che tante gratificazioni hanno dato alle banche ed alla finanza internazionale, tanti favori hanno fatto alle multinazionali, tanti colpi hanno inferto a salari ed occupazione, tanto danno hanno fatto all’idea d’Europa, sopratutto quella delle minoranze nazionali e linguistiche prive di poteri statali, cui guardava l’architetto ed intellettuale sardista-indipendentista Antonio Simon Mossa.
La premessa fondamentale di un New Deal non può che essere l’antimonopolismo ed il rifiuto delle logiche del gigantismo in tutti i campi. Pensare che un futuro migliore per la nostra isola possa venire dall’Eni o dall’emiro del Qatar significa ignorare che i monopoli non permetteranno mai a questa nostra comunità di usufruire di uno straccio di autonomia. L’arsenale de La Maddalena, quei pezzi interi che tendono sempre più a staccarsi dall’edificio dell’architetto Stefano Boeri testimoniano in modi e misure eloquenti gli approdi di operazioni, ispirate al gigantismo, che poi sfuggono completamente a qualsiasi tentativo di controllo della nostra comunità.
Anche qualche apologeta dell’Eni tende a ricredersi. Da tempo le magistrature di Nigeria e Italia indagano su un caso di corruzione che sarebbe legato alla licenza di sfruttare Opl 245, un immenso giacimento petrolifero acquisito da Eni e da Shell: i giudici milanesi hanno ricostruito una fitta rete di trasferimenti di somme da queste majors a esponenti di spicco della politica nigeriana. In manette è finito il procuratore di Siracusa Giancarlo Longo, accusato di falso, corruzione e associazione a delinquere per aver tentato di ostacolare l’indagine milanese. Anche l’avvocato Piero Amara (legale dell’Eni) e l’imprenditore Fabrizio Centofanti sono in cella con l’accusa di aver contribuito al depistaggio. Dal canto loro, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni non hanno esitato nel riconfermare piena fiducia all’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi (cfr. Luca Manes, Il pizzo nel pozzo nigeriano, “Il Manifesto”, 29 gennaio 2017; Antonio Massari, Giorgio Meletti, Eni, il piano di usare Lotti e Carrai per il depistaggio, “Il Fatto quotidiano”, 8 febbraio 2018; pressoché rigoroso invece il silenzio tenuto al riguardo dai due quotidiani dell’isola). Di fatto è l’Eni che condiziona pesantemente i governi italiani e non viceversa. Sul progetto di Matrìca e sulla c. d. “chimica verde” – che non procede – persino qualche apologeta isolano dell’Eni si è dovuto, almeno in parte, ricredere.
Il Delta del Niger è uno dei luoghi più inquinati del mondo: Shell, Texaco, Eni hanno contratto con quelle popolazioni un debito ecologico di colossali proporzioni (si veda quanto ha scritto in proposito il giornalista, saggista ed ambientalista Giuseppe De Marzo). In relazione a ciò, sul credito che la Sardegna vanta verso l’Eni, ci teneva sempre puntualmente informati il caro Vincenzo Migaleddu, medico radiologo particolarmente impegnato nella difesa dell’ambiente, la cui mancanza avvertiamo ancora tantissimo.
Alla base di un New Deal. “Capitalismo coloniale”, espressione centrale di un libro assai documentato del già citato Meletti sulla Saras dei Moratti, è la categoria più adatta per leggere ed interpretare la condizione attuale della Sardegna. Occorre dunque ribadire il rifiuto netto ed inequivocabile delle logiche monopolistiche, come base irrinunciabile di un New Deal i cui punti fondamentali e più qualificanti possono essere i seguenti (altri, s’intende, potranno aggiungersi se si svilupperà intorno a questa prospettiva un dibattito approfondito e adeguato).
1) Tornare alla terra. Migaleddu aveva particolarmente insistito affinché leggessimo e meditassimo la lettera enciclica Laudato si’ di papa Francesco: ebbene, da quel testo – contro i cambiamenti climatici, il riscaldamento globale, quella che sembra configurarsi come agonia della terra – vengono per tutti noi le speranze più vere, grandi e profonde. Si rende indispensabile una critica ed un abbandono risoluto del paradigma prometeico che nei secoli ha attraversato e permeato religioni, culture politiche differenti ed anche opposte: un modello fondato sopra un presunto diritto dell’uomo di soggiogare ed anche stuprare la terra.
Al di fuori dell’Occidente una critica al prometeismo è stata formulata dalla scienziata, ambientalista e femminista indiana Vandana Shiva, che Migaleddu aveva invitato ad Abbasanta, per uno storico incontro da considerare sempre come un decisivo punto di riferimento. Si tratta di andare non verso un’economia lineare, cumulativa, gigantista, distruttrice, che solo sottrae alla Terra, ma verso un’economia circolare, che restituisca alla terra ciò che le viene tolto. In tale direzione ci spronano le esperienze di imprese condotte da giovani e da donne, l’estendersi in Sardegna dell’agricoltura biologica, che prefigura quella riconversione produttiva generale, in chiave ecocompatibile, di cui abbiamo assoluto bisogno. Non si tratta di abbracciare una opzione genericamente “verde” ma, piuttosto, di una scelta resa obbligatoria dagli sconvolgimenti epocali di clima e ambiente che stiamo attraversando (lo ha più volte lucidamente ribadito Naomi Klein in Una rivoluzione ci salverà).
Alcuni studiosi inoltre hanno di recente illustrato le novità positive che oggi influenzano il pianeta del pastoralismo (si vedano gli studi al riguardo di Bachisio Bandinu): l’unico che abbia resistito alla “catastrofe antropologica”, all’emigrazione, ai condizionamenti più nefasti della globalizzazione maledetta e che risulta impegnato in cambiamenti nella struttura dell’impresa ed in una diversificazione dell’offerta produttiva. «La trasformazione dell’agricoltura da cerealicola per il mercato e l’autoconsumo a foraggera per l’allevamento zootecnico costituisce l’elemento più interessante di questa evoluzione produttiva, in quanto permette un adattamento dinamico: essa individua un’integrazione di pascoli naturali, che garantisce, tramite le rotazioni, il mantenimento degli spazi pascolabili e il contenimento della macchia mediterranea, riproponendo in termini mutati il rapporto tra agricoltura e allevamento, caratteristico del sistema tradizionale. Il modello agropastorale attuale evidenzia così un’elevata capacità adattativa e si dimostra particolarmente resiliente» (così scrivono Domenica Farinella e Benedetto Meloni, studioso non certo sospettabile di “mitizzare” il mondo agro-pastorale, in uno dei saggi del volume La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, curato da Luciano Marrocu, Francesco Bachis e Valeria Deplano, Donzelli, Roma, 2015).
2. Rete diffusa di piccole imprese. Si tratta delle uniche strutture che in Italia siano riuscite a fare fronte alla deindustrializzazione, alla squassante crisi economica del 2008, che perdura ancor oggi, mentre quella del 1929 venne superata dopo 5-6 anni. Giorgio Fuà e Giulio Sapelli, con altri storici, ci hanno reso edotti delle virtù di un sistema da opporre a quello di monopoli e giganti. Di sicuro sarebbe sbagliato non vedere, allo stesso tempo, paternalismo, bassi salari e rischi ambientali che le Pmi hanno indubbiamente comportato (cfr. Giuseppe Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, Il Mulino, Bologna, 2016). Detto questo, perché non possiamo imparare dal Trentino e dalle Marche, dalla cultura, per esempio, del distretto marchigiano dei cappelli, per niente a disagio di fronte alle sfide del mercato globale? L’isola è passata attraverso una sua rivoluzione industriale, ha espresso un proprio ceto imprenditoriale, studiato con passione e competenza in primo luogo da Sandro Ruju (curatore, con Cecilia Dau Novelli, di un Dizionario storico degli imprenditori in Sardegna, 2 voll., Aipsa, Cagliari, 2012 e 2015; si vedano anche le recenti, corpose monografie di Paolo Fadda, Alessandro Ponzeletti e Giuseppe Zichi). Sulle vicende storiche degli imprenditori sardi i gruppi dirigenti politici ed intellettuali tendono però a far passare il bulldozer dell’oblio, onde convincere gli abitanti di questa terra, ancora una volta, che l’imprenditoria non potrà mai essere affare loro.
3) Un sistema bancario sardo. Chi l’ha detto che le piccole banche non possano andare avanti in un mondo globalizzato? Non insegnano nulla le esperienze positive della Banca di Arborea e della Banca di Cagliari? Dobbiamo continuare ad essere sudditi, teracos delle banche del Centro-Nord ed in particolare di Bper Banca che ha proceduto ad una spoliazione dei più ricchi asset del Banco di Sardegna? Bper Banca è passata attraverso il diktat nauseante del governo Renzi che, per favorire sfacciatamente nuovi processi di fusione, ha imposto la trasformazione delle Banche popolari in Società per azioni. Anche la Popolare di Bari e quella di Sondrio, che respingevano un ordine estrinsecamente calato dall’alto ed avevano fatto ricorso, sono state costrette ad adeguarsi dopo una recente sentenza della Corte Costituzionale.
Ma bisogna anche andare al di là delle grandi manovre condotte dai vertici della Fondazione di Sardegna (presieduta da Antonello Cabras) e da Unipol Group (holding di servizi finanziari guidata dal cagliaritano Carlo Cimbri) in vista del rinnovo del Consiglio d’amministrazione di Bper Banca (anche su queste manovre i due quotidiani sardi hanno osservato un silenzio totale). Risulta infatti interesse prioritario e strategico della nostra comunità disporre di un istituto bancario non eterodiretto, ben radicato nei territori, che eserciti il credito in favore delle famiglie e delle imprese sarde (si vedano comunque al riguardo i puntuali articoli pubblicati col pseudonimo Amsicora su “Sardinia Post”, il magazine diretto da Giovanni Maria Bellu).
4) Sviluppo del microcredito. Non si tratta solo di adottare il modello del Premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, che intende favorire il credito per le donne povere, ma di seguire anche altre modalità, non necessariamente in conflitto col mondo bancario. Uno dei fini potrebbe essere quello di finanziare donne sarde ed immigrate, organizzando efficaci esperienze pilota nei centri più colpiti dallo spopolamento.
5) Sviluppo di un turismo sostenibile. Valorizzare le risorse naturalistiche, ambientali, termali, l’enorme patrimonio archeologico, architettonico, artistico e culturale specialmente delle zone interne. A tale punto si collega quello sui trasporti, cruciale per la lotta allo spopolamento.
6) Piano per le infrastrutture ed i trasporti. A causa del plurisecolare centralismo di Cagliari, che contribuisce a perpetuare meccanismi coloniali e postcoloniali, il Capo di Sopra – e non solo – risulta sempre più tagliato fuori da un sistema decente di collegamenti, con danni destinati a ripercuotersi su tutta l’isola.
7) Una nuova capitale della Sardegna al centro dell’isola. Si tratta di una prospettiva per il futuro, dalle complesse motivazioni, che affonda le sue radici nella cultura sardista ed è stata poi ripresa e riformulata in ambito sindacale, come Cubeddu ha ricordato nel volume L’ora dei Sardi ed anche di recente. Siamo sul versante utopico, ma quest’idea può, deve essere seriamente studiata e dibattuta (in proposito la Fondazione Sardinia intende finanziare una borsa di studio). La formulazione di un New Deal non è in antitesi col mantenimento di una prospettiva utopica.
Rete commerciale autonoma. Occorre costruire un’alternativa alla grande distribuzione che sfrutta la manodopera – priva spesso delle più elementari garanzie sindacali – ed inoltre trasferisce, specialmente in Nord-Italia, Francia e Germania, gli introiti derivanti dalle spese delle famiglie sarde.
9) Sovranità energetica. Si tratta di seguire in questo ambito quanto ha scritto l’economista Jeremy Rifkin (che Migaleddu desiderava invitare in Sardegna) contro il potere dei giganti dell’elettricità ed anche contro quelle società che, col fine di sfruttare l’energia del sole e del vento, occupano i territori, non solo dell’isola, destinati all’agricoltura e ad altre attività.
10) Cooperativismo, mutualismo, associazionismo, nell’agricoltura, così come in altri settori.. Sono fattori economici e sociali sempre validi ma hanno bisogno di un fondamento nuovo.
11) Lingua sarda. Deve assolutamente diventare curricolare, ufficiale, dalla scuola elementare all’Università. Bisogna introdurre lo studio curricolare della storia dell’isola nelle scuole di ogni ordine e grado.
12) Riforma dello Statuto speciale. Occorre ridefinire e ricontrattare il rapporto con lo Stato centrale tramite la convocazione di un’Assemblea costituente nazionale sarda.
Conclusioni. Nonostante il deserto politico-organizzativo, nonostante l’accanita ostilità delle oligarchie autoreferenziali dominanti verso la pura e semplice parola progetto – che richiederebbe aggregazioni, confronti e dibattiti in grado di fare ombra agli oligarchi (ciò che costoro non possono assolutamente permettersi) – occorre provarci. Non si tratta di una lista della spesa, come sostengono taluni, ma di raccogliere le spinte e le indicazioni della società sarda, elaborare gli obiettivi più qualificanti da praticare poi nel vivo della realtà politica e culturale, per avviare un cambiamento, per dare soprattutto una speranza alle nuove generazioni, per puntare decisamente al dret de decidir, come si dice in lingua catalana.