Un atto di fede: la speranza di una resurrezione dei sardi, di Daniele Madau
Mi piace iniziare questa riflessione come nel più scolastico dei testi e, forse, nel più banale dei modi: guardando l’etimologia del verbo latino da cui “resurrezione” deriva, e cioè “surgo” e il suo composto “resurgo”.
“Surgo” è semplicemente “sorgere”, “alzarsi”, “mettersi in cammino”; solo nella cosiddetta Vulgata di San Girolamo è già “risorgere”.
Non sembra un verbo adatto a noi sardi, oggi, dato che si tratta di un sorgere senza storia e senza ferite, come un neonato dopo un parto verginale; infatti è un verbo proprio del Natale – nella cui liturgia, non a caso, si legge “un’alba nuova sorge all’orizzonte” -, e non del tempo di Pasqua che ci apprestiamo a vivere.
Il verbo “resurgo”, da cui resurrezione, è, al contrario, il verbo più adatto ai sardi, perché indica un “rialzarsi”, un “rinascere” un “risollevarsi” dopo dolori, cadute, fatiche, ferite e, in ultimo, la morte. In quest’ultimo caso il verbo significa pienamente “risorgere”, nel senso cristiano.
E’ esemplificativo di questi significati, la prima citazione d’autore tratta dal dizionario latino: “rursusque resurgens saevit amor” e cioè “e l’amore rinasce e di nuovo l’assale”, tratto da Virgilio.
Ecco allora che è l’amore che rinasce e permette di avere nuova vita, il solo capace di poterlo fare, già nei versi del “lume” di Dante, così come nel significato profondo dei vangeli.
Infatti il risorgere, è un atto di forte rottura, di solo futuro, di sguardo dritto in ciò che verrà. Possiamo dirlo atto d’amore, perché di pura speranza: di una speranza, però, fondata – per usare un’altra espressione evangelica- “sulla roccia”, che è la consapevolezza del proprio passato e di sé.
Non prevede di guardare indietro, come il dio degli inizi e dei passaggi latino, Giano bifronte, perché il gesto stesso di poter risorgere indica che il passato, di cui si portano le ferite profonde, è stato introiettato, capito, metabolizzato e, in ultimo, sconfitto.
L’ultimo atto di Gesù risorto, infatti, è stata l’ascensione al cielo, come definitivo gesto di moto verso l’alto, verso il futuro ultimo che non conosce più un passato soggetto alla morte.
Così, per uscire dalla prolungata similitudine, per essere tale, la resurrezione dei sardi dalle ferite, dai dolori, dalla morte, dovrà avere le stesse caratteristiche o non sarà.
Uso il futuro, “dovrà avere le stesse caratteristiche” perché, ora come ora, non sembra che viviamo già il sabato santo, il giorno della consapevolezza silenziosa nell’attesa della gioia.
Non sembra che la classe dirigente politica abbia capito che siamo morti, nella dispersione scolastica al venti per cento, nella disoccupazione giovanile e adulta, nell’emigrazione giovanile e qualificata a livelli di emorragia, nella desertificazione sociale del nostro territorio, dove i nostri piccoli comuni hanno un futuro – quasi come un ossimoro- coi giorni contati, nel paesaggio post-industriale seguito a una rinascita senza resurrezione.
Senza questa consapevolezza non si pone speranza e si resta, consapevolmente, nel sepolcro.
Né, mi pare, serva contemplare la nostra storia e la ricchezza della nostra cultura, quale motivo di orgoglio e rivendicazioni, senza una molto terrestre percezione del contesto attuale in cui lottare e una ben precisa “realpolitik”.
Per fare ciò, in previsione delle elezioni regionali del 2019, serve un programma intriso di “relpolitik”, in cui il maggior numero di schieramenti, anche opposti, possa identificarsi, per far sì che il futuro comune prevalga sul presente dei possibili interessi di parte.
A questo fine dovrebbe essere orientata anche, e soprattutto, una nuova legge elettorale per l’appuntamento dell’anno prossimo.
Questo programma dovrebbe prevedere, a esempio, un piano straordinario e strutturato di misure, non estemporanee, di sostegno ai paesi sardi, caratterizzato da un’apertura capillare di centri per l’impiego, declinati secondo le caratteristiche del territorio.
Ancora, sul modello delle abitazioni a un euro, si deve cercare di rendere strutturale l’interesse dei non sardi verso la nostra isola, richiedendo un minimo di tempo di residenza e di investimento: da isola di emigrazione perenne, si dovrebbe diventare isola di approdo.
Ancora: la logica, in alcune parti “illogica”, del vecchio “master and back” andrebbe capovolta: bisognerebbe premiare gli studenti che restano in Sardegna, offrendo percorsi qualificati, arricchiti, certamente, da collaborazioni con altre università, e certezze di inserimento lavorativo. Di più: chi arriva a studiare in Sardegna dovrebbe essere certo di un totale inserimento lavorativo.
I fondi si dovranno negoziare con l’Italia e con l’Europa, e si dovrà cercare di farlo da una posizione di forza: ben venga quindi ogni tipo di manifestazione popolare, ufficiale o no, che serva ad alzare la voce, sul modello dei referendum in Lombardia e in Veneto, ma anche secondo recenti iniziative sarde.
L’idea di un programma al quale aderire e da mettere davanti alle divisioni dei partiti, è una soluzione da contesto post-bellico o post-catastrofe e, circondati come siamo da macerie, il paragone non sarebbe azzardato; oppure sarebbe una soluzione da paese socialmente progredito (troppo semplice il richiamo alla “grosse koalition” tedesca), progresso che, in futuro, – ci si augura non troppo futuro – dovrà pur essere una certezza.
Ribadisco: o la resurrezione sarà vera in quanto cosciente, o non sarà.
In alternativa un politico di grande personalità – dato che “le idee camminano sulle gambe di uomini”, come ci ha insegnato Giovanni Falcone – che, uomo di pensiero e d’azione, dovrebbe farsi carne delle speranze dei sardi.
Lo è stato Soru in passato, ed è stata come una resurrezione abortita: se solo il passato insegnasse, coi suoi errori, potrebbe diventare un modello da correggere e riproporre.
C’è anche una terza via, e cioè quella di un partito, e non di un solo uomo o di un programma, portavoce della grandissima parte dei sardi stessi, che indichi la via per risorgere: ed è quello che è capitato venti giorni fa col trionfo dei Cinque Stelle. Se gli stessi numeri dovessero ripresentarsi alle regionali, i “grillini” dovrebbero davvero sentire il dovere morale di levare la pietra del sepolcro sardo.
Senza entrare nel merito, avrebbero l’enorme, e storica, forza di un sardo su due dalla loro parte.
In ultimo, il racconto della morte e resurrezione ha bisogno di evangelisti della Sardegna: ricordo come Bachisio Bandinu ripetesse che la Sardegna aveva bisogno di “narrazione”. Quanti della nuova leva di intellettuali sardi- su esempio, il primo che trovo, di Ciccittu Masala -dagli scrittori agli accademici, ha raccontato, o meglio descritto, partecipe, fino a sentirle nella carne, le piaghe della lunga settimana santa sarda?
Quanto dovremmo stare ancora in attesa di voci “che gridano nel deserto”?
Il loro impegno è importantissimo affinché, una volta ricreata la coesione sociale si ritessa, con un immagine cara a Maria Lai, la nostra coesione culturale.
Vorrei chiudere con una citazione a firma Carlo Galli, con bellissime parole sulla “realpoltik”. Realpolitik è prima di tutto un orizzonte grandioso e terribile di pessimistico disincanto, la consapevolezza che la politica è segnata dal tragico destino di ospitare in sé il male, la guerra e il potere. E che tutto lo sforzo moderno di farla ruotare intorno all’uomo, ai suoi diritti, e alla legalità garantita dalla Stato, può in ultima istanza andare perduto davanti a necessità superiori, a esigenze di sopravvivenza del potere.
Sembra contraddire gran parte di quanto scritto, perciò mi permetto rispettosamente di modificarla alle mie esigenze e spiegarla, con un’esortazione, nel modo seguente: alle necessità superiori dei sardi, alle esigenze di semplice loro sopravvivenza, al dare una terra ai nostri giovani, un lavoro per la loro dignità, e prima ancora una scuola, sacrifichiamo visioni ancora utopistiche e divisioni, con un atto di fede che vinca il “pessimistico disincanto”: quello della speranza nella resurrezione di noi sardi.
By Mario Pudhu, 31 marzo 2018 @ 07:38
Cundivido giai totu cust’interventu!
Sa vida
Sa vida est isperàntzia,
est fide e caridade
e Tue, Segnore nostru,
destinu eternu sou!
A unu punzu ’e brúere
sentidu ’e Umanidade
as dadu e numen nostru
cun s’Ispíridu tou!
Su sensu ’e s’esisténtzia
ses Tue, sa libbertade
ses de su bene nostru,
terra noa e chelu nou!
Ses Tue sa vida nostra,
ses fide, isperàntzia,
ses Tue sa caridade,
vida ’e su s’umanidade!
Sa vida est amore ca s’amore est vida. Ma pentzae, tandho, a cantu is Sardos seus mortos e morindho!
A is Sardos serbit sa “realpolitik”, ma no de is “leones” po fàere is leones: serbit cussa de unu pópulu disastrau, iscaminau, iscallau, ingannau e in caminu de isperdimentu in s’idea de nos’iscabbúllere e caminare.
Ma si noso poneus calecuna isperàntzia in, como, M5S ca at pigau fortza meda cussu, no seus faendho su contu chi cussu puru est (si ndhe at a fàere) solu su guvernu de s’Itàlia cun totu àteros pentzamentos, seus ancora una borta in s’idea chi est s’Itàlia chi nosi depet agiudare a… nosi aguantare in d-una busciachedha sua immentigada, sèmpere ibertandho sa die chi no benit mai fintzes solu ca no tenet tempus po noso, sèmpere cumbintos de sa peus idea chi nosi ant fichiu in conca, su ‘agiudu’ de chie nos tenet asuta de domíniu po cambiare in méngius sa realtade nosta, sèmpere ponendho s’isperàntzia nosta fora de noso ca «la Sardegna da sola non ce la può fare» (comente naràt Enrico Berlinguer, tanti po ndhe arregodare unu de cussos de bonugoro e de cabbale mannu!…), cundennaos a su ruolu infiniu de disàbbiles, de andicapaos!
O faeus totu is contos de responsabilidade e libbertade cun noso etotu e lassaus a pèrdere totu is divisiones macas, assurdas, presumias o interessadas po afariedhos e aprofitamentos de miserabbilidade e tírrias personales e faeus abberu unidade e sa “cunvergéntzia natzionale” chi narat Paulu Maninchedda po un’iscopu mannu e assolutamente necessàriu, o aus a sighire in su camminu de s’isperdimentu e cun s’Itàlia aus a èssere solu pimpiralla, farinedhos, bonos solu a sighire a prànghere e pedire.
Is chi depeus torrare a bios seus noso Sardos po fàere – fàere, no pedire! – is afàrios nostos e vida civile in terra nosta!
Fortza, Sardigna: pèsadi e camina!