Gli hotel a cinque stelle affacciati sul golfo di Cagliari, di Enrico Cocco
L’EDITORIALE della DOMENICA della FONDAZIONE SARDINIA.
… Ci si vuole porre serie domande sul senso, sull’opportunità e sugli obiettivi di tale pioggia in città di sfarzosi fortini, ulteriore esempio di atomizzazione incontrollata, colmi salvadanai la cui mera presenza dovrebbe farci sentire, prima che diventare, più ricchi e più fashion.
La notizia arriva qualche settimana fa direttamente dal Presidente dell’Autorità Portuale: i silos del molo Rinascita non verranno abbattuti ma potranno, suggerisce Deiana, trasformarsi «in un hotel a cinque stelle affacciato sul Golfo degli Angeli, una struttura ricettiva che farebbe fare un salto di qualità al programma sull’home port legato al movimento delle crociere»[1].
Programma “sull’home port” sviluppato e meno, da diversi mesi in città vanno forte i cinque stelle, questa volta però nella forma di salvifica ricetta salva rudere. Dove c’è abbandono vedo il lusso, dove c’è degrado ecco ergersi l’hotel degno di cotanta Capitale del Mediterraneo.
L’elenco inizia a farsi corposo: Palazzo Doglio, monumentale edificio a due passi dalla basilica di San Saturnino, di proprietà dei fratelli Bazaehv (portafoglio all’ombra degli Urali, cuore e costume a Pula) e prossima succursale in città per le élite già di casa al Forte Village; Palazzo Tirso, gioiello liberty fronte Darsena che «potrebbe diventare quel prestigioso albergo “a 5 stelle” che ancora manca al lungomare»[2]; l’adiacente grattacielo dell’Enel, per cui il sindaco Zedda[3] ha prospettato un futuro da torreggiante struttura ricettiva che vada ad impreziosire il nostro modesto “skyline”; Palazzo Accardo, recentemente ceduto dal Comune a privati e di cui si mormora un brillante futuro tra suite e hall patinate; l’ormai mitologico ex Ospedale Marino, già (nei sogni) casinò, centro benessere e, ovviamente, hotel per magnati, vip e capitani d’industria. Senza dimenticare la palpitante attesa per il destino del fu Hotel Mediterraneo, abbandonato all’umido di Su Siccu, smacco grave alla brillantezza del nostro “waterfront”.
Onde evitare precoci fraintendimenti, ben vengano attività imprenditoriali in grado di dare sviluppo economico e, si spera, solidi e continuativi posti di lavoro. Ma è di per sé quanto meno bizzarra questa corsa all’oro, o per meglio dire a “loro”, all’aristocrazia balneare dal jet privato facile e dalla munifica attitudine alla consistente mancia.
Da dove nasce questa necessità? Quale sentimento o (auspicabile) progettualità porta la politica locale a tali puerili entusiasmi, un’accettazione immediata e indiscutibile a tali squillanti ottoni, eleganti livree e poliglotti concierge, lenitive terapie di presunti mali atavici e incurabili? Quale raccordo esisterebbe tra strutture di questo tipo, la città, la sua popolazione e, più in generale, l’economia turistica dell’intera Isola? Proviamo a stendere una prima mano di bianco, su cui in futuro contiamo di svolgere ulteriori approfondimenti sulle singole suggestioni che andiamo rapidamente ad esporre.
Aderire a modelli unici ed esogeni come esclusivo viatico alla modernità sembra essere la parola d’ordine; un inconfessabile disagio nel denunciare il sentimento di mancanza, disperati nel girare per la città senza incappare nei tratti architettonici minimi ed essenziali che distinguono l’incauta provincia dall’avveniristica city.
La classe dirigente invoca il lusso, strutture e dettagli da archistar, come ad attendere che il comitato di valutazione del bel mondo globetrotter, dopo apposita valutazione, fregi il nostro petto di opportuna medaglia, per uscire finalmente da un’insopportabile condizione incolta e rurale. Cagliàri? I know, of course. Mentre la città, evidentemente meno schizzinosa in tempi di crisi, si è adoperata autonomamente con lodevole reattività ed impegno per sfruttare la manna (finché dura) dei voli low cost, tra b&b e affittacamere, guide turistiche più o meno certificate, api calessino e aperitivi tagliere incluso. Tutto evidentemente troppo mediterraneo, di scarso global appeal per il turismo che conta (e paga), esigente e disinvolto.
Ben raccontata in un recente articolo[4] la modalità di fruizione delle località turistiche da parte del turismo islamico, segmento di enorme valore economico, già di gran moda sui quadranti nord orientali dell’Isola: scarso se non nullo l’interesse per l’esperienza, per la storia e la cultura del luogo, ma massima attenzione per la struttura ricettiva in sé, la sua offerta e i suoi servizi. Niente di nuovo per chi è del mestiere, approcci culturali peraltro comuni ad altri gruppi umani sparsi per il globo, gran frequentatori dei nostri resort isolani, vere e proprie enclavi indipendenti, capaci di sopperire agevolmente all’esigua o inesistente offerta isolana, con spa di primo livello, scuole calcio internazionali, chef stellati, 18 buche e yacht in rada. Con ospiti ben protetti dalle insidie della mediocre normalità esterna che, peraltro, non ambiscono particolarmente a frequentare.
Ma quanto espresso, sappiamo, darebbe fiato alle trombe per andare all’assalto di noi, misere apocalittiche cassandre al grido di: ecco il pauperismo d’accatto! L’odio per i ricchi! E il lavoro?
Grande tema, quello del lavoro estivo, che non vediamo l’ora di sviluppare. Provare ad andare un po’ più a fondo dei grandi dati quantitativi, dei consuntivi di fine anno, i + X %, i tappi che saltano e le pacche sulle spalle. Temi centrali che, ad esempio per il lavoro dipendente, andrebbero analizzati qualitativamente: se chi è impegnato nel turismo ha un guadagno commisurato alle proprie competenze, se ha un contratto di lavoro come libero accordo tra due attori di pari dignità o come semplice fastidiosa incombenza burocratica, se l’inevitabile stagionalità dell’attività sia di per sé un fattore di ricatto, se all’emancipazione economica del bonifico a fine mese corrisponda un’altrettanta emancipazione in termini di libertà, dignità e coscienza di sé come individuo facente parte di una comunità, ben prima che come sostituibile dipendente d’azienda.
Perché non si è contro gli alberghi a cinque stelle, gli imprenditori e i ricchi. Ci si vuole porre serie domande sul senso, sull’opportunità e sugli obiettivi di tale pioggia in città di sfarzosi fortini, ulteriore esempio di atomizzazione incontrollata, colmi salvadanai la cui mera presenza dovrebbe farci sentire, prima che diventare, più ricchi e più fashion.
In una visione taumaturgica, che nell’enfasi puerile non va oltre la boutade usa e getta, che ignora fenomeni ben più attuali e gravi. Come il nostro fiabesco turismo, cibo del corpo e dell’anima che, stando ad un recente studio[5], convoglia il 79% delle presenze in 20 comuni sardi su 377. Così che agli stimati magnati russi ed ai gentili principi sauditi, tra una portata e l’altra del menù degustazione, potremmo raccontare della depressa Isola là fuori, dello spopolamento inarrestabile, della scarsa natalità, dell’emigrazione di massa, nella speranza di un miracolo o di un emiro che faccia allontanare le nostre secolari piaghe come nuvole al maestrale.
[1]http://www.comunecagliarinews.it/rassegnastampa.php?pagina=61543
[2]http://www.unionesarda.it/articolo/cronaca/2017/12/12/cagliari_per_lo_storico_palazzo_tirso_un_avvenire_da_albergo_di_l-68-675792.html
[3]http://www.castedduonline.it/zedda-fiera-enel/
[4]https://www.vitobiolchini.it/2018/03/13/conoscete-il-turismo-islamico-ecco-perche-la-legge-urbanistica-di-pigliaru-e-erriu-piace-tanto-al-qatar/
[5]http://www.sardinianobservatory.org/2018/03/06/turismo-sardegna-5-dei-comuni-registrare-79-delle-presenze-turistiche-quali-20-comuni-sardi-ospitano-piu-turisti/