Mutazione culturale… Di STEFANO ALLOVIO e ADRIANO FAVOLE
Divisioni di genere e di età, contrapposizioni tra generazioni, differenziali di potere e ricchezza percorrono le diverse società Tra i popoli non esistono gabbie, ma incontri e scambi continui Siamo esseri screziati, i cui comportamenti cambiano di continuo.
In un celebre libro del 1959, Le due culture (Marsilio, 2005), Charles Percy Snow, fisico e abile scrittore, stigmatizzò la contrapposizione fra la cultura tecnico-scientifica e la cultura umanistica: «due culture» appunto che, oggi come allora, si guardano spesso e reciprocamente con sospetto e senso di superiorità. Eppure già Platone fece scrivere sulla porta della sua Accademia: «Non entri nessuno che sia ignorante di geometria». E ancora nel Settecento, il letterato Diderot e il matematico d’Alembert collaborarono con entusiasmo al compendio universale del sapere: L’Encyclopédie. I sospetti reciproci fra «le due culture» presero vigore solo dopo, in particolare nei secoli XIX e XX.
È significativo notare che, nello stesso periodo storico in cui «le due culture» iniziano ad affilare le armi, i primi antropologi culturali attribuiscono senso alla loro impresa conoscitiva valorizzando l’esistenza, anche in questo caso, di «due culture». La contrapposizione assume però un diverso significato. In effetti, dalla seconda metà del XIX secolo, gli antropologi culturali rivendicano l’esistenza di due concezioni diverse di cultura: 1) la prima rimanda a un processo formativo individuale e a espressioni come «uomo di cultura, donna colta»; 2) la seconda concezione di cultura racchiude le abilità e le abitudini socialmente condivise e rimanda a espressioni come «cultura di massa», «culture degli aborigeni au- straliani». Il riconoscimento di questa seconda concezione, la cultura in senso antropologico, fu una grande scoperta scientifica, che portò lo studio della diversità umana dall’analisi degli «usi e costumi», intesi come aspetti ornamentali e superficiali, alla cultura, intesa come una componente fondamentale nella fabbricazione dell’essere umano.
Il passaggio dai «costumi» alla «cultura in senso antropologico» ha aperto la strada a una visione organica della stessa, non più pensabile come un assemblaggio casuale. È a questo punto che irrompe la declinazione al plurale di cultura: nel senso che non esiste un unico grande assemblaggio sistemico comune a tutti gli esseri umani, ma esistono molti assemblaggi sistemici che noi antropologi culturali abbiamo denominato «culture».
La visione organica, sistemica e plurale delle culture ha contribuito all’emergere di «logiche» interne ai sistemi di pensiero e di pratiche: la diversità culturale non viene più percepita come un’accozzaglia di curiosità esotiche e di espressioni irrazionali. Pensare le culture come organiche e sistemiche ha generato alcune perplessità: immaginare gli esseri umani come appartenenti a una cultura, intesa come unità discreta (fissa, rigida) avente confini discreti, ha finito infatti per racchiudere la «diversità culturale» in tasselli di un grande mosaico, dove ogni tessera (nettamente separata dalle altre) rappresenterebbe una società, una gabbia invalicabile e difficilmente modificabile.
In realtà, è rischioso e scientificamente errato parlare delle culture in termini di mosaici e gabbie. Ormai da decenni tale rischio è stato rilevato ed esorcizzato dagli antropologi, i quali sono attenti alle crepe e agli sfilacciamenti, ai processi storici e alle dinamiche di incontro e scambio, in un mondo interconnesso. Essi sono prudenti nell’uso analitico dell’idea di cultura che, nel senso comune e secondo un certo uso, diverrebbe un altro modo per dire «razza», termine che oggi, come non si stancano di ripetere genetisti e antropologi biologici, non ha alcun valore scientifico se applicato a Homo sapiens. Fatta fuori la «razza», occorre forse sbarazzarci dell’idea di cultura intesa in senso antropologico? Se è vero, come afferma Arjun Appadurai, che non è tanto il «concetto» di cultura a essere problematico, ma è il «pre-concetto» che la cultura sia una sostanza fisica a farla «puzzare di qualche varietà di biologismo, inclusa la razza», occorre davvero abbandonarla? Le imprese conoscitive devono farsi dettare l’agenda dai preconcetti e dal politicamente corretto o procedere con un uso critico dei preziosi strumenti scientifici adottati?
Ovviamente si sarebbe potuto scegliere un termine diverso (come alcuni antropologi in effetti propongono), ma non si può fermare il dibattito a livello nominale. Il punto è chiedersi se davvero, nel riflettere sull’umanità e sulle sue differenze, possiamo fare a meno di quell’opera di modulazione simbolica, di creazione di assonanze di significati (potremmo chiamarlo l’«effetto diapason») che dà origine ai «noi», grandi o piccoli che siano. Se non possiamo farne a meno, diviene rilevante interrogarsi sulla «consistenza» della cultura.
Se le culture (e le lingue che veicolano i loro significati) potrebbero apparire a qualcuno come delle gabbie che ci avvolgono, gli studi antropologici mettono in luce la presenza di aperture e «feritoie» che consentono movimenti di andata e di ritorno. Le azioni che ci permettono di «uscire» dalla cultura richiedono uno sforzo non indifferente, ma soprattutto comportano una sorta di «estensione» del nostro orizzonte linguistico-culturale. Un esempio sarà utile: il Museo etnografico della provincia di Belluno dedica una sala all’emigrazione dei veneti in Brasile. Il museo ha promosso uno studio sull’uso del dialetto veneto per classificare piante amazzoniche del tutto sconosciute: i migranti usarono le loro abituali categorie di classificazione della natura, estendendole e trasformandole per includere piante (e animali) che non avevano mai visto. È un’operazione di invenzione della cultura, come direbbe Roy Wagner, di inclusione dell’ignoto nel noto. Si «esce» dai confini di una cultura estendendo i significati connessi a simboli (come i termini di una lingua) familiari, spesso attraverso l’uso delle metafore.
Le culture sono (relativamente) aperte anche perché percorse, già internamente, da linee di rottura e fessure. In continua trasformazione. Nessuna cultura presenta un tessuto uniforme: divisioni di genere e di età, contrapposizione tra generazioni, differenziali di potere e ricchezza percorrono ogni società. Sono le «screziature» di cui parla François Jullien in un bel libro dedicato al dialogo interculturale, L’universale e il comune (Laterza 2010). Siamo esseri screziati come le venature del marmo e, per di più, in perpetua mutazione. C’è di più: anche se non possiamo fare a meno di utilizzare i concetti e le idee della o delle culture in cui siamo cresciuti, abbiamo la straordinaria capacità che Francesco Remotti chiama “meta culturale”. In ogni società ci sono momenti in cui si riflette sull’orizzonte simbolico in cui ci si trova a vivere: dai riti di iniziazione ai palcoscenici dei teatri, dal viaggio in territori stranieri alla letteratura, gli esseri umani hanno dato vita a punti di osservazione in cui è possibile “guardarsi vivere”. Siamo prigionieri di platoniche caverne, ma con la capacità di osservarci e la tensione verso altri orizzonti.
Che fare all’ora della diversità culturale che, nonostante la globalizzazione, continua a caratterizzare l’umanità? In primo luogo è bene, secondo noi, adottare un approccio scientifico e non meramente etico alla questione. La diversità culturale offre all’essere umano una varietà di strumenti per affrontare un mondo in continuo cambiamento. La diversità culturale, quella esistente e che si continua a produrre, ma anche quella archiviata nei magazzini dell’antropologia culturale e della storia, costituisce un repertorio di possibilità di straordinaria ricchezza. Una “dispensa” in cui rovistare per almeno due buoni motivi: 1) per affrontare meglio, con maggiore consapevolezza della alternative e delle scelte possibili, il cammino incerto verso il futuro; 2) per conoscere meglio i nostri simili, perché ciò che è noto fa meno paura.
Anche per questo motivo la conoscenza della diversità umana – come indicato nell’appello che gli antropologi italiani hanno rivolto alla politica poche settimane fa – può essere un valido strumento contro ogni forma di razzismo. Jullien parla di “fecondità culturale”, contrapponendola all’identità. Le culture sono strumenti per agire nel mondo, non luccicanti e pure cristalli depositati nella roccia.
- La Lettura, 4 Mar 2018