Che cosa distingue oggi la civiltà occidentale dalle altre? di Danilo Breschi

L’essenza  dell’Occidente sono i diritti umani, frutto della dialettica tra valori pagani e messaggio evangelico. Questo patrimonio va difeso, anche perché è l’unica base possibile per l’integrazione degli immigrati, se vogliamo evitare una società divisa in tribù.

La civiltà non è scontata: occorre costruirla giorno per giorno con un lavoro educativo volto a creare valori condivisi, per evitare che il comunitarismo etnico-religioso generi un Medioevo post-moderno.

Due date e fu la svolta. Forse il compimento. Di che cosa? Di quel lungo processo di costruzione storica che chiamiamo civiltà occidentale. Meglio perciò parlare di civilizzazione. Un e a tappe, né forzate né scontate. Travagliate e mai disposte in senso esclusivamente ascendente. Non è detto, insomma, che si vada dal meno al più. Dipende. E non è affatto detto che il processo sia irreversibile. Si può anche tornare indietro. Di certo fondamentale, e fondativo, fu il 4 luglio 1776: “Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”. Così recita la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’america. Subito dopo, il 26 agosto del 1789: “Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti”, che sono “la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressone”. Ecco i primi articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la conquista più incisiva e duratura della Rivoluzione francese.

Dove sta la svolta? Nel rovesciare l’idea di natura. Natura intesa come ciò che è, la realtà, il fondamento su cui gli uomini camminano, vivono, muoiono. Questa realtà non poggia più sui piedi, ma sulla testa di ideali che sono il frutto di una contaminazione felice e feconda. Non solo: non è qualcosa di esterno, ma di interno. E’ qui che la natura diventa cultura. A fine Settecento si giunge alla prima grande stagione di fermata della civilizzazione europea. La rivoluzione scientifica ha incubato e infine partorito una nuova filosofia, che esce e spicca il volo: l’Illuminismo. Natura diventa la ragione che riteiene tutti creati liberi ed uguali, titolari per nascita di diritti inviolabili e inalienabili. E qui si capisce che liberàtà ed eguaglianza ono l’innesto di una tradizione sul tronco di un’altra. Il Cristianesimo nell’Illuminismo. Ma come è successo?

 

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In generale, ogni civiltà prende avvio perché no si accetta la natura così com’è. Se per tutte le viviltà del pianeta la partenza è la stessa, il resto del tragitto cambia. Nel 1789 il pensiero del paganesimo cristianizzato, maturato nei secoli, si è tradotto in azione, per rifare il monda a immagine e somiglianza di una certa visione dell’uomo, delle sue  aspettative e pretese. Questo può comportare tragedie, proprio perché si tratta di negare la prima evidenza, quella che la natura animale ci mostra al primo sguardo. Il debole che soccombe al più forte, la vendetta che innesca il sistema penale, la discriminazione dei ruoli tra maschio e femmina, e così via. Sono i valori pagani che l’aristocrazia ha fatto propri: il sangue e il suolo, la guerra la vendetta, la conquista, la gerarchia. Sono quelli politicamente fondanti le società europee per oltre duemila anni. Le società tradizionali. Da secoli il contrato è con i valori predicati dai seguaci di Gesù Cristo: lo spirito e il culto dell’anima, la pace, il perdono e la carità, l’uguaglianza, la dignità di tutti e l’abbraccio degli ultimi. Pagani e cristiani ingaggiano una lotta plurisecolare, che innesca una dialettica feconda. Nessuno vince e dalla doppia negazione esce una sintesi affermativa. E’ appunto la civilizzazione europea, la sua peculiarità. Giocando di sponda con i neonati Stati Uniti, l’Europa si fa poi Occidente. Sorge la civiltà dei diritti e delle libertà.

Che cosa distingue oggi la civiltà occidentale dalle altre? La stanchezza morale, forse. La causa principale della crisi culturale di una civiltà è lo smarrimento delle convinzioni e il conseguente indebolimento delle istituzioni. Ci crediamo meno, nella democrazie, nel liberalismo e nei loro valori annessi e connessi. Li pratichiamo meno. La cultura islamica, da alucni decenni investita fuori e dentro l’Europa da una rinascita di integralismo religioso, non li condivide senz’altro. Nelle nostre società la presenza massiccia di uomini e donne musulmane sta favorendo chiusure etniche, quano non rivendicazioni di separatismo tra “loro” e “noi”. Le stesse politiche immigratorie dei Paesi ospitanti non sono andate nel senso di favorire l’integrazione, che vuole dire accogliere disarticolando le componenti più escludenti e repulsive delle culture allogene. Il multiculturalismo europeo ha spesso malinteso il rispetto delle differenze con la creazione di vere e proprie enclave dentro il territorio statal-nazionale. Sono le zone franche, no-go zone o no-go area.

In un articolo inglese del 2013 si esaltava “Mancester, la poliglotta”. Si ricordava come su una popolazione di circa 480 mila abitanti si parlassero più di 150 lingue. Un retaggio del passato coloniale britannico, indubbiamente. L’articolo si limitava all’aspetto linguistico, riconoscendo in questa estrema varietà una “vera e propria ricchezza”. Non si poneva altre domande, come se dietro ogni lingua non vi fossero culture, e queste ultime fossero solo una questione di folklore da esibire nelle feste comandate. Come se, insomma, religioni e culture diverse avessero tutte già compiuto il percorso delle confessioni cristiane occidentali, ormai pienamente secolarizzate (peraltro dopo circa duemila anni di scontri e intrecci). Abbiamo poi visto che cosa è invece esploso a Manchester e dintorni. Terrorismo e stragi di innocenti. Le identità tradizionali non sono così fluide. Le loro rigidità cozzano l’un l’altra ed è conflitto.

Demografia e revival entico-religioso rischiano di produrre sempre più massicci e visibili sommovimenti interni alle società europee. Fino a ieri ha prevalso una sottovalutazione del fenomeno. Come sempre, prevenire è meglio che curare. Non si tratta di blindare la società aperta e di favorire politiche nataliste. Oltre ad essere illiberali, risulterebbero sterili, in tutti i sensi. Rischierebbero di introdurre surrettiziamente rigurgiti razzisti. Si tratta, semmai, di impedire il diffondersi del comunitarismo etnico-religioso, a cui le politiche immigratorie ispirate dai principi astratti del multiculturalismo inevitabilmente portano e hanno già portato in Europa. Vedi Regno Unito, Belgio, Francia, Olanda.

Non è accoglienza, se non ipocrita e foriera di conflittualità sempre più esasperata, quella che ammassa e abbandona gli allogeni in quartieri-ghetto. In tempi di revival integralista islamico vuol dire costruire in terra d’Europa il Medioevo prossimo venturo. Si accoglie predisponendo meccanismi di inclusione, lavoro e occupazione. E ciò vale tanto per gli immigrati, quanto per gli autoctoni.

Il rischio è l’emersione del neofeudalesimo delle tante comunità etnico-religiose separate e non comunicanti, anzi reciprocamente repulsive. Qualcosa a mezza strada tra feudo e tribù. Invece lo stato di diritto concepisce individui, tutti uguali in dignità, libertà vivili e politiche, on comunità aliene e ostili al governo della legge. Alla paura, che paralizza e fa rimandare decisioni tanto fondamentali quanto urgenti, deve subentrare presso le classi dirigenti europee il coraggio di creare nuovi e autentici cittadini, titolari individuali di diritti e doveri secondo i principi del costituzionalismo liberale e democratico. Non importa da dove provieni, importa se laterra di arrivo è la tua nuova patria, e al riconoscimento di diritti e status corrispondono fedeltà e rispetto degli obblighi di una convivenza civile.

Ciò vale anche per chi in Occidente è nato. La cronaca ci segnale un preoccupante deficit educativo e deterioramento antropologico. L’homo democraticus è sempre più l’uomo volgare di cui parlava Josè Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso. Il tipo umano più refrattario ad accogliere istanze superiori e ad assumersi responsabilità. E’ il “bambino viziato” che si adagia sull’eredità della propria civiltà, e la vede solo come comodità e agi da sfruttare  e pretendere non appena scarseggiano. Ritiene l’eredità un tesoro inesauribile che gli è dovuto. Invece la civiltà non è ma scontata, va costruita giorno per i. Lo stesso vale per la cittadinanza, che dell’eredità è la traduzione nella mente e nel cuorie di ogni singolo individuo. E’ il civismo. A questo servono politica e istituzioni. E, prima di tutto, va rilanciata la cultura come educazione.

(Questa articolo è tratto dal settimanale  LA LETTURA  del Corriere della Sera, domenica 4 marzo 2018, pag. 4-5).

 

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