LA QUESTIONE DONNA, di Bachisio Bandinu

L’EDITORIALE DELLA DOMENICA  della FONDAZIONE SARDINIA.

 

La festa della donna, l’otto marzo, è nata in memoria delle prime lotte di emancipazione e per confermare un proposito e un impegno di realizzare la parità di genere nei molteplici ruoli dell’economia, del diritto, della politica e della cultura. Ci troviamo invece a constatare che non è la festa della donna ma, secondo un moto sardo, è un “farle la festa”: corpo della violenza sacrificale. Un sacrificio consumato in famiglia, nella violenza di strada, nelle infinite storie di dissenso e abbandoni, nel bullismo di gruppo, nell’aggressione del branco, nelle tragiche esperienze di aggressività e sadismo.

L’imputato è il maschio ed è un maschio che vive in determinato contesto familiare, sociale, culturale. Da questo contesto psicologico e antropologico nasce la violenza e proprio lì bisogna trovare la risposta al dramma ormai quotidiano di sangue e di morte.

Da dove nasce la violenza femminicida e muliericida? È del tutto evidente che c’è una responsabilità individuale per cui la violenza va cercata nella formazione psicologica della persona e cioè nella sua capacità di elaborare pulsioni aggressive, frustrazioni, perdite, reazioni, conflitti, tendenze vendicative. Ma non meno importante è la responsabilità della cultura dominante, delle convenzioni sociali, della struttura simbolica. In definitiva della concezione dell’amore e della donna.

C’è una cultura religiosa, filosofica, antropologica che ha posto la donna come essere inferiore fino a domandarsi se avesse l’anima e avendola se fosse un’anima maligna, per arrivare ai nostri giorni e chiedersi se le si potesse concedere il diritto al voto e la partecipazione alla vita pubblica. Solo due esempi per sintetizzare un lungo percorso storico di esclusione e di diritti negati.

Le molteplici motivazioni del feminicidio, per lo meno in Italia, sono da attribuire alla messa in crisi del tradizionale ruolo dominante del maschio sulla sessualità femminile. L’uomo non riesce a elaborare la conquista di libertà sessuale da parte della donna. La possibile risposta è nell’ordine della violenza. Non riesce ad accettare la parità di genere sul versante di una libera scelta e del diritto a gestire ciascuno/a la propria sessualità. Essere lasciato produce un tracollo narcisistico, suscita una forma depressiva insostenibile e scatena la violenza vendicativa.

Se la donna non ha il velo, merita lo stupro, se la donna esprime liberamente il proprio linguaggio del corpo, fa la provocatrice, se la cerca, in qualche modo attira la violenza!

Il discorso più ampiamente si inquadra nella crisi del maschio, nell’incapacità di rispondere alla sfida dell’autonomia sentimentale della donna. La paura di fondo è che la donna detenga un potere originario, mai formulato in nessuna legge simbolica governata dall’uomo. Il timore perturbante è che ci sia una modalità di essere indipendente dal modo di essere maschile e che questa differenza non possa essere amministrata. L’uomo ha timore dell’indomabile potenza della genitalità femminile: non riesce a sopportare che la donna possa esercitare la sua libertà al di là della funzione riproduttiva e dell’eros controllato dalla legge maschile. Viene meno il controllo sociale e si apre un’alternativa al codice simbolico maschile. Il timore è che la chiacchiera femminile da parlare vano si ponga come un nuovo ordine di discorso, una nuova economia del linguaggio.

Il dominio dell’uomo sulla donna si è strutturato come una forma mentis ed è sostenuto da una costruzione simbolica prettamente maschile che si traduce in norme giuridiche, in convenzioni e consuetudini comportamentali, in ordinamento di famiglia e società. Uno schema culturale che vuole legittimarsi come ordinamento naturale nel dichiarare la presunta natura inferiore della donna. Lo stesso Freud afferma che la donna è marcata da un deficit, la mancanza del pene, simbolo della pienezza e dunque del potere.

Così si è costituita una società fallocentrica che fa dire al filosofo: donna, essere inferiore nata per servire e mentre l’uomo dice io voglio, ella dice tu vuoi.

L’ordine simbolico crea la differenza tra spirito maschile e corpo femminile. Attribuisce alla donna lo stato di natura e all’uomo lo statuto di cultura. C’è una genealogia simbolica del maschile che trionfa sulla corporeità femminile attraverso la classificazione: corpo della madre e spirito del padre. Attribuirsi lo spirito significa farsi detentore della legge. Potere simbolico che governa il linguaggio: padronanza della parola e dell’azione.

Il fallo è posto come significante universale, l’attore dell’economia sessuale.

Il sesso è la procedura dell’ingresso della legge: la fallocrazia.

Il fallo è simbolico, l’utero è misterioso. Il confronto più radicale è tra la legge e il mistero: la legge è ordine, ragione, consenso. Il mistero è l’arcano indefinito che non ha presenza, non ha storia.

La parentela della donna col mondo delle forze naturali che proviene dal suo essere generatrice di vita viene astutamente ributtato sul versante dell’irrazionalità, della primitività da controllare dentro la pedagogia conformativa del maschio.

Come è regolare il desiderio della donna?

La messa in scena del corpo femminile viene predisposta al desiderio dell’uomo e dunque a un processo di erotizzazione secondo la legge maschile. La donna rappresenta una funzione sessuale censurata e costituisce l’apporto della genitalità alla riproduzione: genitrice, nutrice, educatrice ma non assurge al linguaggio simbolico se non all’interno della legge sociale maschile. Reprimere il desiderio della donna per accrescere il desiderio dell’uomo, e ciò significa sottrazione, appropriazione.

La forza simbolica maschile si è realizzata pienamente attraverso la struttura, la funzione e l’uso della lingua. Si parla al maschile, il linguaggio femminile deve essere gregario. Circa l’emancipazione femminile, la vera sfida sta nel linguaggio e cioè nel costruire un parlare al femminile. Certo è importante la lotta per una vera parità di genere che si traduca in ogni settore di attività, in ogni compito di ruolo, nella pari retribuzione, ma la questione decisiva sta nella produzione linguistica al femminile. Sarebbe una grande rivoluzione di arricchimento per l’umanità: un nuovo linguaggio in politica, in economia, nella articolazione sociale e nella creatività culturale.

La donna non è la diversità, è la differenza. Tra uomo e donna nessuna opposizione e nessuna integrazione: vengono vissute entrambe come qualità distinte e complementari. Due unità in un gioco di tessitura con fili differenti.

Né uni-sex, né uni-lingua, né uni-verso. Vige il duale: maschio e femmina.

4 marzo 2018

 

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