L’EPOPEA ARBORENSE IN UN LIBRO DI GIAN GIACOMO ORTU, di Federico Francioni
Venerdì 2 febbraio 2017, nell’auditorium della Biblioteca “Satta” di Nuoro, si è svolto un incontro-dibattito su La Sardegna tra Arborea e Aragona, di Gian Giacomo Ortu, presente l’autore. L’iniziativa è stata introdotta da Marina Moncelsi e Federico Francioni, di cui riportiamo la relazione.
Complessità e difficoltà della conquista della Sardegna da parte della Monarchia catalano-aragonese – La spedizione del 1323-24: un onere economico e finanziario gravoso – Dal 1353 alla rivolta arborense – La Carta de Logu come Carta libertatis – Storia della Sardegna e storia della penisola iberica.
Complessità e difficoltà della conquista della Sardegna da parte della Monarchia catalano-aragonese. Il libro di Gian Giacomo Ortu su La Sardegna tra Arborea e Aragona, di 505 pagine, edito nel 2017 dalla casa editrice nuorese Il Maestrale, è indubbiamente destinato ad assumere un posto di rilievo negli studi sull’isola durante il Medioevo; si tratta di un volume da mettere in relazione con feconde stagioni di ricerche, che comprendono le fondamentali produzioni di Enrico Besta, Arrigo Solmi, in seguito di Alberto Boscolo e della sua scuola, quindi di Marco Tangheroni e di John Day, lo storico franco-americano che fu grande, sincero amico ed estimatore della nostra terra. L’eredità di tutti questi autori è stata raccolta da nuove leve di storici.
Ortu è fra i pochissimi che abbiano affrontato temi e problemi sia dell’XI, XII e XIII secolo sia di quelli successivi: com’è noto un medievista e maestro come Boscolo non esaminò mai la grande triade, il grande trittico formato dai giudici arborensi Mariano IV, Ugone III ed Eleonora. Ortu d’altra parte premette nel suo libro che il ruolo di storico “modernista”, svolto per tanti anni nei ranghi dell’Università di Cagliari, non gli ha mai impedito di andare oltre certi steccati, come ha dimostrato un’altra sua consistente monografia, La Sardegna dei giudici (Il Maestrale, 2005): ciò è avvenuto specialmente per la passione e l’impegno da lui profusi nelle indagini sulle comunità rurali, la vita familiare, singoli villaggi, le istituzioni, da quelle locali ad una dimensione più ampia (penso al suo libro su Lo Stato moderno. Profili storici, Laterza, 2001). Tutti questi nodi sono stati dunque presi in esame in una proiezione che possiamo definire di longue durée, per usare una categoria dell’eminente storico francese Fernand Braudel.
Il nostro autore esamina lo scontro fra la Monarchia catalano-aragonese e gli arborensi lungo il Trecento e il Quattrocento, ponendo subito in evidenza l’estrema complessità dell’operazione, gli innumerevoli ostacoli incontrati dai regnanti iberici per prendere possesso effettivo dell’isola. Intervenendo autorevolmente in un dibattito storiografico da tempo in corso, Ortu afferma che le logiche imperialistiche della dinastia catalana si coniugarono, non senza difficoltà, specialmente con gli interessi mercantili delle città costiere.
La spedizione del 1323-24: un onere economico e finanziario gravoso. Nel 1297, com’è noto, il pontefice Bonifacio VIII aveva conferito l’investitura del Regnum Sardiniae et Corsicae a Giacomo II d’Aragona ma, lo sappiamo bene, passarono più di due decenni prima che venisse data una prima, concreta attuazione a quella che – come ha ricordato Francesco Cesare Casula – altro non era che uno ius o una licentia invadendi. A parte il Giudicato d’Arborea, il potere nell’isola era frammentato tra il Comune di Pisa e i domini Sardiniae: i della Gherardesca, conti di Donoratico (cui apparteneva il celebre conte Ugolino del Canto XXXIII dell’Inferno dantesco), i litigiosi Doria (quasi sempre in conflitto fra loro), i Malaspina della Lunigiana, con i vari Corrado, Francesco e Moroello (secondo l’eminente dantista Guglielmo Gorni, un Moroello, appartenente ad uno dei vari rami dei Malaspina, sarebbe il dedicatario del Purgatorio).
Ortu si muove con sicurezza tra le fonti archivistiche disponibili e la vasta letteratura storico-storiografica sarda, italiana, iberica e più generalmente internazionale, da Jaume Vicens Vives a Jaume Sobrequés, da Rafael Conde y Delgado de Molina a Jesus Lalinde Abadia, per citarne solo alcuni. La Catalogna offrì al sovrano 1.393.000 soldi, l’Aragona 707.500, Valenza poco meno: 696.000. Nell’insieme si trattava di 2.797.000 soldi, pari a 139.870 lire. Per la metà o quasi l’importo gravava sul Principato catalano (49, 83%) e per 1/4 circa sui Regni aragonese e valenzano. Viene inoltre ampiamente spremuta, come precisa lo stesso Ortu, la componente ebrea. Barcellona è la metropoli dove si smistano e si redistribuiscono i mezzi reperiti per la spedizione e la conquista della Sardegna. In una panoramica più larga dell’onere economico-finanziario, davvero gravoso, sostenuto dalla Corona catalano-aragonese, il nostro autore ricorda che Giacomo II è costretto ad alienare spezzoni importanti del suo patrimonio (1 baronia, 1 arcivescovado, 1 zecca), deve concedere grazie e privilegi che prima costituivano introiti cospicui dell’erario regio. Dal momento che la guerra è impossibile senza adeguati investimenti di capitali, non avrei tralasciato, se mi è permesso uno spunto critico, un volume di Angelo Castellaccio sulla circolazione del tornese (ad opera dei della Gherardesca), del fiorino, delle monete coniate dai pisani, dai giudici e dai catalano-aragonesi (Economia e moneta nel Medioevo mediterraneo, Taphros, Olbia, 2005).
La conquista materiale della Sardegna, territorio per territorio, fu lunga ed aspra e si articolò attraverso varie fasi. Del 1323-24 è la spedizione nell’isola dell’infante Alfonso che riuscì ad impadronirsi di Villa di Chiesa (antico nome di Iglesias), dopo aver fatto dolorosamente i conti con un nemico ben poco cavalleresco come la malaria che però colpiva anche gli assediati. Ma soprattutto egli riuscì vincitore nella battaglia di Lucocisterna, presso l’attuale Elmas. Cagliari fu costretta ad arrendersi ma i pisani ne mantennero, sia pure per breve tempo, il possesso, rinunciando però a tutti i loro restanti territori isolani. Ortu pone in risalto che le conseguenze di un cattivo governo dei conquistatori catalano-aragonesi si avvertirono quasi da subito: Sassari insorse dapprima nel 1325, quando venne ucciso il podestà catalano Ramon de Sentmenat, in seguito nel 1329: la repressione regia fu particolarmente dura e colpì anche i Malaspina, alleati dei sassaresi ed in parte loro sobillatori. Fra le prime, importanti investiture feudali concesse dal re catalano-aragonese spicca quella ai Carroz.
Dal 1353 alla rivolta arborense. Per non svolgere il ruolo del vaso di coccio sballottato fra quelli di ferro – e cioè Aragona, il Comune di Pisa, i della Gherardesca, i Doria e i Malaspina – il giudice Ugone II d’Arborea accetta di giurare fedeltà feudale alla Corona. Dopo Ugone II sale sul trono Pietro III (1335-1346), ma la politica arborense, come sappiamo, avrà una svolta con Mariano IV, una personalità di grande rilievo. Un altro momento cruciale della conquista catalano-aragonese è costituito dalla spedizione del 1353. A Bernat de Cabrera, uomo forte del centralismo e dell’imperialismo dinastico, viene affidato il comando di 45 galee (un numero davvero consistente). Alleata con la Repubblica di Venezia, la flotta catalano-aragonese trionfa, nella battaglia di Porto Conte, su quella genovese guidata da Antonio Grimaldi (appartenente ad una delle famiglie più cospicue de La Superba): 33 delle 50 galee genovesi vengono catturate.
Ben presto Mariano IV si pone alla testa di una rivolta che divampa al grido di “Arborea, Arborea!”. Alghero si solleva. “L’insofferenza politica della Casa d’Arborea – scrive Ortu – si saldava alla sofferenza sociale delle campagne vessate dai nuovi signori feudali”.
Il 1354 è un’altra data decisiva poiché, di fronte alla ribellione del giudice arborense, il nuovo monarca Pietro IV, detto il Cerimonioso (aveva riformato l’etichetta di corte), succeduto a Giacomo II e ad Alfonso IV, detto il Benigno, chiama alle armi dalla splendida chiesa barcellonese di Santa Maria del Mar. A Barcellona si riunisce il Parlamento: le Corts stanziano 100.000 lire per una nuova impresa in Sardegna; un centinaio di vascelli di vario tipo costituisce una delle flotte più imponenti per il Mediterraneo di allora. Pietro IV riesce ad assicurarsi il possesso di Alghero ma, di fronte alla minaccia di Mariano IV – le truppe arborensi si stanziano ed incombono lungo un arco che va da Scala Piccada (presso Villanova Monteleone) a S’Iscala de sos Caddos, Scala cavalli, lungo la strada che collega Alghero a Uri e Ittiri – lo stesso re deve firmare una pace che considera disonorevole. Nel 1355 tuttavia il sovrano convoca a Cagliari, per la prima volta, le Corti, il Parlamento sardo: si deve senz’altro concordare con Ortu laddove egli afferma – mutuando una tesi di Giuseppe Meloni e prendendo invece le distanze da Lalinde Abadia – che si tratta di un Parlamento vero e proprio (si forma anche una Camera dei Sardi).
Ha così inizio la storia plurisecolare degli Estaments, il Parlamento tricuriale o tricamerale di Antico Regime – formato dallo Stamento ecclesiastico (arcivescovi, vescovi, abati mitrati, procuratori dei Capitoli delle Cattedrali), dallo Stamento militare (feudatari, nobili e cavalieri), dallo Stamento reale (sindaci delle città sottoposte a giurisdizione regia). Dopo le regolari convocazioni del Seicento, col passaggio del Regnum Sardiniae alla Casa Savoia, il Parlamento sarà completamente depotenziato dalla logica centralistica ed assolutistica dei governi sabaudi – a parte la fiammata e la reviviscenza del triennio rivoluzionario 1793-96 – fino alla definitiva, formale scomparsa dovuta alla “Perfetta fusione” con gli Stati di Terraferma (1847). Con Ortu, chi scrive è stato inserito nel progetto di pubblicazione in edizione critica degli atti dell’antico Parlamento sardo, promossa dal Consiglio regionale. Fra le Regioni dello Stato italiano, l’isola può vantare un indiscusso primato, stabilito dalla stampa degli Acta Curiarum Regni Sardiniae (ora disponibili anche on line, oltre che gratuitamente in formato cartaceo).
Si tenga presente che alle sessioni parlamentari del 1355 Mariano IV non si presenta personalmente. Nato nel 1319, egli era stato educato presso la corte catalana, ma sarebbe riduttivo vedere nella sua complessa personalità solo l’influenza culturale, giuridica, politico-diplomatica e militare dei regnanti iberici. Aveva sposato Timbora de Rocabertì, appartenente a famiglia di alto lignaggio (almeno due Rocabertì svolgono un ruolo di rilievo fin dagli esordi della conquista militare catalano-aragonese). Mariano affida delicate incombenze politico-diplomatiche alla moglie, dotata di energie e di capacità spiccate che contribuirà a trasmettere ai figli: Ugone III, Eleonora, unitasi in matrimonio a Brancaleone Doria (da non confondere con l’omonimo personaggio che Dante colloca nell’Inferno, canto XXXIII, fra i traditori degli ospiti, come omicida del suocero, il sassarese Michele Zanche) ed infine Beatrice, maritata a Aimerico, visconte di Narbona.
Dal punto di vista militare Mariano evita le battaglie campali col nemico, ma riesce ugualmente a cogliere una grande vittoria di fronte ad Oristano: l’esercito di Pietro de Luna, che muore sul campo, subisce una rovinosa sconfitta grazie ad una manovra di Mariano (che irrompe dalle porte) e del figlio Ugone che si trovava fuori della città. Avvertito tempestivamente, quest’ultimo attacca De Luna alle spalle. Nel contrasto ai catalano-aragonesi lo stesso Ugone è al comando di una flotta leggera (al riguardo si veda la monografia di Raimondo Carta Raspi, Mariano IV, edita da “Il Nuraghe” e apparsa nel 1934: se mi è consentito un altro spunto critico, non avrei trascurato questo lavoro di un autore riscoperto e rivalutato in anni abbastanza recenti da Gianfranco Contu).
Mariano si assicura il controllo di quasi tutta la Sardegna, escluse le piazzeforti di Cagliari e di Alghero, ma muore nel 1375, quasi certamente di peste. Gli succede Ugone III, ricordato fra l’altro per le sue Ordinanze, studiate nel Novecento dal Besta. Fonti catalane ci raccontano che era accusato di tirannia da avversari interni ed esterni. Il suo potere viene rovesciato dai torbidi del 1383, allorquando il giudice, con la figlia Benedetta, viene trucidato e gettato in un pozzo. Ad Oristano si voleva dare luogo ad un governo di tipo comunale? La pista iberica è estranea alla tragica fine di Ugone? In proposito rivestono ancora un certo interesse le considerazioni di Carta Raspi. In ogni caso la tempra di Eleonora risalta in quel terribile frangente: ella è tempestiva nello sventare le manovre dei suoi nemici e nell’assicurare continuità al potere giudicale. Nel 1388 perviene ad una pace col re Giovanni I, detto il Cacciatore. Toccherà a lei emendare, perfezionare, riformare e pubblicare nel 1392 la Carta de Logu. Infine, nel 1402-1403, anche Eleonora deve soccombere alla pestilenza.
La Carta de Logu come Carta libertatis. La Carta de Logu è composta da 198 capitoli, dei quali 132 riguardano le norme civili e penali, mentre gli ultimi 66 altro con sono che il Codice rurale di Mariano. Nella gerarchia dei poteri, al vertice si trovava la corte giudicale cui erano sottoposte la Audiensia (che governava il sistema giudiziario) e la Camara (che gestiva l’amministrazione economica, patrimoniale e fiscale dello Stato arborense). L’ufficiale di grado più elevato era l’armentàrgiu de Logu, che assolveva a funzioni esecutive, fiscali e giudiziarie. Toccava a lui presiedere la Corona de Logu, supremo organismo giudiziario de Su Rennu. A lui erano sottoposti i curadores, che svolgevano i medesimi compiti relativamente alle singole Curadorias, province o distretti del Giudicato. Quanto al maiore de villa, aveva competenze limitate al villaggio, dove presiedeva la locale Corona, raccoglieva e comandava le milizie e doveva eventualmente occuparsi dell’affidamento dei minori, verso i quali la Carta de Logu dimostra una sensibilità insospettabile per quei tempi. Risulta significativo, secondo Ortu, il silenzio che avvolge la dimensione urbana, soprattutto di Oristano (e non solo, se si fa riferimento ad altri centri caduti sotto controllo arborense): una conferma, scrive l’autore, del carattere, almeno in prevalenza rurale, assunto dalla società nel Giudicato.
Davvero stimolante la pagina in cui Ortu si sofferma sulla polisemia del termine ragioni che sta ad indicare, di volta in volta, dettato della legge, rendere giustizia, tenere ragione o giudicare, nostra (del giudice) giurisdizione, oppure, ancora, rimettersi alla giustizia. Può essere utile, al riguardo, ricordare i libri di Simone Sassu, La rasgioni in Gallura, oppure quelli di Francesco Carboni e Salvatore Moreddu, più recenti, sulla ricomposizione dei conflitti, per giungere a sas paghes, cioè alle paci, fra singoli e gruppi di famiglie, al fine di interrompere la sanguinosa catena delle faide. La Sardegna infatti non è solo la terra del codice della vendetta, magistralmente ricostruito da Antonio Pigliaru: giacimenti di ragguardevole importanza, che si trovano negli Archivi di Stato di Nuoro e di Cagliari, documentano il secolare, incessante sforzo sostenuto da istituzioni locali, Chiesa, singoli prelati e sacerdoti, privati, teso a interrompere il ricorso alla violenza. Mentre il codice della vendetta non è scritto, quello delle paci può essere agevolmente ricostruito a partire dai materiali archivistici: si tratta di una nuova frontiera degli studi storici, giuridici ed etnoantropologici.
Nella Carta de Logu la pena di morte, per decapitazione o sul rogo, è sostanzialmente limitata a reati molto gravi che escludono l’estinzione, in pratica, della pena tramite versamento di denaro (po dinari neunu campit): i reati più gravi sono quelli consumati contro il giudice, il tradimento, l’offesa violenta degli ufficiali giudicali, il furto in casa con effrazione, grassazioni nelle strade pubbliche, l’incendio di una casa, pratiche magiche, recidive di furti nelle chiese (si vedano in particolare i capitoli da I a V).
Alla famiglia è riconosciuto un ruolo centrale: il marito ha, sicuramente, potestà di “correzione” sulla moglie. Tuttavia la moglie ed i figli di primo letto del traditore non devono patire lesioni dei loro diritti patrimoniali; non è conforme al diritto – attenzione a questo principio! – che le colpe del singolo ricadano su altri. In proposito la concezione giuridico-giudiziaria di cui si faceva portatore Pietro IV il Cerimonioso nel Parlamento del 1355 è semplicemente antitetica, retrograda rispetto alla nuova frontiera rappresentata dalla Carta de Logu. Certo, nel sistema penale della Carta ha un ruolo non secondario l’antichissima legge del taglione, di origine mesopotamica. Il taglio del piede, dell’orecchio e dell’occhio, per non parlare della messa alla berlina, figurano espressamente tra le pene previste per vari reati. Tutto ciò non può e non deve escludere la valutazione formulata a suo tempo da Gabriella Olla Repetto (nel volume Il mondo della Carta de Logu) in cui si afferma che la raccolta di leggi di Eleonora non è priva di “raffinatezza giuridica”. Valutazione confermata in buona sostanza da La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno (curata da Italo Birocchi e Antonello Mattone e pubblicata da Laterza nel 2004). In questa opera la messa a punto dei debiti verso altre legislazioni può spingerci ad affermare che è un pregio, non un limite, l’apertura dei giuristi arborensi verso altri contesti (penso in particolare al saggio di Vito Piergiovanni sull’influsso del diritto genovese).
Ancora: le donne partecipano alla successione dei beni paterni nella stessa misura dei figli maschi. L’adulterio della donna è punito con la privazione dei diritti patrimoniali solo se compiuto all’interno delle mura domestiche. La donna che ha subito violenza ha diritto al matrimonio riparatore ma, si badi bene, può anche, sua sponte, non avvalersene (cap. XXI). Si tratta di un chiaro riconoscimento della dignità femminile; per quanto sia impossibile individuare elementi decisamente emancipatori, non sussiste dubbio alcuno che la donna nella Carta de Logu abbia accesso ad una dose notevole, per quei tempi, di autonomia e di autodeterminazione.
Si è già detto della sensibilità delle norme emanate da Eleonora per i minori, fra le quali è da evidenziare il capitolo LXVII, secondo cui l’usucapione non deve pregiudicare i diritti del minore; limiti vengono frapposti alla possibilità di diseredare il minore stesso (cap. XCVII); per sottrarsi all’obbligo di essere tutori degli orfani occorre dimostrare adeguatamente un proprio impedimento (cap. CI).
Nella Carta de Logu si parla di feu o di villas afeadas (ai capp. XX, XLVIII, XCII e XCIII), ma Ortu, con la sua consueta acribia terminologica e lessicale, precisa che ciò ha ben poco a che fare con il feudalesimo catalano-aragonese. Studi recenti hanno preso in esame il nodo cruciale dell’esistenza o meno di un siffatto sistema nella Sardegna giudicale o nelle terre dei domini italiani (si pensi al tema delle donnicalie su cui ha scritto Alessandro Soddu). Ortu afferma che in Arborea era vigente un feudo – egli sostiene – “a basso contenuto immunitario”, cioè privo di giurisdizione in materia criminale, con competenze limitate a sanzioni verso reati economici e fondiari. Il potere dei signori era condizionato inoltre dalle prerogative dei curadores e dei maiores de villa. In ogni caso la giurisdizione feudale non poteva estendersi agli uomini liberi. Camillo Bellieni, nel suo bel saggio su Eleonora d’Arborea, esaminò strumenti e snodi che nella storia arborense e sarda avevano spinto verso la transizione dal servaggio ad un nuovo status. In generale possiamo dire, sulla scorta di quanto scrive lo stesso Ortu, che nel Giudicato era presente un mondo di liberi di estensione non paragonabile a quella di altre province europee, Francia compresa, dove la servitù – studiata in particolare da Marc Bloch – venne sgominata definitivamente solo dalla fatidica rottura dell’Ottantanove (come ci hanno insegnato i grandi storici della Rivoluzione, da Albert Mathiez a Georges Lefebvre e ad altri). Per non parlare, s’intende, della pervivenza del servaggio nella Russia zarista.
Con la definitiva conquista catalano-aragonese, il feudalesimo diventerà un sistema più invasivo, pervasivo e pesante, in quanto strettamente connesso alle strutture socioeconomiche, ai commerci ed agli scambi ineguali imposti dallo Stato invasore.
Per concludere su questo punto, non si può che condividere l’impegnativa espressione adottata da Ortu che qualifica la raccolta di leggi portata a termine ed emanata da Eleonora come vera e propria Carta libertatis; e, si badi bene, Ortu non è certo storico propenso a più o meno facili mitizzazioni!
Nel 1421 il Parlamento di Alfonso V il Magnanimo estende la Carta a tutta l’isola, escluse le città. Secondo Ortu, si tratta di una bella rivincita della civiltà arborense. Lo stesso autore non esita a adottare il termine “epopea” nel ricostruire la resistenza contro la Corona, dalla quale emerge anche una precisa progettualità. Considerando il quadro demografico delineato da Carlo Livi, che fa ascendere la popolazione dell’isola fino a circa 430.000 abitanti (cifra sicuramente ridimensionata dalle contingenze belliche e dalla peste), Ortu conclude che il Giudicato d’Arborea poteva contare non solo su risorse demografiche, ma anche su cerealicoltura, olivicoltura, viticoltura, frutticoltura, pastorizia, sale, pesca e artigianato, onde reggere il tremendo urto contro la potenza catalana (si veda anche il recentissimo volume del giovane Andrea Garau, Mariano IV d’Arborea e la guerra nel Medioevo in Sardegna, prefazione di Lorenzo Tanzini, Condaghes, Cagliari, 2017, apparso nella collana “Su fraile de s’istòricu-L’officina dello storico”, diretta da chi scrive).
Storia della Sardegna e storia della penisola iberica. La storia del Giudicato d’Arborea ha termine nel 1409, con la battaglia di Sanluri, in cui il visconte Guglielmo di Narbona, pronipote di Beatrice d’Arborea, è sconfitto da Martino il Giovane. Viene creato il Marchesato di Oristano che va ai Cubello, imparentati con la famiglia giudicale. Il feudo passa quindi a Leonardo Alagon che però ben presto entra in urto col viceré Nicola Carroz. Echeggia ancora una volta il grido di “Arborea, Arborea!”. Vincitore nella battaglia di Uras (1470), Alagon è però definitivamente sconfitto nella piana di Macomer (1478) e muore nella prigione di Jàtiva.
Il libro di Ortu è tuttavia più ricco ed articolato di quanto emerge soprattutto da queste ultime considerazioni. Egli si sofferma in tante intense pagine non solo sulla nuova personalità giuridica del Regnum Sardiniae, sull’introduzione del diritto regio catalano-aragonese, ma anche sulla storia della penisola iberica tout-court, attrraversata, fra l’altro, dallo scontro fra Monarchia aragonese e quella castigliana e dalle epiche lotte dei contadini, i pagesos de remença. Ortu parla di heretats e di baroni catalani impegnati a vessare, di un intreccio e di una sovrapposizione perversa fra ruoli e figure dei feudatari e ministri regi catalano-aragonesi che nell’isola si abbandonano ad illeciti d’ogni sorta. Accuratissima la carta dei feudi che figura nel volume.
Importanti le pagine sul pattismo, sulla logica del do ut des che i Parlamenti iberici cercano di instaurare con i sovrani. Da questo pattismo, scrive Ortu, discende quello rurale che si stabilisce tra feudatari e comunità di villaggio e che si manifesterà lungo i secoli attraverso le contrattazioni suggellate dai Capitoli di grazia: testi che accompagnano le vicende dell’isola fino all’esplosione della rivolta antiassolutistica ed antifeudale del 1793-96, guidata da Giovanni Maria Angioy.
Infine, Ortu è forse l’unico studioso che, per mettere a punto un quadro d’insieme, ha affrontato non solo i nodi delle strutture socioeconomiche, le vicende politiche, diplomatiche e militari ma anche il manifestarsi dell’arte, della pittura, della scultura, dell’architettura catalana. Un’opera fondamentale, dunque, che le ricerche storiche ed il dibattito storiografico dovranno tenere nel debito conto per molto tempo.
By Mario Pudhu, 14 febbraio 2018 @ 11:27
Comente si faet a no apretziare istúdios e istudiosos deosi?! E una cosa depet dispràxere meda: chi no dhos connoscheus mancu candho dhue funt e mancari de meda puru.
E però un’àtera cosa nosi depet fàere bregúngia manna e arrennegu cun dispraxere ca est dannu mannu e disastru antropológicu, ca depeus cambiare!!!
Agiummai de unu séculu e mesu teneus un’iscola, eja, ma istràngia e assurda chi (no solu po su chi depo nàrrere innoghe) coltivat e ingrassat s’ignoràntzia de is Sardos (e fintzes de is Italianos etotu po su chi pertocat a noso) a su puntu chi no ischeus mancu chie seus, in manos de chie seus e poita e ne inue portaus is peis.
E si pentzo a su chi depeus fàere chentza ibertare su guvernu de su buginu e ne su guvernu chi nosi serbit ma no teneus po èssere gente, ca intanti sa responsabbilidade de su chi faeus noso (e fintzes de su chi no faeus ma podeus fàere) dha portaus noso e no su buginu, is docentes sardos de dónnia livellu de istrutzione depent giare assumancus unu mínimu de informatzione e formatzione istórica a is ischentes.
Problema: is docentes (chi funt ‘fígios’ de cust’iscola iscominigada) comente iant a dèpere fàere po tènnere issos etotu, innanti, sa cultura e formatzione istórica chi no ant pótziu connòschere in cust’iscola istràngia po dha pòdere ispartzire puru cun is ischentes issoro? Podeus pentzare chi dhu potzant fàere ligendho una bibbioteca de testos universitàrios, ispecialísticos, deasi aprufundhios chi… ndhe bogant fintzes su petróliu ma chi iant a rechèdere una vida po si fàere un’idea crara e distinta, iscientificamente giusta ma fintzes politicamente giusta (si unu puntu de vista dhue podet àere giustu postu chi est s’istória nosta e no cussa de is buginus)?
Pregonta. Istudiaos mannos e bonos, candho est chi bosi poneis a fàere unu manuale de istória generale de sa Sardigna e de is Sardos chi potzat permítere un’informatzione essentziale e fintzes èssere unu materiale a dispositzione de is docentes po fàere is letziones po is ischentes issoro?
Sigheus a coltivare totus s’ignoràntzia ibertandho unu guvernu chi pòngiat manu a cust’iscola maca po ndhe fàere su chi serbit a is Sardos?