Quando è finita la prima autonomia della Sardegna? di Salvatore Cubeddu

Nel 1978-1979.  Ma contemporaneamente nascono anche le idee  per un nuovo futuro: la nuova autonomia, la lingua e l’identità etnica e storica della Nazione Sarda, il nuovo modello di sviluppo industriale, la riscrittura dello Statuto, il Senato delle Regioni, il diritto di rappresentanza dei Sardi a Bruxelles, l’Assemblea Costituente del Popolo sardo.

Avvertenza: il saggio che segue sostituisce l’EDITORIALE  della DOMENICA, DELLA FONDAZIONE SARDINIA

SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La celebrazione del 30° dell’Autonomia sarda: 28 febbraio 1978, 1 marzo 1978. 3. Gli interventi. 4. La discriminante della lingua sarda nei movimenti della sinistra in Sardegna. 5. I primi segnali della ripresa del terzo sardismo: le proposte per la riforma della legge elettorale del Parlamento europeo e del Senato della Repubblica Italiana. 6. La fine dell’Intesa autonomistica. 7. “La piattaforma Sardegna è fallita, con i suoi mille miliardi. Dobbiamo allora cambiare molte cose: anzitutto il nome….” (Salvatore Nioi segret. generale della Cgil sarda”, 20 dicembre 1979). La fine della Vertenza Sardegna: Cgil Cils Uil, Flm sarda, la Cisl di Sassari. 8. I presupposti e le conseguenze necessarie per una nuova autonomia: la regionalizzazione dei partiti in Sardegna e l’Assemblea Costituente del Popolo Sardo. 9. Conclusioni provvisorie.

 

  1. 1. Premessa:

La visita del presidente Sergio Mattarella per la celebrazione del 70° dell’Autonomia sarda coincide con gli ultimi giorni di una difficile e ‘strana’ campagna elettorale per il rinnovo del parlamento italiano. Il rilievo che la dirigenza regionale ha impresso a questo anniversario trova nel passato un solo precedente, quello di quarant’anni orsono, per il 30°, nel 1978. Dopo, le successive scansioni decennali, persino il 50°, videro commemorazioni modeste e rivelavano un disagio che va rilevato, senza avere lo spazio per spiegarle.

Il 1978 si apre in Sardegna con una tempesta appena annunciata, la crisi della petrolchimica e delle fibre, cioè dell’unica grande novità economica intrapresa in Sardegna nel dopoguerra, a Cagliari, P. Torres, Ottana. Dello tzunami per il modernissimo settore industriale parlano i numeri della crisi: il primo impatto interessò il licenziamento e la successiva messa in cassa integrazione di 11.500 lavoratori degli appalti distribuiti in 137 imprese, di cui 5.000 metalmeccanici. Poi arriveranno i dipendenti delle fabbriche, che andranno progressivamente a fermarsi.

Nel mentre, e contemporaneamente, continuavano a cedere sia il settore minerario-metallurgico (Sulcis-Iglesiente-Guspinese) che quello tessile (Villacidro, Macomer, Bitti), proseguiva l’esodo dalle campagne infestate di banditismo e sequestri di persona, l’emigrazione non si fermava. Di colpo, le recenti battaglie sindacali e popolari, che avevano ottenuto il finanziamento di una nuova seconda legge di rinascita (la l. 268), verificavano una difficile credibilità. Le città ed i paesi della Sardegna, sulle quali insistevano le zone industriali, avrebbero conosciuto per i successivi cinque anni il più grande ciclo di lotte operaie della storia sarda. Cagliari e Sassari conobbero la classe operaia. Insieme ai perduranti effetti della contestazione studentesca formarono un magma di pressione verso le istituzioni che oggi non è facile a descrivere, tanto ce ne siamo allontanati.

I dieci anni che vanno dal 1974 (gennaio: la prima grande  manifestazione a Cagliari per la Vertenza Sardegna, con il comizio di L. Lama) al 1984 (insediamento della giunta regionale sardista e di sinistra di Mario Melis) rappresentano, visti da oggi, un tempo cruciale della storia della Sardegna post-bellica.

Di parte di quella vicenda mi ritrovai testimone e in qualche modo protagonista, componente della segreteria del sindacato unitario dei metalmeccanici (FLM) a Cagliari. Gradualmente ma inesorabilmente, nel corso degli anni 1978 e 1979, la crisi e l’esigenza di costruire un diverso e nuovo sistema industriale costrinse il  nostro sindacato a riflettere sul fatto che il tema economico conteneva essenziali snodi politici ed istituzionali e domandava “una Regione nuova”, una nuova autonomia.

La mia consapevolezza, che nella relazione dei primi giorni del gennaio 1978 veniva descrivendo una Sardegna “ …  posta in condizioni di drammaticità forse rare da ritrovare nella sua storia che non siano le invasioni, le guerre, le carestie, le pesti”, arrivava al 30 ottobre 1978 giudicando che, “… in un quadro siffatto, la classe politica regionale … rischia di esaurire una sua autonoma funzione di efficacia nei processi di cambiamento profondo dell’Isola … e   rischia di limitarsi a un’autoproclamazione di volontà di governare e di rappresentare l’autonomia dell’Isola, ritrovandosi però, nella realtà, a svolgere il ruolo di chi amministra dei beni collettivi (le nuove risorse previste tramite il 2° finanziamento del Piano di Rinascita, la L. 268) non già per le profonde trasformazioni cui sono destinati, ma per operare da cuscinetto, spesso attraverso erogazioni assistenziali,  e per contraddizioni che trovano la loro origine e la loro soluzione in altri centri di potere …”.

In quel momento parlavo di ‘rischio’, ma ero prudente. In realtà ciò che mi circondava consentiva osservazioni e prese d’atto ben più gravi e complesse. Torniamo indietro di alcuni mesi.

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  1. 1. La celebrazione del 30° dell’Autonomia sarda: 28 febbraio 1978, 1 marzo 1978.

Le agenzie di stampa ed i giornali del 1977 ci rimandano l’attivismo entusiastico del Presidente del Consiglio regionale Andrea Raggio nel promuovere e seguire i preparativi delle celebrazioni del trentesimo anniversario dello Statuto sardo, approvato dall’Assemblea costituente italiana il 28 febbraio 1948. Raggio era il primo comunista a presiedere l’Assemblea sarda e quel ruolo lo confermava quale principale interlocutore di Pietro Soddu, l’altro Presidente, della Giunta/Governo regionale. DC e PCI erano i pilastri dell’Intesa autonomistica, Soddu e Raggio ne erano i leader riconosciuti. Presidenti, appunto, delle due massime istituzioni dell’Autonomia sarda, che celebrava e verificava se stessa.

La commissione preparatoria era affollata, ma solo di rappresentanti espressi dai gruppi presenti in Consiglio regionale nel corso della legislatura, la settima, quella iniziata nel 1974 e destinata a venire rinnovata nella primavera dell’anno seguente. C’era stato un solo problema: il Partito Sardo d’Azione, al culmine della sua crisi di presenza istituzionale, non aveva rappresentanti nel parlamento sardo dopo la morte di Giovanni Battista (Titino) Melis e l’abbandono (in viaggio verso il Pri) del sostituto Bruno Fadda. Il PSd’Az è l’artefice storico dell’Autonomia sarda, ma la sua richiesta esplicita di essere parte delle celebrazioni viene rifiutata. Un’umiliazione. Eppure Mario Melis appoggiava le sinistre al Senato della Repubblica, eletto (nel 1976) nelle liste del Pci e poi collocatosi nel gruppo misto. Ma a Cagliari il segretario era Michele Columbu ed è a lui che era stato detto di no. Columbu: il marciatore della metà dei primi anni sessanta. Columbu: l’indipendentista degli anni settanta. Columbu: punto di riferimento dei movimenti che stimolavano il partito sardo nelle questioni della lingua sarda e del sardismo extraparlamentare. Ma chi e cosa rappresentavano ora un Columbu  e un partito sardo che avevano  perso persino il Nuorese, mentre proprio da Nuoro arrivavano gli inflessibili dictat dei giovani dirigenti della federazione comunista contro la lingua sarda? Il Pci, tra ‘sputtanamenti’ e lusinghe, sembrava aver definitivamente affondato il legame con i Sardi del già grande Partito Sardo d’Azione. Ora vigeva il suo autonomismo, i comunisti ‘egemonizzavano’ le ‘masse popolari’ organizzate nella federazione sindacale unitaria e, soprattutto, andavano consolidando il controllo della scuola pubblica dove, con la progressiva crisi dei gruppi extraparlamentari, i giovani che uscivano dalle facoltà universitarie umanistiche avevano seguito le lezioni dei suoi ‘professori’.

Il 28 febbraio e l’1 marzo 1978 gli interventi sono distribuiti in modo che all’apertura del decano del Consiglio regionale, il democristiano Giuseppe Masia, corrispondano le conclusioni di Andrea Raggio, il quale verrà preceduto dal discorso di Pietro Soddu, al quale corrisponde, nel secondo giorno della commemorazione, l’intervento del comunista Franceschino Orrù, presidente della commissione agricoltura, e di Pinuccio Serra, vicepresidente dell’Assemblea. In mezzo parlano le figure più autorevoli del Psi (Bustianu Dessanay), del Psdi (Carlo Biggio), dell’ex sardista ormai quasi in conto Pri (Bruno Fadda), ed infine, per l’opposizione, il liberale Tetano Medde e i due missini, Efisio Lippi Serra e Gianfranco Anedda.

Non so se, per un’occasione così solenne, fosse stato promossa la presenza di un pubblico. Ma non risulta. Il sindacato non era presente. In coincidenza della giornata inaugurale era stato convocato l’Esecutivo regionale della Cisl e bisogna, quindi, dedurne che non erano state invitate  neanche le segreterie della federazione unitaria Cgil Cisl Uil.

  1. 2. Gli interventi

I resoconti conciliari restituiscono al lettore di oggi una situazione che stimola la risposta alle seguenti tre domande: la prima, sulla consapevolezza da parte dei componenti dell’Assemblea che la crisi dell’industria e della Rinascita avrebbe avuto quale conseguenza la crisi dell’Autonomia, che in tal modo rivelava una profondità ben superiore rispetto a semplici inadeguatezze da colmare o parti ancora da praticare; la seconda: il legame delle presenti istituzioni sarde con le battaglie degli uomini che le avevano conquistate, cioè il legame con le sue origini, cioè con il movimento sardista; la terza: le prospettive future dell’Autonomia della Sardegna.

Sul primo punto: il lettore di oggi si stupisce per l’indifferenza degli intervenuti all’ascolto delle voci che arrivavano dalle strade di Cagliari invase settimanalmente dalle manifestazioni operaie, agli scarsi esiti delle drammatiche trattative sindacali, ai deboli risultati degli stessi interventi della Giunta nei confronti del Governo di Roma. Non si legge in nessuno dei discorsi, neanche in quelli dei due Presidenti, il rombo del crollo delle istituzioni autonomistiche che invece noi sentivamo arrivare. Nei loro interventi non se ne parla, se non come accenni ad una generica crisi economica vista solo come l’aspetto sardo della crisi economica italiana, con i connotati e gli effetti della sua dimensione internazionale. Come se Nino Rovelli,  in galera e poi agli arresti domiciliari, fosse stato in Sardegna solo l’imprenditore che produce PVC e buste paga e non anche il proprietario dei due giornali quotidiani (Tuttoquotidiano aveva iniziato la sua definitiva china discendente), del Cagliari calcio, della squadra di pallacanestro Salcim Brill e fosse anche … finanziatore di tanti politici e correnti partitiche sui quali la storia (e, allora, la magistratura), purtroppo, tende a sorvolare.

Le parole sardismo – movimento dei combattenti – partito sardo – Lussu/Bellieni non vengono neanche adombrate negli interventi di nessuno (neppure dall’intervento nazionalitario di Bustiano Dessanay). Come se l’Intesa autonomistica fosse il nuovo verbo dell’autonomismo sardo, essendo ormai trascorso ed inesistente quello di un PSd’Az né invitato e neanche nominato. Evidentemente Soddu e Raggio si ritengono promotori di un nuovo percorso, quello della stagione da loro iniziata e presieduta, che chiudeva una tappa di trent’anni e che pensavano fosse destinata a durare nel tempo. Chiedono l’atteggiamento critico per il passato, ma i cenni in tal senso non devono guastare i presenti loro rapporti. In qualche modo innalzano l’Intesa autonomistica ed i suoi primi indirizzi legislativi a ipostasi di un rinnovamento totale delle sorti dell’Isola. Come per tanti innovatori, ciò che è stato prima di loro semplicemente non è. Anche se ciò che avevano iniziato andava franando, a partire dall’Intesa tra i partiti al governo della Regione. E le non lontane elezioni regionali, con i suoi dubbi esiti, facevano mettere non proprio in primo piano la grandezza dell’Autonomia, che intanto si dichiarava di sostenere al di sopra di tutto.

Invece, lo specifico della crisi industriale sarda era l’inizio del tracollo di un metodo di potere e dei suoi fragilissimi legami.  DC e PCI, alla fine di quel febbraio 1978, non potevano dire niente di diverso da quello che erano andati dicendo e facendo negli ultimi cinque anni, quando speravano che l’Intesa avrebbe portato ad un governo comune della massima istituzione sarda da parte dei due grandi partiti e, magari in forma sperimentale (in una regione marginale per l’Italia,  come la Sardegna), le sarebbe stato consentito uno svolgimento duraturo. Eppure, osservandoci dentro, a quei due partiti, era all’interno della DC che si davano maggiori margini di libertà sul terreno autonomistico. Proprio quell’ambito che il Pci riteneva fosse ormai ‘cosa sua’, per l’apparente inesistenza politica del partito sardo e per l’evidente crisi del potere democristiano anche nell’Isola. Infatti, non a caso è il discorso del consigliere democristiano Giuseppe Masia che riceve dai media la luce dei commenti del giorno dopo, con il suo attacco in una sonora ed elegante lingua sardo-logudorese:

“Onorevoles Collegas. Nesciuna occasione tiat essere, pìus de custa de hoe, propizia a unu discursu in limba sarda; hoe chi si solennizat a trint ‘annos de distanzia unu avvenimentu veramente istoricu pro sa Sardigna: sa conquista dae parte de su populu sardu de s’autonomia, sa cale, pro cantu potat esser considerada una forma zertamente limitada de autoguvernu, rappresentat sempre unu passu importante in sas vicendas pius tristes che felizes de s’isula nostra. Solu sa limba chi hamos faeddadu essende pizzinnos e continuamos a faeddare cun sos mannos, chi hamos impittadu in sas pregadorias e in sos cantigos, tiat poter esprimere in sa pienesa de sos sentimentos su chi passat in custu momentu in sa mente e in su coro de sos homines e de sas feminas, de sos giovanos e de sos bezzos, de sos trabagliadores e de sos intellettuales de custa terra, gai disizosa de naschere a nova vida et gai ancora costrinta a vivere de isperanzias chi istentant a diventare realtades”.

Non parrà strano: saranno queste parole a lasciare il ricordo più richiamato di quell’appuntamento del 30°, l’attacco del discorso del decano democristiano del Consiglio regionale.

Non a caso, invece, il giorno dopo, è proprio questo il punctum dolens dell’attacco dell’oratore comunista, Franceschino Orrù: “… Il consiglio deve farsi l’autocritica per non aver capito che se le lettere di licenziamento e di messa in cassa integrazione fossero state scritte in italiano e in sardo, e così le bollette della luce e del telefono, o quelle – fresche fresche,  dei contributi unificati – beh … la cosa sarebbe stata più dolce, forse più rivoluzionaria. Purtroppo il consiglio regionale ha pensato che vi fosse ben altro di cui occuparsi. Ma il problema è politico, dice Giuseppe Masia, ed ha ragione. Dico che ha ragione, per intuito dico la verità, perché confesso che parole come “glottologia”, e altre mi sconcertano. Ma mi sconcerta anche l’idea di questi documenti “compilati in due “lingue”. Come farei a richiedere un attestato, un documento al comune di Alghero? E non tollererei assolutamente che ad essere insegnato nelle scuole non fosse il mio dialetto, che è il più bello, il più dolce, il più ricco. E non accetterei, perché mi parrebbe un’imposizione intollerabile che a mio nipote, quando ne avessi e con lui mi ritrovassi a Borore, si insegnasse il dialetto di Nino Carrus, che è brutto, suona male. Io butto, per ora la cosa in scherzo, ma forse non dovrei fare nemmeno un grande sforzo per diventar padrone di qualche argomento che fa apparire assurda la proposta del bilinguismo….”.

In quei mesi sul bilinguismo infuriava la tempesta. Il bilinguismo era il tavolo su cui passava la nuova discussione, dalla cultura all’istituzione, ed era una sfida che toccava l’egemonia del PCI nella scuola, portava allo scontro la cultura ‘ufficiale’ di origine esterna e la cultura popolare parlata in lingua sarda. Nazione Sarda era uscita con il suo primo numero qualche mese prima. La componevano intellettuali di tutte le provenienze (con Antonello Satta: Eliseo Spiga, il prof. Giovanni Lilliu, Elisa Spanu Nivola, Gianfranco Contu, ne erano gli esponenti più conosciuti ed autorevoli) ma nessuno che al momento partecipasse della tessera comunista. Antonello Satta ne era il direttore ed il suo referente politico – peraltro anche suo parente – in Consiglio regionale era Bustiano Dessanay. Infatti, l’anziano dirigente socialista salta il problema se il precipitare della petrolchimica, mettendo in crisi la rinascita, faccia precipitare pure l’Autonomia. I fondamenti dell’Autonomia per lui sono altri, indipendenti da fattori economici di breve o medio-lungo termine. L’Autonomia che trova il suo fondamento nella Nazione sarda è eterna. Prosegue:

“La questione sarda, intesa come esigenza di autogoverno, è divenuta questione nazionale con l’entrata della Sardegna nella modernità, in occasione del triennio rivoluzionario proseguito con l’azione di Giomaria Angioy ed il federalismo di Giovanni Battista Tuveri. L’autonomia realizzata a partire dal secondo dopoguerra … non è riuscita a bloccare il centralismo statale italiano e, conseguentemente, la politica di tipo coloniale … con l’aggravante che ora queste operazioni venivano fatte con la complicità dell’autonomia”. Dessanay continua. Svolge il tema storico ma è interessato alla situazione del presente ed alle prospettive del futuro: “  …

…. A un certo punto sembrò che una svolta degli indirizzi tradizionali si stesse per attuare con il Piano di Rinascita. In realtà possiamo oggi constatare che proprio il Piano di Rinascita è valso ad accentuare il processo di espropriazione e di incorporazione storica. Gli schemi che lo sostenevano erano tutti di tipo metropolitano, tanto è vero che a beneficiare degli stanziamenti concessi dal governo centrale furono soprattutto forze economiche esterne alla Sardegna. Si creò allora l’illusione di una industrializzazione che avrebbe portato l’isola agli stessi livelli economici e culturali delle cosiddette regioni più progredite. Tutto questo non vuole dire che in questi trent’anni non si sia verificato in Sardegna nulla di positivo. Una ricerca accurata ed obiettiva potrebbe allineare importanti episodi di progresso sociale. Quel che non è facile dire è se il positivo che si può rintracciare sia in tutto o in parte da attribuire alla presenza dell’istituto autonomistico o se si possa affermare che esso si sarebbe comunque verificato”.

“Durante la presente legislatura si è creduto di poter compensare il fallimento del primo piano di rinascita, con il secondo stanziamento della 268, che dovrebbe portare ad invertire veramente la rotta mediante la utilizzazione delle risorse locali, modificando le strutture arcaiche della nostra economia attraverso la riforma agro-pastorale e ponendo in essere una industrializzazione coerente con la utilizzazione appunto delle nostre risorse. Ora, tutto questo non può avvenire se non attraverso una riforma radicale della regione; tutto questo prevede, cioè, necessariamente la nascita di una diversa autonomia. Ma a che punto siamo nella costituzione di questa seconda autonomia? Purtroppo le apparenze non sono ancora molto incoraggianti. A me viene il sospetto che se non riusciamo a delineare quale debba essere in avvenire l’autonomia è per una semplicissima ragione: perché non riusciamo a definire la Sardegna, non riusciamo a dire compiutamente di che cosa è fatta e come è fatta la Sardegna. E mi viene anche il sospetto che talune forze politiche vogliano assolutamente evitare di ricercare questa definizione nel timore di scontrarsi con qualcosa di atipico, qualcosa che si teme, altrimenti, ad esempio, non si spiegherebbero tante ambiguità sulla questione della lingua sarda”.

“Non si tratta ora di condurre complicate indagini storiche. I nodi da sciogliere riguardano, tutti, la contemporaneità e l’immediato futuro della nostra isola. Neppure si tratta di condurre complesse indagini giuridiche. La discussione che ci deve impegnare è soprattutto culturale e politica”.

“La classe politica sarda rivendica oggi una autonomia veramente “speciale” e lamenta, anzi, che la specialità della autonomia sarda si sia dimostrata ben povera cosa a confronto dei poteri conferiti alle regioni a statuto ordinario. Ma questa rivendicazione di una autonomia veramente speciale non può trovare giustificazioni meramente giuridiche. L’autonomia speciale trae le sue ragioni dalla specialità economica, sociale e culturale della nostra isola. Ossia dalla identità del popolo sardo”.

“Ed allora bisogna dire che trent’anni di vita “ordinaria” della Regione Sarda sono valsi unicamente a tentare una integrazione della Sardegna nell’Italia metropolitana. Tutto ciò che era specificamente sardo veniva considerato provinciale, arretrato, reazionario. Il “progresso” veniva concepito entro gli schemi standard del “milanesismo”, ora la via dell’integrazione s’è dimostrata ostruita. Ma trent’anni non sono passati invano e la elaborazione della autonomia nuova, anche per via delle acculturazioni subite o ereditate, tarda a venire. Essa verrà soltanto quando i sardi, con la piena coscienza della propria identità, si daranno poteri coerenti con i contenuti originali della nostra autonomia, quelli di ordine economico, quelli di ordine sociale e quelli di ordine culturale. Senza tali poteri l’autonomia continuerà ad essere una struttura di mediazione di interessi esterni”.

  1. La discriminante della lingua sarda nei movimenti della sinistra in Sardegna.

Dessanay conclude drastico. Il suo intervento rappresentava e riassumeva – e qui ne abbiamo esposto solo la parte che ci è parsa centrale – quanto di più innovativo offriva l’intellettualità e la militanza politica isolana. Aveva messo il dito nella piaga, ponendo  la questione della lingua quale tema e sintomo della presente questione sarda, e indicava nella non conoscenza della realtà dell’Isola un vero atto di disconoscimento, che aveva precise responsabilità nell’impedire la nascita e la fioritura di una seconda autonomia. Il consigliere socialista non faceva i nomi, ma tutti sapevano e non ce n’era bisogno: Franceschino Orrù ed Andrea Raggio avevano parlato chiaro. Ed il Pci era deciso a passare all’azione, tanto più che, nel partito ancor più che nelle istituzioni, iniziavano a prevalere i nemici dell’Intesa, che poi erano coloro che la pensavano differentemente da Raggio.

Venti giorni dopo, nel pieno del generale turbamento connesso al rapimento di Aldo Moro, avvenuto tre giorni innanzi, inizia in casa Pci una rinnovata e più dura fase di attacco alla lingua sarda: “il Pci ha nuovamente preso posizione contro la proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione del bilinguismo in Sardegna. Il giudizio negativo e la opposizione all’iniziativa sono stati espressi dalla commissione regionale scuola e cultura, riunitasi con la segreteria regionale per esaminare le iniziative del partito per un rilancio della battaglia ideale e culturale, che, nel 30° anniversario della istituzione della Regione, dia nuovo vigore alla battaglia per l’autonomia e per il superamento della crisi. La commissione culturale, nel decidere una serie di iniziative sui problemi dell’autonomia e della cultura, ha confermato – è detto in un comunicato – il completo dissenso del partito nei confronti di una iniziativa, come quella concernente la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che si propone di introdurre in Sardegna un regime giuridico di bilinguismo…”. E’ l’incipit di un lungo documento  -  che apre il convegno su tema “autonomia, cultura, lingua” deciso in quel marzo 1978 – e che prepara una battaglia politica che avrà come conseguenza la conferma dello schierarsi della sinistra istituzionale in Sardegna contro la lingua e la cultura sarda.

Ma altri si muovono in direzione opposta. Il giorno del rapimento di Moro, il 16 marzo,  l’Agenzia Italia informa che  “gli atti del seminario regionale di Democrazia Proletaria Sarda svoltosi a Tonara (Nuoro) sulla “questione sarda” sono stati pubblicati in un volume edito dalla Società Poligrafica Sarda. Dopo una introduzione in lingua sarda, vengono pubblicate le relazioni al seminario svolte da Umberto Allegretti (l’autonomia regionale sarda e la questione istituzionale), Federico Francioni (per una saldatura tra obiettivi rivendicativi e di sviluppo e tematiche di autogoverno), Francesco Casula (la sinistra rivoluzionaria e anticolonialista rispetto alla questione sarda), da Franco Meloni (autonomie di base: una riflessione a partire da alcune forme di democrazia diretta realizzate sul territorio), Pino Ferraris (crisi e ristrutturazione capitalistica e implicazioni nelle aree periferiche e nella situazione meridionale e sarda) e da Licia Lisei (subalternità ed egemonia: lingua e dialetto). Il volume è completato da una scheda di Luciano Selis (gli effetti socio-economici dell’insediamento Sir nell’area di Porto Torres), dagli interventi di Sergio Casadei, Manlio Fadda e Luciano Vargiu e dalla relazione introduttiva svolta da Giorgio Cavallo al convegno internazionale “minoranze nazionalità lotta di classe in Europa oggi”, svoltosi a Cagliari nei giorni scorsi”. Questi atti ebbero una buona diffusione, specie tra i militanti..

Poco più di un anno dopo, allo scadere della legislatura, con tempismo straordinario, arriva in libreria il volume dal titolo “Autonomia, programmazione e meridionalismo” contenente i fatti, i documenti e le esperienze della Sardegna dal 1975 al 1979″ nella settima legislatura. Il libro, che consta di 551 pagine, è diviso in quattro parti: la prima ricostruisce i fatti del quinquennio; la seconda raccoglie i documenti politici; la terza ricostruisce gli eventi che hanno caratterizzato la vita della Regione nel quinquennio e la quarta, infine, è dedicata ad “illustrare l’attività del consiglio regionale chiamato in questa legislatura a compiti di proposizione, di promozione e di controllo che ne hanno esaltato il ruolo nel funzionamento dell’istituto autonomistico” . Il libro è stato realizzato da un gruppo di lavoro del centro “Paolo Dettori”. L’operazione leggeva il presente e preparava la narrazione storica. Pietro Soddu arrivava puntuale nel presentare la propria ‘narrazione’.

Era, però, trascorso più di un anno, tra i festeggiamenti del 30° dell’Autonomia, con il lascito di ostracismo comunista verso la lingua e la cultura sarda, e l’uscita del libro di Soddu, che racchiudeva il primo bilancio di cinque anni di governo dell’intesa autonomistica ormai al tramonto. Non era solo questo accordo tra i partiti che andava a slittare verso scenari sconosciuti,  dalla collaborazione ad un nuovo braccio di ferro tra i democristiani ed i comunisti. La Dc che va alle elezioni del 1979 dimostra di averci guadagnato dall’intesa con il Pci ed esprime soddisfazione per l’esito elettorale, insieme al Psi e, in Sardegna, al PSd’Az, che rientra in Consiglio regionale con tre consiglieri.

 

5. I primi segnali della ripresa del ‘terzo sardismo’: le proposte per la riforma della legge elettorale del Parlamento europeo e del Senato della Repubblica Italiana.

 

L’aria è cambiata, le elezioni regionali premiano un sardismo diventato entusiasticamente indipendentista. Operai, intellettuali, lavoratori del terziario si muovono in quella direzione ed incrociano il vecchio partito sardo, evidentemente ritenuto un buon contenitore delle nuove aspirazioni.

Il primo ordine del giorno (del 26 ottobre 1979) presentato in Consiglio regionale dai suoi tre rappresentanti (Mario Melis, Nino Piretta e Carlo Sanna) ha ad oggetto la riforma della legge elettorale del Parlamento europeo e del Senato della Repubblica Italiana. Essi intendono impegnare la Giunta regionale “ad assumere adeguate iniziative per promuovere con le altre regioni italiane l’elaborazione di riforme legislative che garantiscano a queste adeguata rappresentanza nel Parlamento europeo e costituiscano il Senato della Repubblica in Camera pariteticamente rappresentativa delle Regioni”.

 

  1. 6. La fine dell’Intesa autonomistica

 

Abbiamo già visto gli effetti sul movimento sindacale dell’obbligata opposizione del Pci, il disorientamento della dirigenza di Cgil Cisl Uil malamente coperto sotto le formule organizzative del decentramento territoriale e, prevedibilmente dopo ‘sa marcia po su traballu’, il richiamo a uscire dall’angolo e a riprendere in mano una vertenza Sardegna che riesca (se ci si riesce!) nel 1980 a contenere anche il programma della Flm.

Entrando nei particolari: agli inizi del 1979 (28 marzo) era stata la conferenza d’organizzazione della Cgil della Sardegna a segnalare nella relazione che “ …. appare opportuna e necessaria una riflessione critica sull’esercizio del confronto con le controparti politiche, in specie con la Regione, sui modi con cui è stato condotto per il passato, sulle proposte per il futuro e che marchino con chiarezza il ruolo delle singole parti e le loro responsabilità”. Il segnale era arrivato dal Pci quando, il 31 gennaio 1979 – ed era la prima volta dal maggio 1976 – si era rifiutato di firmare un documento unitario al termine del lungo dibattito istituzionale sulla Sir-Rumianca, durato due settimane. La stessa logica aveva mosso l’on. Andrea Raggio, ancora presidente del Consiglio, a partecipare in prima fila al corteo dello sciopero generale del 25 gennaio, guidando una trentina di sindaci con fascia tricolore provenienti da diversi centri dell’isola, numerosi parlamentari e consiglieri regionali, oltre a presidenti delle amministrazioni provinciali e dei comprensori. Il riposizionamento del partito prosegue nella lunghissima agonia dell’ultima giunta Soddu e si definisce con la presidenza di Alessandro Ghinami.

Intanto,  Umberto Cardia è impegnato, con più frequenza e sicurezza all’esterno del Pci, a presentare la sua visione di un moderno etnicismo che, da deputato europeo a Bruxelles, andava rilevando nell’esperienza europea (Francia, Spagna, Inghilterrra) e, attraverso le letture dei primi sociologi anglosassoni del revival etnico nei Paesi dell’Occidente, riconnettendosi a quanto il dirigente sardista  Antonio Simon Mossa aveva già descritto nella metà degli anni ’60 e ‘predicato’ per la Sardegna. Anche Cardia rileva l’involuzione dell’istituto regionale in Italia ed, in particolare, della specialità della Sardegna, non solo per i riflessi della perifericità della crisi e per le difficoltà politiche connesse alla dipendenza ‘nazionale’ dei partiti, ma di un male più profondo, che erode le basi stesse su cui poggiano le istituzioni della nostra autonomia. Processi che mettono in crisi l’autonomia così come ci è stata tramandata: sotto il profilo dell’efficacia, della capacità di dominare i fenomeni della vita e dello sviluppo nelle dimensioni odierne e quello delle sue motivazioni politico-culturali più profonde. Le iniziative del trentennale avrebbero dovuto cogliere la radice di tale crisi di valori. E’ stato in parte un fallimento. Bisogna, però, portare alle sue conclusioni quel dibattito, anche a costo di “costringere noi tutti, i partiti anzitutto, e le forze sociali e quelle culturali, a cambiamenti radicali di orientamenti, di azione e di comportamenti , e perfino di moduli organizzativi e di strutture”. Raggio è sistemato. Ma l’intervento sul quotidiano cagliaritano (7 settembre 1979) si conclude con il canonico attacco al separatismo indipendentistico. Umberto Cardia era pur sempre un dirigente comunista  del Pci!

 

  1. 7. “La piattaforma Sardegna è fallita, con i suoi mille miliardi. Dobbiamo allora cambiare molte cose: anzitutto il nome…. (Salvatore Nioi segret. Genrale della Cgil sarda). La fine della Vertenza Sardegna: Cgil Cils Uil, Flm sarda, Cisl di Sassari

 

La settimana successiva (13 settembre 1979) siamo noi – gli operai metalmeccanici ed i delegati sindacali insieme alla segreteria della Flm – a distribuire nelle strade e nelle piazze di Cagliari ‘l’appello alla responsabilità’ ai consiglieri regionali. Ancora, con convinzione e  assumendocene tutta la responsabilità,

“ … riteniamo che nei nostri obiettivi, nelle speranze, nella nostra lotta risiedano quegli elementi di un nuovo autogoverno del popolo sardo, nei suoi riflessi economici e sociali (e le conseguenze istituzionali), che le attuali e precedenti Giunte non sono riuscite ad assicurare all’Isola.

“Siamo convinti che ciò che noi chiediamo sia parte integrale delle aspirazioni delle popolazioni che abitano le nostre città e le nostre campagne. Che le nostre vertenze si collochino nel solco delle lotte dei contadini e degli operai del primo dopoguerra e delle storiche battaglie dei compagni minatori e braccianti degli anni ’50.

“Come allora la crisi dell’Isola è gravissima, generale e cruciale nelle conseguenze sociali e politiche.

“Il popolo Sardo è chiamato a decidere quello che vuole essere, di che cosa e come vuole vivere, nei prossimi anni.

“Perché la crisi economica è completa e gran parte dell’economia – le imprese e parte dei lavoratori – viene sussidiata dallo Stato perché non esplodano conflitti collettivi e turbativi del potere economico, sociale e politico.

“Perché i rapporti con lo Stato denunciano un completa subalternità di larga parte della nostra classe politica di governo agli interessi, alle logiche e ai costumi di quella nazionale.

“Perché i rapporti tra chi governa ed ha governato la Sardegna e il popolo sardo subiscono un drammatico deterioramento e cresce la sfiducia dei Sardi nella propria Autonomia” ….  .

Ed era soprattutto all’interno della Cisl, dove da molti mesi si lavorava alle tesi della conferenza di organizzazione,  che qualcosa andava modificandosi, forse per effetto della riflessione autonomistica dei morotei della Dc, Soddu in testa,  ma anche per la simpatia che percorreva uomini e categorie nel considerare il dinamismo dei metalmeccanici della Cisl.

E c’era la Cisl di Sassari, con Pasquino Porcu segretario generale del più forte sindacato della provincia,  della quale parlo ora poiché il diario non mi ha offerto le occasioni opportune per trattenermi su una situazione decisamente interessante nel panorama sindacale sardo.

Pasquino Porcu aveva affrontato i problemi apertisi con la crisi della Sir di Rovelli individuando le cause e le soluzioni con il termine-messaggio della “sardizzazione”: l’imprenditore milanese aveva preso i soldi pubblici destinati ai Sardi e quei finanziamenti ai Sardi dovevano venire restituiti. Pasquino non era né un teorico né un semplice idealista, perché la concretezza gli arrivava dalla gavetta fatta al lavoro manuale fin da giovane. Ma era passionale e generoso e, soprattutto, intellettualmente onesto. Per una vita aveva viaggiato da Abbasanta, il suo paese, a Cagliari; poi, rientrato in Sardegna dopo anni di sindacato in Continente, spessissimo ne percorreva la superstrada, da Olbia a Cagliari, quindi da Sassari a Cagliari. Come tutti coloro che attraversano la Sardegna per motivi di lavoro, si è messo pure lui l’interrogativo del perché, con tutto lo spazio che abbiamo nell’Isola, siamo andati a finire a concentrare le principali istituzioni e gli annessi uffici in quell’estremo e meridionale promontorio che si affaccia nel bel Golfo  degli Angeli. Tra noi non abbiamo mai avuto occasione di parlarne, perché gli avrei spiegato che la cosa era iniziata tanto tempo prima e la prima responsabilità andava addebitata addirittura a Giulio Cesare, il quale, dopo aver conquistato e diviso la “Gallia in partes tres”, aveva pure – mentre si riposava a Cagliari, nel 46 a. C. dopo una delle battaglie vinte contro Pompeo – spostato il capoluogo della Sardegna da Nora alla più fedele (a lui) Cagliari. Visto che c’era, aveva pure fondato Torres lasciandovi una legione di soldati pensionati: come nel caso della Gallia/Francia, era stato lo stesso grande Giulio Cesare a suddividere la Sardegna “in partes duas”, Carales, municipio e sede del rappresentante di Roma, e Turris: determinando, come per la Francia, anche aspetti importanti del futuro della nostra terra. Sono certo che Pasquino Porcu non si sarebbe tirato indietro neanche di fronte a questa informazione: “ … Anche Cagliari sta diventando una città impossibile. Tra non molto là si concentrerà un terzo degli abitanti della Sardegna. Questo sì che è un fallimento …”. Lo riferisce al giornalista de L’Unione Sarda (il 3 febbraio 1979), Alberto Testa,  incuriosito dalla battute, che arrivano dal Nord-Sardegna, a proposito del sindacalista cui era venuto in testa l’idea ‘balzana’ di ‘spostare la capitale sarda ad Abbasanta’.

“… L’interessante è che gli uffici regionali, l’assemblea consiliare, tutti i servizi vengano sistemati in un’area pianeggiante al centro della Sardegna (io l’ho identificata nella zona di Abbasanta). Anziché alloggiare gli uffici regionali in appartamenti privati sprecando centinaia di milioni, si potrebbe realizzare una specie di campus, una cittadella organizzata, dove potrebbero trovare posto anche gli impiegati ed i politici. Molti di loro, del resto, non sono cagliaritani e fanno i pendolari. Ma il guaio è che il povero cittadino che non ha auto di rappresentanza, deve venirsene da Oschiri o da Palau a Cagliari in “500”. Dopo i disagi del viaggio, quello del giro degli uffici sparsi un pò dappertutto. Riportando la Regione nella sede naturale, appunto a metà strada, l’ente sarà in grado di svolgere la sua funzione, potrà essere più accettabile a tutti i sardi indiscriminatamente”. Così motivava il mio amico Pasquino Porcu nell’intervista su cui mi sono caduti gli occhi nel chiudere l’ultima pagina del mio primo volume: io sapevo del tema e del suo autore, ma non dell’intervista, che riporta opinioni che io ripresi quasi vent’anni dopo nel libro collettaneo da me curato, L’ora dei Sardi, con le stesse motivazioni, solo adeguate al successivo sviluppo tecnologico (la sede sarebbe da me prevista presso le pendici del monte Arci, verso Oristano, a un chilometro dall’aeroporto di Fenosu, a sinistra, e a un chilometro dal porto, sul davanti; gli impiegati della Regione dovrebbero risiedere nei paesi e svolgere il telelavoro; il campus – nuova ‘Cittade de Sardigna’,  ospiterebbe le sedi centrali delle istituzioni della politica e dell’identità sarde). Pasquino Porcu aveva anticipati tutti!

Il 30 novembre 1979 la Cisl celebra la sua prima grande assemblea organizzativa, per le cui tesi ero stato impegnato nella commissione decisa dall’Esecutivo regionale della confederazione.  Le ambizioni espresse nel documento vengono già attestate dai quattro paragrafi (i nuovi termini della questione sarda, l’autonomia e la sua specialità, i problemi dello sviluppo, il ruolo del sindacato) che intendono delineare una strategia che “… si pone quali obiettivi il superamento della dipendenza politica, economica e culturale che costituisce oggi più che mai la nota negativa caratterizzante della questione sarda, il rilancio dell’autonomia della Regione, la riaggregazione del popolo sardo e la crescita dell’occupazione come obiettivo del programma economico e sociale. Sul piano politico-istituzionale, l’obiettivo di fondo che la Cisl indica alle altre forze sociali è l’autogoverno reale del popolo sardo, da conquistare anche attraverso profonde trasformazioni culturali, come frutto di un recupero e di una revisione critica della passata esperienza autonomistica….”. Dipendenza economica e subalternità politica e istituzionale  vengono congiunte come campo di intervento di una vera e propria nuova cultura dell’autonomia, indispensabile per potenziarla e conferire nuova autorevolezza al governo della Regione. “La specialità della questione sarda ha ragioni complesse sia di natura storica, che si riflettono sulla struttura sociale, culturale ed etnica della società sarda, sia di natura politica ed economica, che determinano il permanere di nodi storici e vincoli istituzionali (servitù militari, culturali e politiche) cause primarie sulla strada dello sviluppo” . Per un sindacato era già tanto sfuggire alla connotazione economicista ed offrire il quadro progettuale di una “nuova Regione autonoma” – per la quale occorre perseguire “la piena attuazione dello Statuto speciale” e, soprattutto, “il suo adeguamento” – che riformi il proprio apparato burocratico semplificandolo, riveda la legislazione, riordini settori ed enti. Superata la fase dell’industrializzazione che aveva portato alla dipendenza economica, culturale ed istituzionale, resta da perseguire un nuovo processo industriale costituito di imprese medie e piccole che lavorino le risorse locali ed ad esse si indirizzi la collaborazione delle Partecipazioni Statali.  Il documento tace sul tema linguistico e pronuncia la rituale presa di distanza dalle “anacronistiche tendenze autarchiche o, peggio ancora, dalle antistoriche tendenze separatiste”.  Non potevo rompere con la Cisl sulla limba, visto che le nostre manifestazioni la praticavano negli slogan e nei canti.  Né, allora, ero arrivato a scelte indipendentiste. Lasciai fare, accontentandomi della mediazione raggiunta in commissione. Pur con questi limiti ed ombre, la Cisl fece nel 1979 un passo politico importante, che rivendicherà negli anni a  venire, fondamentali per le scelte future.

Nella relazione all’ultima riunione del consiglio generale di Cgil Cisl Uil regionale è Salvatore Nioi, leader sardo della Cgil, a fare l’affermazione più impegnativa: “ … dopo il finanziamento della legge 268, testimonianza di un qualche successo, rimase però tutto fermo. La piattaforma Sardegna è fallita, con i suoi mille miliardi. Dobbiamo allora cambiare molte cose: anzitutto il nome, ormai privo di smalto, dobbiamo ripartire  dalla piattaforma dell’Eur tenendo conto delle specificità sarde…” (20 dicembre 1979). Neanche un mese dopo (vedi al 17 gennaio 1980) sarà il segretario generale della Cisl, Giannetto Lay, a concludere la riunione del direttivo regionale unitario con un’affermazione che esprime con identica consapevolezza la  drammaticità della situazione: Non ci battiamo più per una Vertenza Sardegna, ma per la speranza che la Sardegna non muoia definitivamente”.

Il 1979 sembrava chiudersi, invece, dopo la ‘marcia po su traballu’, con il  successo della Flm sarda su tutta la linea: novità nella propria vertenza, collegamenti innovativi ed unici nel loro genere con il movimento sindacale italiano, forza ed originalità del movimento dei metalmeccanici sardi ma in continuità consapevole con la tradizione democratica dell’Isola, rafforzamento organizzativo e complessiva crescita culturale. Un differente sviluppo economico risultava finalmente possibile nella concretezza delle proposte se si fosse accompagnata al rinnovamento delle istituzioni, dei partiti, delle organizzazioni di massa, della cultura.

Intorno a noi la Sardegna era in movimento, come lo eravamo noi all’interno del sindacato confederale. Si muoveva la cultura politica dei giovani della sinistra extraparlamentare, con l’originale applicazione alla nostra terra delle più moderne elaborazioni sul neocolonialismo e la dipendenza (DP sarda subito dopo il gruppo di Nazione sarda e di Su Populu Sardu). Già abbiamo detto delle incoraggianti novità in casa sardista.

La Sardegna è una nazione ed il popolo sardo ha il diritto di rivendicare la sua indipendenza istituzionale, economica, culturale e linguistica. Temi da movimento, che potevano arrivare alla ribalta del successo in presenza di una loro affermazione nelle organizzazioni politiche (i partiti), nelle organizzazioni popolari di massa (sindacati, innanzitutto) e nella scuola. Il Pci presidiava la propria egemonia nelle idee delle istituzioni (regione, province, comuni) e negli organismi del sindacato e della scuola. Qui bisognava passare.

  1. 8. I presupposti e le conseguenze necessarie per una nuova autonomia: la regionalizzazione dei partiti in Sardegna e l’Assemblea Costituente del Popolo Sardo.

Ma, al livello politico, si poneva, in ogni caso, come essenziale, il rapporto dei partiti con le loro case-madri italiane e, ad esso collegato, quale percorso individuare per la riforma delle istituzioni, ad iniziare dal suo ‘incipit’, lo Statuto sardo.

Ne aveva scritto Vindice Gaetano Ribichesu, capo dell’ufficio stampa del Consiglio Regionale, in un articolo del numero che chiudeva il primo anno (novembre-dicembre 1978) della pubblicazione della rivista ‘Nazione sarda’, affrontando il tema del rapporto tra i partiti e le istituzioni e, in particolare, tra i partiti e la struttura dello Stato italiano. La sua tesi è che non può esistere uno Stato regionalista senza la regionalizzazione dei partiti politici che concorrono al suo governo. Ma questo diventa necessario ed obbligatorio soprattutto in Sardegna. Quel numero di Nazione sarda apriva con un titolo che lanciava la proposta di una ‘carta dell’autogoverno’ per riaprire la questione sarda ‘dopo trent’anni di succursalismo: l’esperienza autonomistica si chiude con un fallimento che mette in crisi tutti i partiti politici’. E’ venuto il momento di rafforzare il movimento popolare e lo schieramento unitario, già avviati con la battaglia linguistica, per uno statuto di autogoverno che sancisca il diritto dei Sardi ad amministrare e sviluppare le loro risorse economiche, sociali e culturali.

Ancora. Il 20 settembre 1979 arriva dal comitato di “Nazione Sarda”, il movimento politico-­culturale che da dieci mesi lavorava per l’autogoverno della Sardegna “un appello a tutti i Sardi, residenti ed emigrati, e ai giovani in particolare, ai circoli culturali e alle associazioni popolari, ma anche agli uomini e alle organizzazioni di partito che conservano sensibilità democratica, perché predispongano tempi e modi di una mobilitazione popolare”. Infatti, secondo Nazione Sarda, per fronteggiare il grave e generale stato di pericolo è necessario promuovere “un’eccezionale e tempestiva mobilitazione popolare che porti alla convocazione di un’assemblea costituente con il duplice compito di definire un programma di immediata risposta autonomistica e di formulare uno statuto di autonomia che consenta ai Sardi di liberarsi dalla dipendenza, di esprimere compiutamente la loro identità nazionale e di esercitare, finalmente, l’autogoverno”. E’ cioè necessario restituire la parola ai Sardi, organizzare un dibattito che li coinvolga tutti, dovunque si trovino, e che costringa gli organi costituzionali dello Stato al riconoscimento dei diritti autonomistici e, subito, del diritto alla lingua”. (AGENZIA ITALIA, anno 29° – nr. 273 (edizione speciale s/67-68) martedì, 2 ottobre 1979).

L’Assemblea costituente del Popolo sardo sarà il cavallo di battaglia di tanti di noi a partire dagli ultimi anni del millennio. Ma tutto, o quasi, era stato detto, proposto, elaborato già allora.

 

9. Conclusioni provvisorie….

Non è finita l’Autonomia della Sardegna, ma sono state bloccate le necessarie realizzazioni istituzionali. Ma non solo. La pianta si è atrofizzata. L’esito, l’abbiamo sotto gli occhi.

L’economia ha perso la sua base industriale, l’industria sarda è in condizioni peggiori di quella di prima dell’unità d’Italia. L’autonomia, da quarant’anni, non si lega a quella rinascita che visse la sua crisi negli anni di cui sopra abbiamo parlato. Da parte di chi dovrebbe, non si vede una ricerca o una proposta per il futuro, un’idea per la Sardegna che verrà.

Perché l’Autonomia sarda sia rimasta ferma al dibattito del suo trentesimo compleanno domanda agli storici un’inevitabile risposta, dopo, ovviamente, quella di tutti coloro che in qualsiasi modo hanno responsabilità sull’andamento delle cose in questa nostra Sardegna, cioè tutti, da coloro che avevano titolo e dovere di intervenire, discutere e decidere,  fino a ciascuno trai cittadini.

Le responsabilità verso la storia vengono dopo solo quelle verso Dio. Ma si pagano già in questa terra….

 

Post Scriptum. Questo saggio, tranne che per le premesse e per le conclusioni, è parte del capitolo 34 di un testo che uscirà nella prossima primavera, dal titolo novas de su tempus, I diari ritrovati, La straordinaria avventura dei metalmeccanici sardi. Avvenimenti, protagonisti, documenti di un decennio cruciale della storia della Sardegna, 2° VOLUME, La lotta per un lavoro nuovo,  1979-1980.

 

 

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