In mortem di Salvatore Loi, l’intelligenza al servizio di una Chiesa (sarda) che poco lo ha capito ed amato, di Gianfranco Murtas

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ doloroso oggi, il giorno dei suoi funerali, ricordare Salvatore Loi, teologo e specialmente cristologo che abbiamo perduto per sempre, e dopo tanto suo soffrire all’interno di un impedimento che da mille giorni lo aveva già staccato da noi. La consolazione, per lui, delle attenzioni continue riservategli negli ultimi anni dai più cari della famiglia e delle amicizie. Il resto può esser stato, per il tanto che la lucidità gli ha consentito, un riflettere continuo, ancora nel tempo del suo patimento come una volta nello studio fervido e costruttivo della facoltà, e poi del liceo, e così come nelle permanenze comunitarie – metti a Sant’Elia al tempo, o subito dopo, la visita di Paolo VI, o a San Rocco, lui tra i presbiteri fondatori e con altri fondatori tutti di valore – sulla condizione umana vera e forse irrisolta, calandosi in un Giobbe degli interrogativi e dei superamenti.

Dopo don Efisio Spettu, un altro quartucciaio d’eccellenza morale, intellettuale e sociale, appunto Salvatore Loi, era stato dato come un dono prezioso alla Chiesa del Concilio e del postConcilio – quello ecumenico dei papi Roncalli e Montini – e alla Chiesa sarda per un impegno sulla frontiera della profezia vera ed antiretorica, dello studio e dell’impegno sociale e di testimonianza. Per lunghi anni un servizio sempre critico e sempre comunionale, prezioso e necessario, poi la decisione di allargare gli spazi della sua umanità facendo famiglia e prendendo l’insegnamento pubblico superiore, storia e filosofia, e di lato ad esso avviando una produzione scientifica – ora sul fronte della storia sarda dei secoli spagnoli come un tempo su quello tutto teologico – che lo ha segnalato e anzi confermato autore dai pregi di metodo, contenuto e scrittura assolutamente rari.

In un articolo del giugno dello scorso anno mi ero riferito all’ultima sua fatica, purtroppo incompleta nella fattura ma che pur tuttavia i suoi amici più stretti vollero esitare per offrirgli la soddisfazione di poter tenere fra le mani, nelle forme possibili, il tanto delle ricerche compiute fino al giorno in cui una caduta banale e quel che sarebbe venuto impedirono di procedere ancora fra archivi e biblioteche. Fu Prigionieri per la fede quel suo ultimo lavoro, che seguiva la sequenza di titoli usciti lungo un ventennio quasi, per il più per i tipi della AMD. Potrei ripeterne l’elenco e tanto vale allora ricordare due passi di quel lungo articolo:

Così dopo Cultura popolare in Sardegna tra ‘500 e ‘600, con sottotitolo Chiesa, famiglia, scuola (oltre 400 pagine, ben 32 le fonti d’archivio italiane e spagnole compulsate una ad una, più di 190 i titoli di bibliografia degli ultimi due secoli); dopo Sigismondo Arquer. Un innocente sul rogo dell’Inquisizione, con sottotitolo Cattolicesimo e protestantesimo in Sardegna e Spagna nel ‘500, uscito nel 2003; dopo Inquisizione, sessualità e matrimonio, con sottotitolo Sardegna, secoli XVI-XVII, uscito nel 2006; dopo Streghe, esorcisti e cercatori di Tesori, con sottotitolo Inquisizione spagnola ed episcopale (Sardegna, secoli XVI-XVII), uscito nel 2008; è toccato, con le sue quasi 600 pagine e un’infinità di note, a Storia dell’Inquisizione in Sardegna – un’avventura che copre tre secoli e mezzo, fino alla metà dell’Ottocento – comparso in libreria nel 2013, e porta molto avanti gli studi in particolare del Sorgia (ma non solo suoi, ché il filone è ormai sondatissimo, dati lavori generali oppure mirati, anche soltanto compilativi e per territori limitati, comunque preziosi anch’essi).

Andrebbe peraltro ricordato che in contemporanea al testo sulla storia dei tribunali inquisitori sardi è uscito, a firma ancora di Salvatore Loi e con paternità condivisa con il prolificissimo, instancabile Francesco Virdis, affidato per la stampa alla sassarese EDES, il saggio Sottomettere le anime e i corpi. Religione e politica nella Sardegna del Cinquecento, con sottotitolo di esplicazione L’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues de Castillejo e il re Filippo II. Il che riporta direttamente a una delle figure più interessanti della storia della Chiesa sarda, in specie nei secoli di dominio iberico: intendo appunto a quel Parragues controriformista benedettino, bibliofilo e poliglotta, quel nostro presule che fu padre conciliare a Trento e che sui malcostumi diffusi nel clero isolano profferì giudizi non meno severi di quelli pronunciati dall’Arquer (il teologo-giurista destinato al rogo con l’accusa di luteranesimo ed arso vivo soltanto uno o due anni prima che anch’egli, dal trono episcopale di Cagliari, si conquistasse il paradiso).

 

Una riflessione critica sul Concilio Plenario Sardo

In vista, o in accompagnamento ai lavori del Concilio Plenario Sardo indetto dalla Conferenza Episcopale Sarda (presidente e segretario generale, rispettivamente, gli arcivescovi Ottorino Pietro Alberti e Pier Giuliano Tiddia), don Salvatore Bussu raccolse per il settimanale diocesano di Nuoro L’Ortobene una cinquantina di interviste da intellettuali isolani di varia formazione. Pubblicò l’esito della sua conversazione con Salvatore Loi nel numero del 17 settembre 1993, riproponendolo quindi nel volume Facciamo credito alla speranza. La Chiesa sarda e le sfide del 2000, Cagliari, Cuec 1998. (Egli fu, presbitero al suo esordio, assistente diocesano GIAC e Gioventù femminile, animatore del seminario regionale proprio nel passaggio da Cuglieri a Cagliari, prima che docente presso la facoltà Teologica, e dunque – al di là delle successive e pregnanti esperienze di Sant’Elia e di San Rocco – ottimo conoscitore “dall’interno” anche delle parallele militanze clericale e laicale).

Ecco di seguito, così come apparso sul giornale e nel libro, le riflessioni di Salvatore Loi. Titolo: “Non coinvolto il popolo di Dio”. Valgano le riflessioni qui esposte come omaggio all’amico perduto, stimatissimo e amatissimo.

«Le confesso che la sua richiesta di essere intervistato sul futuro Concilio plenario sardo mi ha sorpreso. Da quando ho lasciato il ministero presbiterale sono stato posto ai margini della Chiesa, in modo da far pensare agli altri, non a me naturalmente, che il mio essere ex-prete sia anche un essere ex-cattolico ed ex-cristiano. Debbo dire, ad onor del vero, che ciò non succede tra la gente comune del popolo di Dio e tra la massima parte dei preti che conoscevo e dai quali ero conosciuto…». Così, con molta amarezza, al mio invito di dare una sua testimonianza e un contributo di idee per il futuro Concilio sardo, risponde il prof Salvatore Loi, sacerdote dal 1967 e professore di teologia nella Facoltà teologica del Seminario regionale di Cagliari: che ha lasciato il servizio sacerdotale e che oggi fa l’insegnante nelle scuole statali.

Mi sembra esagerato dire che è stato posto ai margini della Chiesa. Mi è stato riferito che è stato lei a mettersi in una posizione di rottura tanto da non chiedere la riduzione allo stato laicale…

È vero, non ho chiesto né intendo chiedere la dimissione dallo stato clericale, ma non perché voglia “rompere” con la chiesa: con le dimissioni dallo stato clericale, pur perdendo tutti i diritti e i doveri inerenti a tale stato, mi resterebbe l’obbligo del celibato, secondo la normativa del codice e la prassi dell’attuale papa. Essendomi sposato, per non sembrare in “rottura” con la “chiesa”, dovrei chiedere la dispensa dal celibato. Tale dispensa al momento in cui avrei dovuto chiederla veniva e ancora oggi viene accordata a norma della Lettera del 14 ottobre 1980, solo se si dimostra che esistono motivi che consentano di concludere che l’ordinazione non doveva essere fatta. Credo che la mia ordinazione sia avvenuta almeno con le stesse ragioni di quella dei presbiteri in ministero e che la mia sia stata una scelta responsabile, per quanto permettono tutte le scelte umane. Avrei dovuto mentire? Non è un “abuso” concedere la dispensa dal celibato solo nel caso in cui si dimostri che l’ordinazione non sarebbe dovuta avvenire? Si stabilisce così un parallelo con la fedeltà matrimoniale che non vincola solo nel caso di “nullità” del matrimonio. Ma nel caso del matrimonio si tratta di una “regola” evangelica, nel caso del celibato si tratta sicuramente di una regola ecclesiastica che oggi viene richiesta nella chiesa cattolica ai presbiteri. Perché continuare a richiederla a quanti non esercitano più il ministero presbiterale? Non le sembra un abuso? Dovrei accettarlo? Non credo di poter passare sulla mia coscienza per non sembrare in “rottura” con la chiesa, o, meglio, con la disciplina ecclesiastica di questo papa.

Cosa pensa del Concilio plenario sardo in gestazione da tanto tempo?

Debbo dire con tutta franchezza che mi sembra un’iniziativa voluta dall’alto, che non ha coinvolto né coinvolgerà in modo duraturo il popolo di Dio, il quale continuerà ad essere consenziente o rassegnato, ma sempre silenzioso. Ora, un’assemblea a livello regionale che non esprima la partecipazione reale delle comunità ecclesiali mi pare del tutto formale. Se poi vuol sapere cosa pensi del Concilio in sé debbo dire che mi lascia perplesso e critico. In ultima analisi esso non potrà decidere niente: i vescovi e solo essi hanno voto deliberativo, tutti gli altri hanno funzione semplicemente consultiva. È ancora la celebrazione della subordinazione nella chiesa: chiesa docente da un lato, chiesa discente dall’altro. Ho molti dubbi che avvenimenti come il Concilio sardo da soli servano alla chiesa di Dio che è in Sardegna.

Che cosa allora potrebbe essere più utile alla Chiesa sarda?

Lo sapessi! Penso, tuttavia, che la chiesa, anche quella sarda, debba dare spazio alla partecipazione reale di tutti i membri del popolo di Dio. I primi anni del dopo-concilio furono caratterizzati dalla nascita di iniziative e di organismi di corresponsabilità ecclesiale (consigli presbiterali, consigli pastorali…): cominciavano a cambiare ruoli e modelli tradizionali, rispettabili ma non più adeguati. Soprattutto il ruolo pastorale dei vescovi-presbiteri entrò in “crisi”. In tutto questo sommovimento, per molti aspetti oscuro e indecifrabile, anziché vedere il “travaglio” del parto si è vista l’agonia della morte; anziché continuare a camminare, si è pensato di tornare indietro ripristinando “antichi” modelli e, in particolare, rimettendo i pastori non dentro alla comunità ma di fronte ad essa, come unici ed esclusivi garanti della verità di Dio. Si è ammodernata così la forma “clericale” della chiesa che il Vaticano TI aveva messo in questione. Questa riclericalizzazione della chiesa ha comportato quasi fisiologicamente l’accentuazione della funzione “sacra” dei pastori e la riduzione dei laici i quali, di fatto, hanno ripreso il loro posto silenzioso e subordinato. La chiesa cattolica ha ripreso forza sociale e politica sul piano nazionale e internazionale, ma, a me sembra, è molto più debole sul piano ecclesiale. La chiesa di Giovanni Paolo II è socialmente più “forte” di quella di Giovanni XXIII e di Paolo VI, ma è anche più “cristiana”? In altri tempi la chiesa ha vissuto questa contraddizione emblematicamente incarnata nella figura di Celestino V, il santo, e di Bonifacio VIII, il forte. La chiesa sarda non fa eccezione.

Un successo sociale, vale a dire è dentro alle problematiche sociali, vicina ai lavoratori, ai disoccupati… E questo le sembra un demerito?

Non mi sembra il compito proprio della chiesa, ma non è neppure un demerito: è una necessità, quando i “poteri” statali e sociali vengono meno ai loro doveri. Oggi l’azione della chiesa, fatti salvi il lavoro e il sacrificio di tanti credenti, si presenta come segno della verità delle idee e dei valori “cattolici” di fronte alla caduta delle idee e dei progetti umani. Riterrei più consona all’ispirazione cristiana un’azione che non separa e distingue i cristiani dagli altri, visto che la costruzione dell’umana società è compito di tutti. Bisognerebbe, io penso, che la chiesa non prendesse il posto della società e dello Stato ma stimolasse le autorità civili a compiere il proprio dovere per costruire assieme, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, uno stato che funzioni: la chiesa dovrebbe mirare ad autoridursi progressivamente piuttosto che a prosperare sulle rovine della cultura, della società e dello Stato.

Lei è stato vari anni professore nella facoltà teologica. Quale valutazione si può esprimere circa l’apporto culturale della stessa sui sacerdoti e sui laici che la frequentano?

È da molti anni ormai che manco dalla facoltà e non ho più seguito le sue attività. Riferendomi al periodo in cui vi ho insegnato, devo dire che nel decennio postconciliare, fino alla fine degli anni ’70, essa partecipava del clima di speranza e di partecipazione proprio di tutta la chiesa, poi sono cominciate le “paure”, le difese della “identità” cattolica e ciò ha comportato il rischio di accentuare le chiusure e le diffidenze rispetto alle aperture. Ho l’impressione (si badi, solo l’impressione) che anche le iniziative di diffusione della cultura teologica (istituti di scienze religiose) abbiano più il sapore della difesa che del dialogo, che intendano confermare una dottrina anziché ricercare le ragioni dell’esperienza cattolica.

I cristiani laici sono chiamati a dialogare con coraggio e creatività nei luoghi culturali: scuola, ricerca tecnica e scientifica, arte, letteratura, economia, politica, pubblica amministrazione. Può evidenziare in merito carenze e problematiche, e suggerire le “vie” per un dialogo concreto?

Non credo di conoscere le “vie”, ho solo alcune opinioni che debbono essere confrontate con altre e che potrebbero valere in una situazione ma non in un’altra. Credo anzi che il porsi in atteggiamento di confronto e di ascolto all’interno della chiesa e nei confronti degli “altri” sia oggi la cosa più necessaria. Viviamo in un’epoca di transizione e abbisogniamo di cose nuove. Non mi sembra una risposta adeguata quella di chi, impaurito dalla complessità dei problemi, si rifugia nelle sicurezze del passato e vuol rispolverare i modelli di un mondo che tramonta. La prima e più grande testimonianza dei credenti è quella, io credo, di impegnarsi responsabilmente nei mondo e di accettarne la laicità. Si tratta cioè di non pensare che la cultura, la scienza, la politica siano buone solo o soprattutto se sono benedette, ma di impegnarsi a fondo e responsabilmente a fare cultura, politica, scienza… senza abbassarle a strumenti di potere e di dominio e senza innalzarle a divinità. Del resto ogni cultura è tale solo se continua ad avere la capacità di meravigliarsi, di porre domande, di trovare e di correggere gli errori. Ecco, l’importante non è dichiararsi infallibili, ma essere capaci assieme cli correggere gli errori.

Lei, per la sua posizione, per così dire, “extra muros “, forse è in grado di cogliere nei non credenti i motivi del loro turbamento e della loro negazione. Da quali fonti viene alimentato questo loro orientamento culturale? Quale forma di dialogo è attuabile con essi?

Ha detto bene: forse. A me sembra che il turbamento sia comune a credenti e non credenti. Comune è anche il rischio di tornare a un “sacro protettivo e rassicurante”, credo che questo “ritorno del sacro” sia di breve durata e di irrilevanza storica, visto che si tratta di ancestrali e sotterranei rivoli che, così come sono, non potranno certo alimentare la speranza di soluzione di enormi problemi quali il rischio nucleare, quello ecologico, la sollevazione delle masse di poveri e le trasmigrazioni di gente in cerca di un modo e di un mondo per sopravvivere. Quale forma di dialogo è attuabile con gli atei? Quella del massimo rispetto e dell’ascolto delle loro ragioni, che oggi sono molte e diverse. Credo che i credenti debbano testimoniare che il loro Signore Gesù è anche Signore dei non credenti, nel senso che il loro silenzio su Dio può essere considerato indicativo di Dio e deve invitarci a limitare il nostro parlare troppo di Dio. Dobbiamo uscire dalla logica escludente della religione che assolutizza la propria “forma” di fede ed affermare piuttosto che Dio è più grande di ogni religione: il silenzio di Dio e su Dio accenna all’insondabilità e ineffabilità del mistero.

 

 

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    1 Comment to “In mortem di Salvatore Loi, l’intelligenza al servizio di una Chiesa (sarda) che poco lo ha capito ed amato, di Gianfranco Murtas”

    1. By Roberto Porrà, 3 febbraio 2018 @ 11:49

      Davvero un periodo triste per la storiografia sarda! Prima la morte di un anziano ma sempre grande storico come Raimondo Turtas, un uomo di una cultura straordinaria. Poi, poco tempo dopo quella di Salvatore Loi, un intellettuale di altissimo livello e dalla grande e raffinata produzione saggistica.
      Mi auguro di cuore che vengano organizzate iniziative degne di queste personalità così importanti per ricordarli e farli conoscere anche ai giovani che forse, ma spero di sbagliarmi, non apprezzano appieno il valore della loro perdita