La lunga settimana della dura verità della politica sarda (1), di Salvatore Cubeddu
EDITORIALE. Ogni giorno di questa settimana almeno due pagine dei quotidiani ci hanno scodellato nella loro cronaca i capitoli di un trattato di scienze sociali avente ad oggetto i meccanismi che descrivono il funzionamento della nostra politica.
La settimana, che anche in Sardegna conclude la scelta dei candidati alle votazioni politiche del 4 marzo, descrive in termini chiarissimi cos’è la politica nella sua essenza e i modi con cui essa agisce presso i Sardi e la sua classe dirigente.
Le elezioni sono il sale ed il punctum dolens della democrazia. Esse arrivano nelle società occidentali a decidere chi avrà autorità sul popolo che gliela delega, sostituento eredità di nascita, investiture a legittimazione variamente religiosa e soprattutto l’eleminazione violenta del concorrente/avversario. Nata con l’esaltazione del demos (popolo), si esprime con periodiche ri-cadute di esso, sia nella rinuncia alla responsabilità e sia nella fatica delle sue scelte.
E’ infantile non considerare che il ‘conflitto per il potere’ è endemico e normale presso le associazioni politiche, nei confronti dei concorrenti esterni ed interni. Per regolare il conflitto, impedirne che si ritorca contro la singola organizzazione o contro il funzionamento delle istituzioni, si danno leggi e regolamenti. Resta tuttavia sottinteso, ma non troppo, che chi influisce su questi regolamenti e leggi parte in vantaggio sugli altri gareggianti. La questione, se mai, è del quantum.
E i programmi? E le ideologie? Certo: si danno anche queste e quelli, in dosi differenti, nelle varie situazioni. Ma non si può certo dire che siano le ideologie ed i programmi ad avere appassionato o fatto soffrire la politica sarda di questa settimana.
I Sardi partono in svantaggio all’interno di ciascuna organizzazione e nel rapporto tra i raggruppamenti politici “italiani”. Per ragioni di numero, proiezione della demografia, e di lontananza (noi ci viviamo più vicini alla vita italiana in modo infinitamente superiore a quanto l’Italia “media” non ci veda lontani, differenti e trascurabili. NdA: la questione è importante ma complessa, la accenno lasciando l’approfondimento ad altra occasione!). Si tratta di condizioni ‘oggettive’, comprensibilmente difficili da accettare da parte di chi vorrebbe abolire il mare, la biologia, la cultura e quant’altro ci rende unici; ma rimane assolutamente ovvio per chi si vive anzitutto e felicemente “sardo”. Sardi, in contatto obbligato con lo Stato, finchè non si decidesse altrimenti.
Ma a tutto ciò si sono aggiunti i gravi nostri limiti e per quarant’anni (a partire dalla crisi della seconda legge di Rinascita e della prima autonomia, 1978/9), sono risultati vani ed ancora senza sbocco positivo i vari tentativi di offrire una soluzione alla crisi della nostra autonomia: il nuovo statuto, l’assemblea costituente, la regionalizzazione dei partiti, la circoscrizione sarda per le elezioni europee, la rinuncia al concetto di sovranità nella legge statutaria interna, l’insegnamento della lingua sarda e della nostra storia nelle scuole, la valorizzazione di Sa die de sa Sardigna. Gli elementi soggettivi-culturali-istituzionali, che avrebbero costituito valore aggiunto, sono stati rifiutati o negletti o depontenziati. Anzitutto in Sardegna, conseguentemente anche da parte dello Stato perennemente centralista. Il lettore decida lui la graduazione delle responsabilità della crisi strisciante e in progressione degli ultimi quarant’anni. Il presente impoverimento delle famiglie e dei paesi arriva lungo una lenta ed inesorabile decadenza.
Sarebbero bastate la regionalizzazione dei partiti e la tempestiva e corretta applicazione in Sardegna della l. 482 sull’identità linguistica per riuscire a non fare mettere lingua nelle nostre candidature al centralismo romano e per slegare la Sardegna dalla Sicilia nelle elezioni europee.
E’ da tanto che tutto ciò lo identifichiamo nei termini di: ‘dipendenza’, ‘colonialismo’ e non solo, guardando all’esterno; ‘subalternità’, ‘tzerachia’, definendoci ed offendendoci all’interno. Questo abbiamo vissuto in questa settimana. Ogni giorno almeno due pagine di giornale, sia de L’Unione Sarda che de La Nuova Sardegna, ci hanno scodellato tutti insieme i capitoli di un trattato di scienze sociali avente ad oggetto i meccanismi che descrivono la politica in Sardegna: a chi rispondono i nostri gruppi dirigenti, il rapporto tra leadership-organismi-base-elettori, le modalità delle decisioni, la rappresentanza degli interessi generali e di quelli particolari, l’espressione e l’impossibile composizione locale dei conflitti, il dominio esterno chiamato a sedare il conflitto interno. Nel quadro, le situazioni di ciascuna associazione politica, o partito o coalizione, si presentano differenti, ma non si oppongono, piuttosto si integrano nel descriverci e nel giudicarci.
Il Partito Democratico si divide e si paralizza, delega Roma e contemporaneamente, nell’attesa, attacca e cerca di condizionare la decisione romana accusandola di favorire i suoi più vicini. La terna già divisa dei più a sinistra (Liberi e Uguali) rifiuta il candidato romano e presenta il proprio pacchetto di scelte minacciando il ritiro dalla gara. I tre partiti del centro-destra (FI, Lega, Fd’I) non hanno spazio in Sardegna per la quarta gamba (che, senza, dirlo, hanno offerto ai sardisti), rischiando l’ira funesta degli esclusi tra un anno alle regionali. Ritorna Berlusconi quale dominus del centro-destra, prima ed ultima voce di Forza Italia, mallevadore presso il mondo del controllo dei populisti Salvini e Meloni con i quali dovrebbe riprendere a governare l’Italia. Fino al M5S, che a Sassari vanno alla rissa fisica, tanto per dimostrare di essere pur essi sardi.
E che ne è del sardismo tutto, senza specificazioni? Diviso e quindi impotente.
Dopo che la scorsa settimana il Partito dei Sardi ha rifiutato al PD lo spacchettamento di questa stagione elettorale dalle prossime regionali e gli Autodeterminati hanno proseguito nella scelta della presentazione delle proprie candidature tutte sarde, la ribalta sardista della settimana è stata tutta in mano al Partito Sardo d’Azione, croce e delizia di tutti noi …. O forse, più croce che delizia, per tanti. (continua)
P.S. L’articolo si è fatto lungo. Riprendiamo domenica 28 pv.
By Benedetto Sechi, 27 gennaio 2018 @ 14:53
Come sempre Salvatore Cubeddu ci offre considerazioni e ragionamenti che mettono i sardi dinnanzi alle loro responsabilità. In questo caso i sardi di ogni latitudine politica. I sardi sempre più italiani direi, sommando a questi i loro difetti. Nessuno, tra i candidati nei partiti nazionali, ne singolarmente, ne per gruppi, ha la forza e lo spessore politico-culturale per contrattare la sua candidatura, ponendo sul tavolo almeno qualche elemento di convenienza per la Sardegna. Buone anche da noi, le salvifiche promesse elettorali ad personam: pensione, bonus bebè, riduzione tassazione, veterinario per il cane, etc. Ma passa per queste vane promesse, che mai si realizzeranno, se non a costo di smontare lo già scassato stato sociale, lo sviluppo della Sardegna? Messe sotto il tappeto le annose questioni dei trasporti, della zona franca, della metanizzazione, delle servitù militari e infrastrutturali, di una riforma dello Statuto in senso almeno federalista. Abbiamo accettato lo smantellamento delle province, in cambio di Cagliari “Città Metropolitana” che peggiorerà lo stato di spopolamento delle zone interne e di quelle costiere marginali. Verranno eletti, in un parlamento sordo e muto, personaggi di cui neanche ricorderemo i nomi, come tanti di quelli uscenti, figure oscure, ben retribuite per non disturbare i manovratori. E’ tutta così la Sardegna? I sardi? No, penso ci siano uomini e donne che quotidianamente tiranno la carretta e mantengono sopra la linea di galleggiamento l’sola. La speranza è che quanto prima di acquisisca consapevolezza che si potrà uscire da questo stato, prossimo al sottosviluppo ,solo prendendo il destino tra le nostre mani.