La figura di Asproni nel giudizio di Lello Puddu, suo primo biografo negli anni della Repubblica: per una Sardegna “partecipe del moto di rinnovamento della società italiana ed europea” nel risorgimento, contro notabili, camorristi e clericali. di Gianfranco Murtas
Ricordando le molte benemerenze culturali, oltreché civili e politiche, di Lello Puddu – l’amico che nelle scorse settimane ci ha lasciato –, credo d’aver fatto cosa molto giusta (e doverosa) affiancandolo a quei che, nell’ultimo settantennio – già quasi dal dopoguerra! – hanno lavorato alla riscoperta della figura di Giorgio Asproni come patriota sardo e italiano, come democratico repubblicano, come spirito aperto ai tempi nuovi da lui anzi, per varie strade – si pensi anche alla questione religiosa declericalizzata – precorsi.
E precorritore fu anche Puddu, appunto in quanto scopritore o riscopritore di Asproni almeno tre lustri prima che Bruno Josto Anedda ne rinvenisse il monumentale inedito Diario politico-parlamentare, custodito dal conte Dolfin, genero dell’ingegnere minerario Giorgino Asproni, il nipote prediletto del grande Bittese. Precorritore perché ne scrisse la prima volta nel 1950, su L’Idea repubblicana, la rivista di Giulio Andrea Belloni, l’anima socialista del mazzinianesimo italiano. Avvenne quando Puddu, giovane neppure ventitreenne, studiava ingegneria a Genova e, già appassionato all’idea repubblicana cui era stato cresciuto in particolare dal suo professore di liceo Giovanni Ciusa Romagna, s’era dato alle prime ricerche in proprio.
Con Ciusa Romagna erano stati Francesco Burrai, repubblicano, ed Ennio Delogu, sardista, entrambi bittesi – l’uno con un passato di combattente in Spagna contro i franchisti, l’altro con una bella esperienza di galeotto nelle carceri fasciste (insieme con Salvatore Mannironi e Margherita Sanna) – a presentare, fin dal 1946-47, al giovanissimo studente al tempo ancora iscritto al liceo barbaricino intitolato proprio ad Asproni, e universitario poi nella città di Giuseppe Mazzini e Goffredo Mameli, le qualità umane, intellettuali e politiche del canonico/excanonico fattosi repubblicano e militante parlamentare (d’opposizione) per quasi tre decenni.
Asproni voleva dire Barbagia e Sardegna insieme: fu un innamoramento ideale, morale, fulminante, proprio come può capitare agli adolescenti che cercano, tanto più nello studio, modelli alti di vita, beati e santi civili; fu quindi un amore intenso, tutto politico e patriottico, capace esso stesso, con le sue categorie, di introdurre il ragazzo nella grande fabbrica del mondo nuovo, quali erano stati, nel secondo Ottocento e primissimo Novecento, il risorgimento e il postrisorgimento. Un mondo visto e partecipato, in quegli anni fra ’40 e ’50 della ricostruzione postbellica – nuova fabbrica di un mondo nuovissimo! – , con un’intenzione democratica, di sinistra, sul filo delle esperienze che erano ormai lontane ma parevano continuare a dettare le loro coordinate etico-civili prima che politiche: la Giovine Italia, la Giovine Europa, la Repubblica Romana, e poi l’Alleanza Repubblicana Universale, la testimonianza della prigione liberal-monarchica a Gaeta nel fatidico giorno di Porta Pia e quella della morte in clandestinità, a casa Rosselli, il 10 marzo 1872…
Nell’impasto delle idealità vissute nella sua fresca età dal giovane nuorese (tonarese di ascendenze cagliaritane) entravano anche gli altri apostoli, tutti da mettere a fuoco, da scoprire e amare e imitare: Efisio Tola il martire sassarese di Chambery, Giovanni Battista Tuveri il filosofo di Collinas, Pietro Paolo Siotto Elias il direttore federalista del Caprera, Gavino Soro Pirino l’animatore del movimento mutualistico operaio… entravano i sardi, entravano, forse, sfondando il nuovo secolo, anche Silvio Mastio e Cesare Pintus che avevano brillato di luce propria, adolescenti e giovanissimi anch’essi, contro il primo fascismo. Entravano i sardi schierati con la minoranza più avanzata e profetica dell’Italia mossa ad un obiettivo unitario e, con esso, ad un obiettivo di democrazia partecipata: vi entravano – Asproni fra essi – con una tensione non banalmente declamatoria, dico d’un patriottismo puramente retorico, bensì mirata a coinvolgere la Sardegna nella stagione nuova dell’Europa, dopo il rilascio delle costituzioni del 1848, dopo il processo dell’indipendenza dalla ipoteca austriaca, dopo la ricomposizione in termini di territorio e di ordinamento dell’idea che era stata di Petrarca fin dal Trecento come di Leopardi cinque secoli dopo. E si sarebbe magari detto ancora, vi entravano con i protagonisti delle scene successive, … dopo la lotta per la trasformazione del sistema liberale in sistema democratico, dopo la lotta contro la dittatura, nella lotta per la repubblica. Insieme unitaria e delle autonomie.
Dalla Sardegna del 1865 – per dire dell’anno in cui la nuova Italia (regno d’Italia) cercò, con capitale Firenze, di darsi un ordinamento omogeneo sussumendo quelli dei vari stati e staterelli preunitari – erano partite, in occasione delle manifestazioni eleonoriane allora in gran spolvero, tanto più fra Cagliari ed Oristano, gli appelli ai fratelli veneti perché, nello sforzo antiaustriaco della prossima terza guerra dell’indipendenza nazionale, rivivissero lo spirito che aveva animato gli arborensi del XIV e XV secolo contro l’invasore aragonese… Dalla Sardegna degli anni e dei decenni successivi, tanto più con le organizzazioni popolari del movimento dei combattenti, altri input e altra partecipazione sarebbero venuti all’Italia intera, per una riforma dell’impianto istituzionale – era stato il sogno carezzato anche dal Partito Italiano d’Azione nel 1921 – e poi ancora per l’opposizione certa e irrinunciabile, con le camicie grigie e, magari a Cagliari, quelle rosse delle squadre Mazzini o Garibaldi o forse Pisacane, al regime fascista…
Un adolescente e il suo Mazzini
Ecco Lello Puddu adolescente, liceale e poi universitario, accompagnarsi ai maestri, agli apostoli dell’Italia che cento, ottanta o settanta (e meno ancora) anni prima di quelli che a lui toccava vivere, fra Nuoro e Genova – all’indomani del referendum istituzione, all’indomani magari della elezione del primo parlamento repubblicano ed anche del primo consiglio regionale dell’autonomia speciale sarda – avevano preparato la strada. Proprio così: preparato la strada pur da posizioni di minoranza estrema. Conquistato il suffragio universale, conquistata la repubblica e la costituzione, conquistata l’autonomia legislativa e amministrativa della Regione, conquistata una soggettività politica alla Sardegna all’interno di provvidenziali coordinate nazionali italiane, con Roma capitale, secondo il sogno antico di Mazzini e Garibaldi e Mameli…
Nella logica della storia sempre contemporanea, il passato si fondeva col presente, spiegava il presente, ed il presente richiamava i meriti dei precursori, dei combattenti, dei martiri. A Nuoro, nella Nuoro di Dino Giacobbe combattente sardista e lussiano in Spagna, nella Nuoro di Giovanni Battista Melis finito 23enne nelle segrete fasciste di San Vittore (con Ugo La Malfa il siciliano suo coetaneo e sodale), nella Nuoro delle coscienze più alte della democrazia repubblicana e sardista – la Nuoro di Gonario Pinna e Pietro Mastino e Luigi Oggiano, per limitarci alla storica terna degli avvocati laici degradati dal regime per l’opposizione alle celebrazioni del duca Savoia –, e poi nella Genova tutta intrisa di umori democratici e remoto collegio elettorale di Giorgio Asproni (così all’inizio quasi della sua carriera parlamentare, precisamente nel 1853, dopo le prove del 1849-1850), il nostro Lello Puddu diciottenne, ventenne, venticinquenne maturava umanamente e intellettualmente frequentando le memorie dei Grandi e l’esempio ordinario dei maestri riconosciuti.
M’è occorso in diverse circostanze di richiamare i testi di due lettere che Luigi Oggiano – il lucido e coraggioso antiMussolini del 1922, il santo del sardismo, il grande avvocato dei poveri nel foro nuorese – inviò al giovanissimo repubblicano, testimonianza bella e piena di una comunione di ideali fra il partito sardo e il partito repubblicano.
Ad Oggiano – senatore eletto nel 1948 (e iscritto, con Pietro Mastino senatore di diritto, al gruppo dei Democratici di Sinistra) – Puddu aveva consegnato il proprio scritto asproniano appena uscito sulla rivista di Giulio Andrea Belloni. Ne aveva avuto subito risposta (datata 16 settembre 1951): «Sulla via segnata da Mazzini e dai Grandi del Risorgimento i nobili spiriti si ritrovano; a mortificazione dei dimentichi, degli scettici, degli improvvisatori, di coloro che giudicano della vita solo dalle utilità e dai beni materiali che ne possono trarne, e meglio ancora se facilmente».
Un altro messaggio del sen. Oggiano avrebbe raggiunto il giovane repubblicano dopo l’insuccesso elettorale del giugno 1953, quello legato alla sfortunata legge maggioritaria: «A ben riflettere, il risultato di queste elezioni non può essere motivo di sorpresa, deve essere motivo di amarezza: e non per me, naturalmente, per quanto è avvenuto in Sardegna, ma per quello che è il male generale italiano. Da molto tempo si temeva di questa grave scivolata. Se fossimo facili alle variazioni di umore, questa ultima sagra elettorale dovrebbe allontanare definitivamente dalle cose pubbliche molti cittadini, che sono vissuti e continuano (devono continuare) a vivere in coerenza ed in fedeltà – vorrei dire in comunione, se non vi fosse peccato di presunzione o di superbia – con i Grandi Spiriti del Risorgimento, e soprattutto con l’incrollabile Mazzini. Forse noi anziani, di una generazione che almeno in parte ha avuto fede e non ha “mollato”, siamo dei “bruciati” o dei superati. Tocca a voi, giovani, e fra essi tocca a te, giovane che giustamente e nobilmente hai scelto un solco non comune e non facile per le tue idee e per la tua fatica, riprendere a tempo opportuno “l’azione”. E intanto per tutti bisogna guardare avanti ed in alto, in purità e – se così è necessario – in sacrificio. La piazza non è nostra, ma può essere nostro, e deve essere, il culto delle cose e delle idee che non danno denaro, come in un sacrario» (così il 22 luglio 1953).
Fra l’una e l’altra data di questa corrispondenza preziosa potrebbe ricordarsi la visita di Ugo La Malfa, ministro del Commercio con l’estero impegnato con la politica della liberalizzazione degli scambi, nell’Isola ed anche a Nuoro, ospite della locale Camera di Commercio (presieduta da Salvatore Mannironi) per un confronto di posizioni con gli industriali della provincia. I sardisti sempre al fianco dell’esponente di governo, in appoggio anche fisico e visibile alla sua concreta, e difficile, azione ministeriale.
Bisogna dire questo: la solidarietà fra repubblicani e sardisti era, a Nuoro soprattutto, cosa quotidiana. Contavano certamente anche i rapporti personali fra i leader, fra i parlamentari soprattutto. D’altra parte concorrenza c’era soltanto, più per dovere che per piacere, alle elezioni politiche, perché per il resto – alle amministrative cioè, e alle regionali – i repubblicani erano fedelmente schierati con i fratelli del PSd’A.
Puddu maturava esperienze, vedeva e toccava di cosa fosse fatto il pane della politica, capiva presto che accanto alle idealità c’era l’organizzazione e c’era il giudizio strettamente politico che, se pur doveva guardare in prospettiva, non poteva non considerare anche il contingente e muoversi con pragmatismo, con la prosa invece che soltanto con la poesia. Così aveva visto che i 53 voti conquistati dai repubblicani a Nuoro alle elezioni del 18 aprile 1948 erano stati di pura testimonianza, ed aveva visto che la scelta del partito di appoggiare i governi De Gasperi, a traino democristiano cioè, aveva indispettito alcuni, forse molti dei pochi militanti e dirigenti: Ciusa Romagna s’era è dimesso dalla segreteria della sezione, a subentrargli era stato Renato D’Agostino.
Pochi e combattuti i repubblicani nuoresi lo erano stati fin da prima delle elezioni amministrative e di quelle per la Costituente, da prima cioè del referendum istituzionale del 1946. Il nucleo iniziale, a ridosso dell’8 settembre, era stato promosso da Gonario Pinna e Giovanni Ciusa Romagna, mentre Gaetano e Bernardino Devilla – bancario il primo, tipografo il secondo, anch’essi con militanze giovanili nei primi anni ’20 – s’erano associati da subito, e con loro erano stati anche Michele Muzzetto, medico di origini calangianesi, Sebastiano Maccioni e Pasquale Giordano, entrambi insegnanti (il primo alle magistrali, il secondo alle primarie), e Renato D’Agostino. Dopo il passaggio di Gonario Pinna al Partito d’Azione – un passaggio coinvolgente, nella primavera 1944, gran parte della militanza nella provincia obbediente al carisma dell’avvocato-leader (e destinata poi a confluire nel PSd’A per attrazione lussiana) – per un anno circa le forze rimaste fedeli al partito avevano faticato a rimettersi su. Ciò fino a che non aveva preso l’iniziativa Francesco Burrai che insieme con Ciusa Romagna, i Devilla, Muzzetto, D’Agostino ecc. aveva dato vita alla sezione intitolata nientemeno che a Carlo Cattaneo. E già era sembrato ci fosse da inorgoglirsi di tante nobili ascendenze e del ruolo assunto sulla piazza, in elenco magari, con i capi dei grandi partiti, agli appuntamenti popolari di San Giovanni…
Era stato appunto nel contesto della campagna elettorale del 1948 che Puddu, diciannovenne, aveva incontrato un suo coetaneo anche lui tutto slancio mazziniano e garibaldino che ancor più gli aveva contagiato l’entusiasmo per i “grandi spiriti” del risorgimento e per la politica costruttiva della Repubblica: Filippo Canu, portotorrese di origini, frequentatore di Clelia Garibaldi vegliarda nell’eremo di La Maddalena, lui il futuro giornalista di vaglia e quirinalista, direttore di testata e sceneggiatore cinematografico, aveva infiammato non meno degli anziani questo amico incrociato a Tonara e da allora, compatibilmente con le strade della vita da ciascuno intrapresa – l’uno a Genova e l’altro a Cagliari (alla redazione de L’Unione Sarda) e poi a Roma –, sempre frequentato. (Lo stesso Canu accennò alla vicenda nel suo gustosissimo Quel caffè sul Corso, Sassari, Carlo Delfino editore, 1995. In ristampa nella collana “La Biblioteca della Nuova Sardegna”, 2003).
Altra scena: alle politiche del 1953 i repubblicani raccolsero in tutto il Nuorese appena 545 voti, dei circa tremila dell’intera Isola; nel capoluogo provinciale i suffragi erano stati appena 29, e 19 quelli di Lodè, 25 quelli – non per caso – di Tonara.
La residenza di studio di alcuni anni a Genova, i contatti con gli ambienti repubblicani (ed anche della libera muratoria giustinianea) della capitale ligure, la frequentazione di archivi e biblioteche ed anche testate storiche – è proprio a Genova che incontra Francesco Fancello, vice di Sandro Pertini, al vertice de Il Lavoro nuovo, e con lui il giudice Giovannantonio Donadu (di memoria GL), ed incontra anche Bianca Montale (dal 1956 direttrice dell’Istituto Mazziniano) – spinsero il giovane Puddu, prima del rientro definitivo in Sardegna per avviarsi alla sua attività professionale di impresario edile (già del padre), ad affinare la conoscenza della democrazia mazziniana come si era sviluppata lungo i decenni, dai capestri dei Savoia a quelli del fascismo, dalla semina dottrinale e testimoniale alla fatica della costruzione del nuovo ordinamento repubblicano. Per questo, ormai già inserito nei quadri del PRI, allacciò più agevolmente nuove relazioni e raccolse da Napoli e Palermo come da Firenze e Roma, da Torino e appunto Genova, i materiali che potevano consentirgli di proporre una prima rilettura, tendenzialmente organica, della missione politica del maggior nuorese dell’Ottocento, di Giorgio Asproni giornalista e anche direttore di testata, esponente delle società operaie e parlamentare. Recuperò articoli di stampa – si sarebbero rivelati centinaia e centinaia –, recuperò atti stenografici della Camera dei deputati… Stese infine, sulla vita privata e pubblica di Giorgio Asproni, un pezzo lungo una decina di cartelle che fece avere ad Arnaldo Satta Branca, il direttore de La Nuova Sardegna, intimo amico fin dalla gioventù, e sodale nelle grandi battaglie per la democrazia, di Michele Saba, a Sassari. L’articolo uscì in due puntate sulla terza pagina del quotidiano – cui collaborava anche Corrado Vitali, repubblicano bibliotecario all’Universitaria di Sassari – il 3 e 4 ottobre 1956, sotto il titolo comune di “Giorgio Asproni a 80 anni dalla morte”. Questi i due sommari: “Il combattivo canonico bittese dalla schiera dei Mille al primo Parlamento italiano – Amico di Mazzini e di Garibaldi – Deputato sardo all’attacco – Vide con chiarezza l’esigenza di un’amministrazione autonoma della Sardegna, ma nessuno oggi lo ricorda” e “Singolare presa di posizione contro ‘la spedizione in Sardegna delle orde di impiegati di terraferma, massime se di rea coscienza e inetti’ – Il difensore di Nuoro – ‘Sempre all’avanguardia, uomo incrollabile – disse di lui il Brofferio – fra tanto lusso di apostati non si è disdetto mai’”.
Ecco a seguire il testo delle due puntate.
1956, si “La Nuova Sardegna” di Arnaldo Satta Branca
È opportuno, nel ricordare la figura di Giorgio Asproni, rammentare, oltre alle fasi della sua esistenza, con l’aiuto di alcuni scritti o brani di discorsi, la vastità dell’opera e del pensiero di questo grande figlio della nostra Isola. Per molti sardi, giovani o non giovani, egli sopravvive nel ricordo popolare e nella ripetizione di qualche fatto o di qualche celebre frase, ma pochi sanno con esattezza che cosa fu! Se il destino avesse accordato vita più lunga a Luigi Falchi, tale da permettergli di porre ordine alla vasta mole di appunti, notizie e dati, forse noi avremmo oggi una più esatta conoscenza non solo della sua opera, ma anche di quella di altri illustri uomini che intravvidero le vie della rinascita sarda e che troppo a lungo, volutamente o no, sono stati dimenticati.
La Regione sarda ha in questo campo molto da fare, se è vero che quella Valdostana non solo ha rivalutato con studi eccellenti gli uomini che espressero la volontà di autogoverno dei valligiani, ma ha istituto scuole esclusivamente per lo studio dei più antichi documenti della civiltà nella Regione.
Giorgio Asproni nacque a Bitti il 5 giugno 1809. Come dirà in un suo scritto polemico (“Lezione prima ed ultima a Giuseppe Pasella”) «nato povero, popolano, sudai, agghiacciai, soffrii di veste e di ventre. Il padre mio era un plebeo». Andò in seminario per l’aiuto di uno zio prete, «rettore, canonico, uomo illuminato e venerando che immortalò il suo nome con le sacre popolari poesie». Dopo che fu ordinato sacerdote, nel 1833, si laureò in lettere nell’università di Cagliari; in seguito conseguì la laurea in giurisprudenza e si iscrisse nel Capitolo di Nuoro.
Nonostante i contrasti con alcuni alti prelati, contrasti determinati soprattutto dalla sua ostilità ad ogni forma di “codino”, ottenne il canonicato di Nuoro. Nel 1848, anno in cui si procedette alle prime elezioni regolate dallo statuto albertino, venne eletto deputato, ma non poté sedere nei banchi delle Camere Subalpine perché canonico penitenziere. Fu eletto, però, quasi di continuo in seguito; lasciato l’abito sacerdotale, fece parte, infatti, della III, IV, VII, IX, X, XI, XII legislatura rappresentando i Collegi di Nuoro, Lanusei e Genova III.
Nell’esercizio della sua attività riscuoté la stima ed il rispetto di tutti gli avversari ma ebbe acerrimi nemici fra gli stessi sardi. Un episodio serva ad esempio: quando nel 1844 l’arcivescovo di Sassari, monsignor Varesini, visitò la diocesi di Nuoro, lamentò la sottrazione deli preziosi tubi che rivestivano il bastone della croce patriarcale. Il canonico Ghisu, nemico dell’Asproni, fece gettare in carcere una povera vecchia perché testimoniasse che il mandante del furto era stato proprio l’Asproni. Dopo cinque anni i famosi tubi furono ritrovati in un armadio nella cattedrale di Nuoro! Di questa acrimonia si lamentò sempre l’Asproni e in un suo scritto così si può leggere: «Siamo chiamati pazzi e fanatici anche dai nostri concittadini. Tanto può la disonestà, la servile rassegnazione o il calcolo di farsi merito della negazione della verità».
Fino al 1860, con qualche parentesi genovese per la redazione di giornali mazziniani quali Il Pensiero italiano e Il Dovere, risiedette in Torino per la normale attività parlamentare che, per quanto riguarda le leggi a favore della Sardegna, portarono sempre il segno della sua continua e decisiva presenza. Nel 1857, quando Mazzini diede il via alla spedizione nel Napoletano, gli inviò Jessie White Mario, da Londra, considerandolo uomo capace di contribuire e porre le basi della nuova azione. Dal ’59 al ’60 si occupò clandestinamente della raccolta e dell’acquisto delle armi necessarie all’impresa di Garibaldi nonostante l’opposizione di tutti i governi compreso quello sabaudo.
Nel 1860 è fra i Mille e, a guerra conclusa, consigliere della cosiddetta dittatura di Garibaldi. In questo periodo si trasferisce definitivamente nel sud assumendo la direzione del Popolo d’Italia, ma collaborando anche a periodici del Nord come ad esempio L’Unità italiana di Maurizio Quadrio. Dopo aver preso parte ai tentativi garibaldini per Roma, falliti ad Aspromonte ed a Mentana, dal 1870 è a Roma e spesso a Napoli dove contribuì alle fortune del periodico repubblicano Il pungolo. Nel 1871 rappresentò il Circolo Operaio di Nuoro al 1° congresso delle Società Operaie Affratellate, prima grande organizzazione operaia dell’Italia moderna.
La morte lo colse in Roma il 30 aprile 1876.
Lo stesso giorno i dispacci giornalistici avevano inviato in tutta Italia notizie rassicuranti sulla sua salute. Garibaldi, che lo aveva visitato, lo aveva trovato in forze e lucidissimo. Ma improvvisamente il cuore cedette e agli amici riuniti accanto a lui, Bovio disse: «Viene meno l’anima civitatis». L’indomani quasi tutti i periodici italiani uscirono listati a lutto e la Camera, dopo una poco edificante discussione per l’opposizione della destra alla proposta del presidente Biancheri di apporre le gramaglie per tre giorni al banco della presidenza, lo ricordò degnamente. Le cronache del funerale che lo accompagnò al Verano parlano di una folla enorme di uomini politici, di cittadini illustri, di popolo, in mezzo alla quale spiccavano i rossi vessilli delle associazioni repubblicane e dei circoli popolari di Roma e dei Castelli.
Come prima dicevamo, furono i dissapori con alcuni prelati a costringerlo ad abbandonare il canonicato nuorese e a indirizzarlo definitivamente alla vita politica nelle file dei mazziniani. Seppure la sua qualifica gli impedì di sedere fra i deputati nelle prime elezioni, peraltro la sua voce non venne meno nella stampa: sono di questo periodo gli scritti de Il Pensiero italiano, il giornale genovese di Nicolò Accame. La continuità degli articoli riesce a darci, giorno per giorno quasi, la cronaca della sua vita e del maturare del suo pensiero politico.
Le condizioni miserevoli e le possibilità di rinnovamento della Sardegna furono sempre fondamentali nella valutazione della scelta politica; comprendendo che soltanto l’unità italiana avrebbe tolto l’Isola dalla dominazione piemontese, aderì subito al primo punto del programma della “Giovane Italia”. Fu sempre chiaramente repubblicano anche se nei primi tempi cedette talvolta alle tentazioni ed alle illusioni di una politica di “provvidenze ministeriali” o ad impegni governativi solennemente assunti di fronte al Parlamento.
A queste sue prime posizioni di fiduciosa attesa non fu estranea la sua formazione culturale, legata agli ambienti cattolici, e la terribile situazione di disagio economico della Sardegna. Bastarono, però, dieci anni di vita assidua e preziosa nel movimento ideologico.
Dopo che svanirono i benefici delle prime riforme liberali, dopo che l’unione col Piemonte rivelò la persistenza del suo carattere oppressivo caddero tutte le illusioni: l’unità della monarchia, anziché italianizzare il Piemonte, piemontesizzò l’Italia e «la Sardegna trangugiò fino all’ultima stilla il calice dell’amarezza». «Gioberti – scriveva – che ci onorava di italianissimi con sonore frasi, apriva pratiche col governo di Napoli per darci a Ferdinando II in cambio della sua cooperazione nella guerra all’Austria; dal ’54 al ’55 Cavour trattava a spese nostre l’acquisto di Parma e Piacenza e ora (1860) vuole trattare con la Francia per la vendita della sua Irlanda: la Sardegna!».
Queste esperienze dolorose valsero a condurlo con maggior nettezza alle impostazioni della scuola repubblicana, provocandogli le inimicizie degli avversari i quali, però, se erano sottoposti ad una certa sua violenza polemica, non incontrarono mai da parte sua falsità, calunnie o carenza di serenità nel giudizio.
Nel 1861, quale commissario della legge sulla soppressione delle corporazioni religiose, motivando il suo voto contrario al governo Ricasoli, chiese che le terre confiscate venissero distribuite a piccoli proprietari e, ricordando la sua vita di prete di montagna, propose che gli appartenenti alle dette corporazioni venissero restituiti alla vita civile ed al lavoro produttivo. Uguale sereno atteggiamento mantenne quando si parlò della abolizione delle decime in Sardegna accusando il Governo di lasciare languire nella più nera miseria il clero sardo, mentre incamerava le decime nella imposta prediale.
Abbiamo detto che l’Asproni fu un mazziniano mirando soprattutto alla situazione sarda. L’ideologia repubblicana rappresentava infatti l’affermazione di un nuovo diritto pubblico che avrebbe permesso ai sardi l’acquisizione di una coscienza civile, presupposto indispensabile di una effettiva forma di autogoverno. Troviamo così nei suoi discorsi e nei suoi scritti, l’impressionante documentazione dei mali dell’Isola, le ragioni storiche, istituzionali, politiche, sociali, che impedivano allo Stato monarchico di sanarli ed infine, nella sua visione repubblicana, la necessità che il popolo sardo, per diritto e per dovere, fosse chiamato a creare e promuovere il proprio destino.
I temi fondamentali della sua azione politica riguardavano problemi gran parte dei quali non sono ancora risolti oggi. Le questioni riguardanti le comunicazioni con il Continente, la sicurezza pubblica soprattutto nel Nuorese, la questione agraria e gli ademprivili, il decentramento amministrativo all’interno della regione, aspettano quasi tutti una soluzione che l’Asproni additò con l’aiuto di una profonda conoscenza delle cause storiche, economiche e sociali.
Il rispetto col quale veniva considerato in Parlamento da amici ed avversari (il lutto al banco della Presidenza fu apposto soltanto quando morirono Cavour e Rattazzi), gli era dovuto non solo per la maggiore età e la lunga esperienza di deputato (nel ’76 era uno dei pochi superstiti della Camera Subalpina), ma anche perché poche volte il Parlamento ebbe fra i suoi membri un difensore così accanito delle sue prerogative.
«Dal 1848 – scriveva nel 1866 – un solo ministero cadde e surse secondo le norme parlamentari e fu quello che succedette a Cesare Balbo. Da quei tempi tutti i gabinetti sparirono e si rinnovarono per cause, se non ignorate, certamente estranee al Parlamento, fenomeno grave che merita di essere studiato dagli uomini di stato e dal popolo per ritrovare le vie della libertà».
Altra volta attaccò vivacemente Bettino Ricasoli il quale aveva detto alla Camera: «Governerò secondo il mio cuore, la mia mente» dimenticando la volontà del Parlamento. Il sistema di scavalcare il potere legislativo da parte di quello esecutivo fu sempre combattuto dall’Asproni in omaggio alle sue convinzioni di rispetto della volontà dei cittadino e dei suoi rappresentanti. «Nelle monarchie la Corona fa la guerra, tratta la pace, nomina le persone delegate a dirigere le leve del Paese. Che rimane al popolo? La elezione dei suoi deputati, a suffragio ristretto con liste torturate dai prefetti: se il governo interviene ancora, la elezione si converte in nomina e si crea un dispotismo volpino, peggiore della tirannide aperta, perché celato dalla maschera di libertà». Così scriveva in una sua nobilissima “Lettera agli elettori della provincia di Nuoro” nel 1867.
In essa, assieme ad un rendiconto della sua attività, esaminava i problemi della Sardegna e del Nuorese, in particolare, additando nella riforma autonomistica e nella libertà del Comune le basi del rinnovamento morale e materiale del popolo sardo. «Era universale il grido che dalla Capitale non si poteva governare l’Italia: l’unità colle stringhe partorisce odi non amore!».
È in quel periodo l’affettuosa vicinanza di Cattaneo che nel 1839 aveva fondato Il Politecnico del quale l’Asproni era il corrispondente sardo. Con elementi fornitigli dal Nostro, il grande federalista pubblicò infatti Della Sardegna antica e moderna e Semplice proposta per un pronto miglioramento generale dell’Isola di Sardegna (1859).
Nella sua lettera agli elettori nuoresi le convinzioni federaliste appaiono fermamente radicate: qualche anno dopo, trasferitosi nel Sud al seguito di Garibaldi, parlò di una Lega insulare sardo-sicula che spazzasse l’accentramento unitario. «Perché non lasciamo alla Sicilia e alla Sardegna la facoltà di soddisfare i propri supremi bisogni? Finché saranno governate ed amministrate coi proconsoli, col telegrafo, finché adopereranno i bottoni di fuoco, gli stati d’assedio, le fucilazioni senza forma, i giudizi sul tamburo, saranno infelici e saranno un disturbo, una cancrena per lo Stato. Per legge eterna ed immutabile le isole sono e saranno quali natura le fece, cioè sui generis. Noi sardi proclamammo la nostra italianità nelle innocenti manifestazioni del 1847-48; la Sicilia nelle barricate dell’eroica Palermo. Ma questa felice unione non si può consolidare né cementare con le violenze o con società leonine; bensì con la giustizia, con l’eguaglianza dei diritti e con la libertà. Per i tributi e gli oneri sono messe in categoria di prima classe: anzi, respinte e derise furono le ragioni della Sardegna che domandava parità di trattamento, quando le imponevano l’enorme tributo del 10 p.c. con centesimi addizionati per i soccorsi (che non ebbe mai) in casi di danni per ira della natura, mentre in Piemonte si pagava il 6 p.c. Abbiamo pagato e paghiamo per le strade ferrate e rotabili delle provincie continentali. Per tutte le provincie d’Italia si decretarono strade ferrate, con garenzie cospicue e con premi e a spese dello Stato; alla Sardegna per ottenerle con legge fu chiesto il sacrificio di 200.000 ettari di terra usurpata dalla prepotenza feudale ai Comuni, senza loro controllo, ed a monarcale beneplacito, e finalmente contestate dal fisco che pretendeva nuovi diritti sulla cosa propria ricuperata a caro prezzo».
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Già nel 1849 su Il Pensiero italiano di Genova, aveva dato sconcertanti elementi per giudicare lo sfruttamento della Sardegna. In un articolo riguardante, ad esempio, la riforma dei Monti di Soccorso notava: «I Monti di Soccorso hanno dote di grano e danaro. Quelli del Cagliaritano, rappresentanti settantadue villaggi, fornirono alla Corte esiliata in Cagliari per l’avventura napoleonica, 181.369 starelli di grano, 11.548 starelli di orzo, 224.220 lire sarde antiche pari a 430.502 franchi»!
Non meno incisivo era quando analizzava i problemi riguardanti i trasporti, l’invio dei funzionari, la sicurezza pubblica, le divisioni amministrative e la situazione agricola e pastorale. Ecco un brano tratto da Il Pensiero italiano: «… bisognerebbe che una buona volta cessasse la spedizione in Sardegna delle orde di impiegati da terraferma, massime se di rea coscienza ed inetti; troppi ormai ne hanno i sardi tollerati, ed è scandaloso l’esempio continuo di quanti approdano nell’Isola dimessi, magri e spogliati: non appena satolli e impinguati passeggiano vanitosi a cavallo, e versano a larga mano le contumelie e il disprezzo sopra quell’India che ha virtù di farli in breve tempo da poveri ricchi, da umili superiori, capaci o galantuomini giammai!».
Sul problema dei trasporti, vecchia piaga della Sardegna, martellò i governi con la richiesta di migliorare i servizi e di portare a due alla settimana le corse col Continente che si riducevano a 4 mensili. Pose sempre in rilievo la scarsa sicurezza delle navi le quali, passando le Bocche di Bonifacio, spesso erano costrette a cercare rifugio in baie sicure fino alla calma dei fortunali. Sui servizi postali nell’interno disse una volta alla Camera: «Vi sono centri, da noi, che distano appena due ore. In più breve tempo si avrebbe la risposta in Torino da Londra».
Sulla situazione della pubblica sicurezza ecco un brano di un articolo pubblicato nel 1860 su L’Unità italiana: «La pubblica sicurezza è un voto antico mai appagato. Molti ci accusano di spirito vendicativo. Se esaminassimo con animo pacato ed imparziale gli atti del Governo nell’Isola, forse vi troveremmo nascosto un inesauribile tesoro di odio e sete mai saziata di vendette. Il 1794 non fu mai amnistiato! Per farcelo scontare spinsero le passioni al grado inarrivabile di pregiudicare i propri interessi per far male a noi. (Nel 1794 i sardi gettarono a mare i piemontesi); Per tutelare roba e vita dei cittadini abbiamo in servizio attivo un corpo di 800 carabinieri. La metà, a piedi, è appena utile nelle città popolose. Restano 400 a cavallo. Detraete gli infermi e vedrete quanti pochi restino alla sorveglianza. La Sardegna è un settimo più vasta della Lombardia, ha 569.000 abitanti sparsi in piccoli Comuni e grandi distanze senza strade e mezzi di comunicazione ed ha appena 600 carabinieri attivi per l’ordine pubblico. Provino per tre mesi a lasciar Torino nelle medesime condizioni; essi vedranno i tristi effetti delle ruberie, degli omicidi, delle vendette. Aggiungete che i carabinieri di Sardegna sono mal rimunerati non avendo voluto il Governo fonderli con quelli del Continente».
Nella già citata “Lettera ai suoi elettori” (1867) diceva: «… incalzando il ministro Iacini perché ordinasse l’immediata costruzione della tratta da Nuoro per Orune e Bitti, io gli presagiva i disordini che nascerebbero dalla disperazione per fame, avvertendolo che gli abitatori delle nostre montagne, piuttosto che perire di digiuno, corrono le avventure di morire col ferro in pugno aggredendo e rubando per nutrirsi. I disordini non si fecero aspettare. Seguirono le aggressioni e il terrore di bande armate. Per fortuna l’animo fiero delle nostre popolazioni fece argine al male. Se no, il Governo avrebbe speso in repressioni che lasciano sempre tracce di odio, e addentellato a future vendette e perturbazioni, più che non avrebbe utilmente speso a dare lavoro e pane alle moltitudini che ne sono prive».
Dove però l’Asproni trova motivi di modernità, o come si dice di scottante attualità, è sul problema delle divisioni amministrative, della redenzione civile del Nuorese concepita attraverso la rottura del “regime di tutela pupillare” dai due centri maggiori attraverso lo sviluppo delle funzioni e delle prerogative dei liberi Comuni, attraverso il miglioramento delle condizioni economiche dei contadini e dei pastori.
In una lettera ad un amico di Bitti scriveva nel 1872: «Per noi non c’è salvezza che nella indipendenza del Comune e nel ristabilimento del centro amministrativo in Nuoro: Cagliari e Sassari saranno sempre due trombe aspiranti!».
Nessuna animosità però verso le due città, sedi obbligate di sfruttamento governativo, se altra volta diceva: «Sassari è città ritemprata a sensi italianissimi. Quando correvano tempi funesti, ivi si mantenne sempre accesa la favilla della libertà e quel mons. Ranaldi che fu mandato in Sardegna per esplorarne lo spirito ed esalarsi l’anima fra le intemperanze del vino e dei cibi, nei suoi segreti rapporti marcava Sassari come il punto ove in Sardegna si svilupperebbe il primo segno di quello che allora “carbonarismo” appellavasi ed oggi, con vera proprietà, si dice amore alla nazionalità e libere istituzioni. Né minore confidenza il nostro cuore ripone nella città capitale di Sardegna, in Cagliari. Incede essa con lentezza e gravità ma sempre ferma nell’idea di vedere la comune causa in trionfo».
E altre volte ancora: «Noi nuoresi siamo isolati nelle montagne: i due centri sono agli estremi punti dell’Isola e saremo sempre sfruttati e abbandonati perché dipendenti da loro con questo regime di tutela pupillare. Se avremo la completa emancipazione del Comune, come io desidero e propugno, colle annuali elezioni, riservata al Municipio la scelta del proprio Sindaco, se avremo piena libertà ed amministrazione comunale e provinciale; se avremo, infine, ampie facoltà di unione in spontanei consorzi comunali che male ci sarebbe se la Sardegna si riducesse ad una sola provincia, invece di dividerla in tre? La soluzione del problema è dipendente da più o meno largo discentramento, dalla più o meno larga ingerenza governativa nei negozi comunali e provinciali. Io desidero però più la libertà del Comune che la Provincia. E’ adagio antico che il pazzo in casa propria vede meglio del savio in casa altrui. Vi saranno incomodi, specialmente nei primordi, ma scemeranno con sommo beneficio dei popoli che apprenderanno ad amare. A riguardare la cosa pubblica come cosa propria. La tutela ci fa infingardi e ci paralizza: resteremo sempre nella condizione di infelici pupilli, preda degli scaltri e degli intriganti che troveranno le vie al favore della autorità, se dureremo sotto la sferza dei prefetti e sotto sindaci nominati sulle informazioni, raro spassionate, di chi vuole strumenti per comandare, e non magistrati graditi per virtù morali e per idoneità a governare ed amministrare il Comune con le leggi e la prudenza».
Questa concezione dei compiti di una comunità democratica, articolata negli organi idonei ad esprimere la volontà popolare, scaturiva da obbiettive esigenze della situazione sarda inquadrandosi nell’azione per la riforma della struttura dello Stato condotta dalla scuola repubblicana, così come il suo pensiero sui problemi sociali era il contributo della Sardegna democratica alle indicazioni che Giuseppe Mazzini aveva dato alle prime organizzazioni dei lavoratori. Prima e dopo il congresso del 1871, dal quale scaturì il patto di fratellanza tra Società Operaie, fu costantemente delegato dal Circolo Operaio e dalla Società di Mutuo Soccorso di Nuoro che, nonostante il maggiore sviluppo delle Società nel Sassarese e nel Cagliaritano, a differenza di quelle, non mancò mai del suo rappresentante ai congressi. Presiedette l’undicesimo congresso delle Società Operaie, nel 1864 a Napoli dove, dirigendo Il Popolo d’Italia, precedentemente diretto da Aurelio Saffi, combatteva la sua battaglia meridionalista.
Il decimo congresso lo aveva voluto nella Commissione permanente, l’organismo dirigente al quale era stato dato mandato di provvedere alla pubblicazione in Genova del periodico Giornale della Associazioni Operaie Italiane (3 gennaio 1864). Nel programma del primo numero, che porta anche la sua firma, si legge: «L’operaio italiano è povero di storia, ma ricco di tradizioni. La storia, intenta a rappresentarci a grandi tratti le vicende dei personaggi e delle caste privilegiate, ha sempre negletto le moltitudini povere. Il povero di conseguenza è passato attraverso l’età portando tutto il peso delle maledizioni e delle ingiustizie sociali». Qualche anno prima aveva ripotato, commentandolo favorevolmente, questo pensiero tratto da Il Credente, il travagliato periodico repubblicano sassarese diretto da Giuseppe Giordano: «Io credo che il socialismo, ma quello espresso dalla formula “Libertà e Associazione” sia il solo avvenire non lontano dell’Italia e dell’Europa».
La Società di Mutuo Soccorso di Nuoro, della quale era presidente onorario, «deliberava nell’assemblea dell’8 maggio 1876 che venisse costituito nel suo seno un comitato all’oggetto di raccogliere offerte per erigergli un monumento in Nuoro» (L’Emancipazione, 1876).
Tutto questo vale a farci notare la sua presenza nel Movimento Operaio Italiano che già nelle Leghe di Resistenza sperimentava la propria capacità di lotta sindacale contro il privilegio capitalista. Ma ci fu qualche cosa che l’Asproni, e con lui i repubblicani sardi, intuì chiaramente ma che nessuno allora mostrò di comprendere: il rinnovamento sociale prima che problema di giustizia era problema di libertà. Ad un proletariato, o meglio a un popolo, libero e padrone dei propri destini, non sarebbe stato possibile imporgli remore nello sforzo di emancipazione. Tale orientamento si adattava perfettamente alla situazione del popolo sardo che, sottoposto al dominio vicereale fino al 1848 e poi, con la abolizione degli Stamenti, unito in maniera effimera alla terraferma, si dibatteva in una economia primitiva e nettamente precapitalista. La borghesia sarda, infatti, che Gramsci chiamerà priva di tradizioni, di genio, di iniziativa, non subì la lenta evoluzione che portò quella continentale alle innovazioni liberali e alla conquista della direzione economica: il feudalesimo in Sardegna scomparve formalmente nel 1836 ma durò fino a tutto il secolo XIX e quando sembrò possibile l’avvento della borghesia locale (che conduceva una vita addirittura di livello più basso di quella di evoluti strati proletari di altri paesi), la borghesia della penisola, già esperta ed avvezza alle imprese industriali, con l’apertura prodotta dall’unione del ’48 e l’abolizione degli Stamenti Sardi, calò a monopolizzare le risorse industriali della Sardegna che appunto per questo mai servirono a migliorare le condizioni di vita del popolo.
Ecco il suo pensiero al proposito, da un articolo del 1862: «Se al tempo della fusione col Piemonte avessero ascoltato il giudizio di pochi che incitavano a conservare l’autonomia, oggi avremmo strade, scuole e sicurezza pubblica».
Ma fu soltanto colpa della borghesia se essa mancò al suo compito? Nel 1871 così diceva l’Asproni: «La mancanza di ingenti capitali ci rende inetti ad effettuare ogni ardito e vasto concepimento. I piccoli possidenti sono moltissimi ma, oppressi come sono dalle gravi tasse non pensano, né hanno la possibilità di migliorare i loro poderi o di introdurre i nuovi metodi che la scienza moderna suggerisce all’agricoltura». E più avanti: «Fino al 1816 non vi fu alcun servizio regolare col Continente; solo nel 1820 si aprì la prima strada che si finì nel 1830; nel 1840 fu impedita la esportazione di bovini in Algeria e più tardi quella dei formaggi nel Napoletano. Nel ’46 e ’47 si moriva letteralmente di fame per le strade. I feudi furono aboliti soltanto nel 1836».
L’abolizione del feudalesimo non apportò però i benefizi che altrove si ebbero, soprattutto perché il contadino sardo o il proprietario fondiario non fu messo in condizioni di progredire, assalito com’era dal fisco e isolato dalle grandi linee commerciali. L’istituzione della proprietà privata perfetta, operata colla legge delle “tanche” del 1820, lo imprigionò nel suo pezzetto di terra cintato dal muro a secco e lungi dall’invitarlo ad una coltivazione, che prima bene o male esercitava nelle comunità degli ademprivili, lo allontanò vieppiù dalle campagne.
L’Asproni combatté la legge non per i suoi intendimenti, che miravano ad abolire lo sfruttamento irrazionale delle terre e il pascolo brado, ma per gli abusi che attraverso essa si compirono e perché, abolita la collettività nello sfruttamento, enormi gravami fiscali si riversarono sui nuovi proprietari. Nel 1849 pubblicò un opuscolo polemico di risposta ai Riscontri del senatore Alberto Della Marmora del quale opuscolo apprendiamo come l’autore di Voyage en Sardaigne lo avesse chiamato «campione del comunismo nell’Isola» perché aveva difeso quei nuoresi che si erano opposti con sommosse al pagamento di tasse che il fisco imponeva si dovessero pagare al Comune proprietario del Prato S. Michele, nel quale si coltivava la terra liberamente. Comprendeva bene, però, che la piccola proprietà, protetta dalle tasse e aiutata da opportuni provvedimenti, sarebbe stata la formula fondamentale del risveglio economico sardo.
Alla Camera così parlò nel 1857: «Noi abbiamo il flagello della pastorizia errante la quale occupa troppe terre e che mai si potrà abolire se non ci sarà la proprietà privata perfetta e questo non l’avremo se non finirà l’urto tra i diritti di ademprivio e le pretese del Demanio che sono oggi la più micidiale piaga della Sardegna. Finché durano gli adempirvi, finché dura questa lotta funesta tra popolo e fisco noi avremo i pastori nomadi, la impossibilità di consolidare la proprietà territoriale e la impossibilità di pascoli regolari, di tenimenti con stalle e di perfezionamento agricolo».
Fin qui il pensiero sulla situazione agricolo-pastorale ma potremmo ancora andare avanti, non usciremmo dai limiti prefissici, su tutti i problemi che furono alla ribalta della vita sarda e italiana nel secolo scorso e che lo sono ancora oggi. Tanto può dirci e potrà dire a chi voglia riportare alla luce impreveduti tesori, l’enorme serie di discorsi e scritti che accolgono il grande patrimonio delle idee di Giorgio Asproni. E per non lasciarsi andare a frasi apologetiche, che egli sempre fuggì, verrà riportare il giudizio che il Brofferio scrisse nella Storia del Parlamento Subalpino: «Canonico sì, ed anche avvocato; non col camice capitolare veniva in Parlamento, sibbene col mandato del circolo popolare di Nuoro dove la sarda democrazia erasi prodigiosamente infiltrata nelle vene di un prete e nei tendini di un curiale. Alla vasta dottrina del pubblicista non era inferiore il fervido ingegno e l’ardito patriottismo. Impiegava la vita cittadina a lottare per la libertà. Sempre all’avanguardia, uomo incrollabile, fra tanto lusso di apostati non si è disdetto mai!».
«Frangar non flectar» scrisse sulla sua tomba Bovio: a riassumere tutta una vita.