La scomparsa di padre Raimondo Turtas, di Gianfranco Murtas
La storia della Chiesa sarda del Novecento e oltre ricorderà il suo storico eccellente, nel solco dei Filia, nella compagnia dei non molti altri, ciascuno con una sua identità precisa, fra i Pisanu e i Cabizzosu, gli Zichi e altri tre o quattro, non di più.
Padre Raimondo Turtas, bittese come Giorgio Asproni, era un gesuita nato secolare, e credo che della formazione secolare avesse conservato alcuni tratti fusi con quella libertà di ricerca – che è libertà intellettuale e interiore, allenata al discernimento responsabile – che tutti testimoniano esser stata la cifra dei gesuiti professori ed educatori al seminario regionale di Cuglieri.
Non ho modo, oggi, di diffondermi sull’opera ricca e varia di questo storico della Chiesa importante e infaticabile. La bellissima raccolta di studi in onore dedicatagli nel 2012 da una trentina di autori (ciascuno per la propria specializzazione) e pubblicata, ad iniziativa dell’università di Sassari – dove egli insegnò a lungo – ed a cura di Mauro Giacomo Sanna, dalla cagliaritana editrice AMD sotto il titolo di Historica ed Philologica, dà benissimo conto, idealmente, della complessità delle sue ricerche: la scheda bibliografica d’apertura – l’incipit è collocato al 1971 – dà conto di 132 pubblicazioni fra monografie, contributi a collettanei, articoli, interventi a congressi storici ed ecclesiali di varia occasione, in Italia e fuori.
Ordinato prete da monsignor Giuseppe Melas, vescovo di Nuoro – colui che tre anni dopo avrebbe ordinato anche il giovane (storico professionale anche lui) Ottorino Pietro Alberti, entrò per completare più alti studi (all’Aloisianum) e militarvi da “missionario” nella Compagnia di Gesù. Fu a lungo in Madagascar – terra di un altro gesuita (e medico) sardo, padre Papoff –, imparò al meglio la lingua locale e ancor più, lui bittese asproniano, affinò la sensibilità alla grande questione della “inculturazione”. Così in quell’Africa profonda come, un giorno, ritornandovi, nella sua Sardegna. Da qui, forse anche di qui, il suo impegno per la lingua sarda nella liturgia.
Rientrato in Europa, allievo della Faculté de théologie de Lyon-Fourviére, della Pontificia Università Gregoriana di Roma, dell’Institute of Historical Research, venne infine giustamente riassegnato alla sua terra, alla sua Sardegna, portatore della “ricchezza del mondo”: ricchezza di saperi e ricchezza di esperienze, anche l’esperienza della povertà e perfino della miseria.
Professore alla facoltà di Magistero a Sassari, collaboratore fedele del giornale della sua diocesi di provenienza – L’Ortobene di Nuoro cioè (che sarebbe bello desse alle stampe, adesso, la raccolta dei suoi articoli!) – avviò una intensissima produzione di lavori. Do uno sguardo rapido alla sezione della mia libreria: così a caso ecco I Gesuiti in Sardegna. 450 anni di storia (1559-2009), Cagliari Cuec 2010, La Casa dell’Università. La politica edilizia della Compagnia di Gesù nei decenni di formazione dell’Ateneo sassarese (1562-1632), Sassari Gallizzi 1986, Pregare in sardo. Scritti su Chiesa e Lingua in Sardegna, a cura di Giovanni Lupinu, Cagliari Cuec 2006, Lingua sarda e liturgia, con Bachisio Bandinu e Antonio Pinna, Selargius Domus de Janas 2008, ecc. Nel novero naturalmente quella fondamentale e corposissima Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma Città Nuova 1999, scritta con uno spirito di libertà interpretativa assolutamente ammirevole.
Incontrai padre Turtas in varie occasioni, ma un incontro più efficace, diciamo così, fu all’Ostello della gioventù di Cagliari, il 13 giugno 2011, quando anch’egli prese la parola al convegno sul decennale del Concilio Plenario Sardo, che gli amici del gruppo Cresia – quello che Paolo Fadda, Bachisio Bandinu e Salvatore Cubeddu misero su all’indomani della “crisi di Sant’Eulalia”, col parroco don Cugusi (ingiustamente) rimosso dall’arcivescovo pro tempore ecc. Fui io incaricato della relazione di base, poi si aprì il dibattito, e fra gli intervenuti, oltre all’arcivescovo Tiddia, a don Antonio Pinna, a don Efisio Spettu – già rettore del seminario regionale (altra vittima dell’arcivescovo pro tempore) – fu anche il padre Turtas: per rilevare, fra il molto altro, che mentre negli Atti si faceva carico al clero e al laicato isolani di dare attuazione pratica ai deliberati conciliari, pari carico non si faceva, e non era assunto… dall’episcopato, che invece avrebbe dovuto essere il primo interessato nella legge dei doveri, infatti disattesi.
Nel dicembre del 2016, lavorando alla nuova edizione della sua Storia della Chiesa in Sardegna, ricevetti da padre Turtas svariate telefonate finalizzate ad acquisire materiali di studio che avevo raccolto ed anche esitato in diversi libri e in riviste e giornali e siti. Da lì – compatibilmente con i gravi malanni che lo avevano afflitto e lo costringevano a una riduzione drastica delle ore attive nella giornata, nella casa sassarese dove era tornato dopo un lungo ricovero all’ospedale gesuitico di Gallarate – iniziò una certa corrispondenza durata alcuni mesi.
Una breve corrispondenza
Soltanto per darne onore al padre, e non ravvisando motivi superiori di riservatezza, mi sento di accennare qui allo scambio di email, valorizzando i suoi scritti naturalmente:
«Solo oggi mi sono accorto dei tuoi articoli inviatimi oltre un mese fa; ndhe juco sa cara in terra. Scusami, perdonami per il ritardo, non so proprio come questa manna mi sia sfuggita: alcuni pezzi li conoscevo, altri no. Ci tornerò con molto despacio. Debbo tornare alla mia seconda edizione della Storia della Chiesa. Ho scovato, sotto forma di una ninnananna (anninnoe) forse la formula usata dai penitenti per confessarsi in previsione del precetto pasquale, di cui parla l’arcivescovo Castillejo, metà Cinquecento, pubblicata a Gavoi nel 1987: mi affretto a segnalarla nella seconda edizione (Padre in custu Barantinu = Quaresima, non so galu cuffessatu …). Scusami per la fretta. A presto e ancora grazie. Raimondo Turtas».
«Secondo concilio plenario sardo, che ne pensi di questa avventura? Hai scritto qualcosa? oppure, il solo parlarne, è anche per te ecclesialmente scorretto? Saluti e a presto. Rai».
«Caro Gianfranco, si tratta di uno dei firmatari di un documento che firmò anche l’allora Angelo Becciu, ora ‘cardinale’, definito ‘indimenticabile’ ; [Padre Luigi Oitana, già docente a Cuglieri]: Che cosa ricordi su di lui?, eravamo molto amici e durante un recente periodo trascorso a Gallarate per rimettermi in sesto nella misura del possibile mi sono messo in contatto con i suoi familiari in particolare una nipote che lo visitava a Gallarate dove morì parkinsoniano nel 2008 e non riesco a perdonarmi di non aver capito la gravità della sua malattia e di non averlo visitato. Chissà…Ti ripeto anche una mia precedente richiesta: che ne pensi di una Chiesa sarda che chiede a Woitila di celebrare un conciilio plenario, lo prepara lo elabora, fa lavorare a morte il p. Mosso, ne ottiene l’approvazione, lo stampa, lo promulga, ne stabilisce l’entrata in vigore per la prima domenica d’Avvento del 2001 poi lo butta tra la carta straccia. Che se ne dice a Cagliari? Ricordo il convegno di Cagliari. Ora sto preparando la seconda edizione della mia Storia della Chiesa dalle origini al Duemila uscito nel 1999. Dammi qualche dritta. Saluti.Raimondo»
«Grazie per l’immediata risposta; mons. Mani ci avrà sicuramente la sua parte, ma tutto era iniziato vari anni prima. Il giorno stesso in cui venne promulgato il secondo concilio plenario sardo (Cagliari 1° luglio 2001) venne stabilito che esso sarebbe entrato “in vigore a partire dal 2 dicembre 2001, Domenica prima di Avvento. Le norme conciliari[...] hanno valore per tutta l’Isola; e alla sua osservanza sono tenuti i Sacerdoti diocesani, i Religiosi e i Fedeli laici”. Fu una omissione voluta a bella posta non averci compreso anche i vescovi, col pretesto che chi fa la legge non è tenuto a quella legge? Un modo elegante per preparare il nulla di fatto che avvenne in seguito. Come se il papa – dopo aver emanato una definizione ex cathedra – pensasse: “Tutti i cattolici la devono prendere sul serio, ma io non mi ci impicco!” Tutto mi porta a pensare che nella magniloquente espressione di Alberti e dei suoi colleghi ci fosse già – cosciente – la decisione di non fare più nulla, come di fatto avvenne. Saluti. Rai».
Questa la mia risposta (poiché non aveva ricevuto):
«Carissimo, forse le mail si erano incrociate. Avevo risposto così:
Il Concilio, secondo me, ha avuto – dato il quadro generale anche piuttosto arretrato della Chiesa e dell’episcopato sardo – meriti di potenzialità più che di realtà.
Cioè valeva più per quello che poteva diventare nella applicazione, e per le motivazioni della applicazione, che non per i testi pubblicati, in sé peraltro egregi.
Ma l’effettività è mancata e quel “movimento”, quel dinamismo di Chiesa che avrebbe dovuto venirne non è venuto per la collosità di uomini e strutture e situazioni.
«Con un episcopato dalla schiena curva, con un clero senza chiara ed avanzata consapevolezza dei suoi doveri (e invece con tutte le comodità borghesi dello status, casa e assegno mensile), con un laicato o frazionato in movimenti/associazioni privi di spirito comunionale e di sapide convinzioni evangeliche, tutto è rimasto al palo.
Colpa collettiva, perché ancora i pochi cervelli lucidi non vogliono ferire con le loro analisi, e si fanno complici di un paralizzante quieto vivere.
«E’ questo che ha consentito a Mani di prendere la presidenza: ho dato il dettaglio, per iscritto, una volta, della tornata che lo portò alla presidenza […]: i ragazzi di Cagliari partivano per Roma, quelli di Ales o Iglesias o Ozieri dovevano “accontentarsi” di Cagliari; non risultano verbali pubblicati per lunghi sei anni di presidenza Mani alla CES e nessuno ha mai protestato. Spettu è stato licenziato, e chi lo ha difeso?
«Poteva un corpo di Chiesa così debole partorire un movimento rinnovatore dello spirito oltre che delle strutture? e ciò proprio in una fase in cui Roma non accompagnava, con la decadenza di Wojtyla e poi con la distrazione di Ratzinger? Cosa sia – un peccato strutturale – la Curia vaticana lo abbiamo visto con il caso Cugusi ma anche con quello Piras. E ancora oggi con Miglio. […]
«Anche quando si parla con i migliori, dico con gli spiriti critici (ma comunionali) si deve prendere atto che tutto finisce con i saluti, con una assunzione di responsabilità a far fare un passo in avanti alla baracca.
«La stessa perdita di numeri del clero è una benedizione non una maledizione. Ma non si riesce ad attivare nessun meccanismo alternativo, alcun altro modello, forse con l’eccezione di Ales. Ma nei centri urbani? E noi siamo sempre più polarizzati, dato lo spopolamento delle zone interne».
«9 giugno 2017
«Che cosa aggiungere adesso? Che una impropria considerazione dei propri doveri di “carità” verso l’altro porta a farci complici, anche e soprattutto nella Chiesa, della neghittosità e della schiena curva davanti alla prepotenza. In sostanza il quieto vivere rischia di far morire associazioni, parrocchie, organismi diocesani, diocesi stesse.
«Ad ogni benedizione urbi et orbi il papa è salutato in piazza San Pietro dall’inno di Mameli suonato dai pontifici mentre i carabinieri suonano l’inno vaticano. Forse nessuno ha mai detto a Wojtyla e Ratzinger e Bergoglio – che sono stranieri – che l’autore delle parole dell’inno era un ragazzo di 22 anni che fu ucciso a Roma dal fuoco francese chiamato dal papa beato Pio IX. E scrissi una volta a mons. Piseddu, mio buon amico, e al tempo ancora a Lanusei: richiamandomi al sangue ogliastrino dei Mameli proposi a Piseddu, nel 2009, anno 160° della morte crudele del ragazzo (gli fu amputata la gamba andata in cancrena, fu in agonia per un mese e infine morì, mentre il papa se ne ritornava a Roma dall’autoesilio di Gaeta) una qualche iniziativa magari liturgica, una messa in suffragio di Goffredo, e una riflessione pubblica della Chiesa sarda sul risorgimento patrio. Conosciamo quella storia, nella quale forse si salvò soltanto l’anima del canonico Muzzetto. Mi rispose Piseddu che non conosceva bene quella pagina di storia, per cui era bene non farne nulla. Io questo l’ho raccontato in internet, perché penso sia dovere farlo.
«L’altro giorno sono stato al cimitero di Bonaria e fra l’altro ho visitato la cappella di famiglia Devoto-Onnis e della vicenda della Devoto ho scritto molte volte: angosciata per la morte repentina del marito (infarto) che seguiva la morte dei tre figlietti loro, nel 1894, lei si procurò un veleno e si uccise; a Sant’Eulalia fu fatto un funerale solenne per entrambi ma il parroco presidente don Pinna, saputo durante il tragitto, di quella circostanza, divise il corteo e lui accompagnò soltanto il marito; perché pensò che il suicidio fosse uno sgarbo ideologico a Domineddio, invece che un atto di sconforto supremo; questo giudizio sui suicidi (letti sempre ideologicamente dalla Chiesa, invece che come preda di depressione) ha portato alle inumazioni in terra sconsacrata ecc:, oggi ai suicidi si fa un funerale solenne perché si chiede perdono per non aver saputo intercettare tanta sofferenza. E però, il card. Ruini ha imposto i non funerali religiosi a Welby nel 2006, dopo trent’anni di sla: e chi ha battuto ciglio? quale vescovo? quale parroco ha fatto funerali solenni per Welby nella propria parrocchia? questo l’ho contestato anche a Cannavera o a padre Morittu: se lo avessero fatto, dato il rispetto di cui godono, si sarebbe creato un movimento d’opinione, invece niente, quieto vivere. Senza considerare che Ruini e i suoi plaudenti appena sei anni prima avevano applaudito alla beatificazione di Pio IX che i ragazzi li mandava lui al creatore anzitempo con la ghigliottina, ultimi Monti e Tognetti 1868, 23 e anni e 33 di età. Beato il ghigliottinatore, senza funerali chi ha patito trent’anni di sla. E’ Chiesa di questi anni. Parlare anche del Concilio Plenario Sardo senza entrare in queste coordinate valoriali universali può essere riduttivo. Ci penso.
«Abbracci, gfm».