“La fede si trasmette in dialetto. È grazia dello Spirito Santo ma la trasmissione tocca a voi e si può fare solo nel dialetto della famiglia, di papà e mamma, di nonno e nonna” (papa Francesco), di Bachisio Bandinu.

L’EDITORIALE DELLA DOMENICA  della FONDAZIONE SARDINIA.

“La fede si trasmette in dialetto. È grazia dello Spirito Santo ma la trasmissione tocca a voi e si può fare solo nel dialetto della famiglia, di papà e mamma, di nonno e nonna”. Sono parole di Papa Francesco pronunciate nella messa del battesimo di 34 bambini di tutto il mondo nella Cappella Sistina. Non poteva esserci un manifesto più significativo in difesa della lingua sarda nella promozione della fede. Parole sconvolgenti perché contro i luoghi comuni stancamente ripetuti, contro la convinzione che relega la lingua materna, la lingua di un popolo, nella marginalità, e che invece viene vista dal Pontefice come il lievito che anima la vita più intima della famiglia e della casa in una pratica di fede che si rinforza nella più ampia dimensione sociale.

Pregare in sardo vuol dire abitare un’altra dimora spirituale, significa percorrere un altro sentiero di fede: è la singolare identità della preghiera in ciascuna lingua. Elementi acustici, tattili, visivi, immaginativi, intervengono diversamente nell’atto di preghiera. C’è una relazione profonda tra suono e senso. Opera una diversa materialità espressiva e un diverso rimando simbolico.

La storia umana e religiosa dei sardi, attraverso i secoli, è stata parlata anche in lingua sarda, per la gran parte della popolazione solo in sardo, nella segretezza della parola e della socialità del discorso. Lingua della solitudine della preghiera e della coralità pubblica, della sofferenza e della speranza. Capace di penitenza, di promessa e di ringraziamento. Capace di verità. Parole contratte e ingorgate da lacrime e parole di alleluia e di ringraziamento.

Deus ti salvet Maria chi ses de gratzia prena” non corrisponde compiutamente ad “Ave Maria piena di grazia”. C’è una corrispondenza di significato ma è diverso il piano dell’espressione, differente l’immaginazione rappresentativa delle parole e la loro forza evocativa. Il fatto è che c’è una identità che caratterizza la specificità di ciascuna lingua. Pregare in sardo incarna il tempo di Dio nell’atto di parola secondo una specifica singolarità.

È significativo che il Papa abbia espresso questo messaggio nell’occasione di una cerimonia battesimale, proprio per rimarcare il rapporto stretto tra madre e bambino, nella dimensione della famiglia e nell’intimità della casa. Nell’infante la parola della mamma è suono, non ancora senso, agisce come vibrazione e come ritmo. Interviene un forte investimento affettivo che accompagna la prima vocalizzazione e l’apprendimento linguistico del bambino. E la sua memoria viene impressionata come pellicola che avvia il film spirituale della vita. Una madre che canta in sardo l’Ave Maria o una canzone di Natale trasmette una indicibile familiarità tra suono e senso. Così nasce la struttura di base della personalità religiosa come sensazione, percezione, l’immaginazione, ma anche come articolazione del desiderio, dei bisogni e dei sentimenti. A partire da questa struttura profonda inizia la pratica religiosa del ragazzo mediante l’educazione familiare e il precetto di “andare in chiesa”, e articola le tappe personali nella prima comunione, nella cresima e attraverso la scansione del calendario liturgico. Il ragazzo è immerso in un ambiente familiare e sociale che costruisce la sua identità religiosa. E anche quando il giovane dovesse allontanarsi dalla pratica di fede, permane nel profondo qualcosa che resiste e non potrà essere cancellata, e che è sempre esposta a riemergere nelle esperienze difficili della vita.

Nella pratica di parola e di fede, italiano e sardo non vivono in contrasto, l’uno non esclude l’altro, anzi si sperimenta una interferenza e uno scambio produttivo. Pregare in sardo, pregare in italiano: due modi diversi di comunicare con Dio, c’è un differente investimento della parola nelle diverse lingue perché differenti sono le associazioni sensoriali, emozionali ma anche semantiche. Differenti esperienze psico-affettive. Viene a crearsi una relazione che trascorre liberamente da una lingua all’altra nel gioco di prestiti, di somiglianze e diversità, contro la concezione sottrattiva delle lingue quasi che una togliesse spazio di vita all’altra, quando invece se lasciate libere vivono nella dimensione dello scambio di doni. Entrambe le lingue producono un plusvalore di fede. Una esperienza bilingue anche nella pratica religiosa si pone come arricchimento spirituale: si stabilisce un processo di connessioni profonde tra i due codici linguistici determinando un complesso sistema di relazioni, non solo lessicale semantica ma anche a livello più intimo di circuiti emotivi e affettivi.

Le parole del Papa invitano la Chiesa sarda ad elaborare la questione dell’identità religiosa come apertura al mondo nella consapevolezza di una propria specificità e soggettività, di una propria modalità di essere cristiani in termini operativi di lingua e linguaggi. Esiste una stretta relazione tra Chiesa locale e Chiesa universale: è l’esperienza religiosa locale che viene ad articolarsi nella rete più ampia della cattolicità.

Nella lingua della famiglia e della casa non conta solo la funzione informativa e prettamente comunicativa: c’è una qualità della preghiera come parola interiore che sollecita moti del cuore e affezioni dell’animo. La preghiera rimanda ad una parola profonda vissuta dentro, indica prossimità a Dio, serba intimamente il mistero.

L’inculturazione della fede pone come fondamento di ogni decisione pastorale l’integrazione più piena del mistero di Cristo nella vita degli uomini, nel vissuto reale di lingua e cultura, dentro famiglia e comunità (Don Antonio Pinna).

Abitare la dimora della lingua e sentirne la risonanza nella propria casa, nella intimità della famiglia, è per Papa Francesco il viatico per un cammino di fede in comunione con la cattolicità.

 

 

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