Nell’umanità di Ugo La Malfa, Giovanni Battista Melis ed Alberto Mario Saba i “modelli perfetti” dell’uomo pubblico, secondo Lello Puddu , di Gianfranco Murtas
Nel piovigginoso pomeriggio di giovedì 11 gennaio si sono svolti i funerali civili, al cimitero di San Michele, di Lello Puddu. Sono accorsi, per l’occasione, da tutta l’Isola e anche dal continente, cento, duecento amici ed estimatori, compresi quelli che negli ultimi anni, per le ragioni più varie, avevano dovuto rarefare le occasioni di incontro. (Il mio personale ultimo scambio con lui, incontrato la prima volta forse 47 o 48 anni fa, è stato nel dicembre 2016 al dibattito, presso la sede della Società degli Operai, su “Azionismo e Sardismo”, io relatore insieme con Salvatore Cubeddu, Lello con Marcello Tuveri fra i testimoni/coprotagonisti di lontane battaglie politiche).
La bara accarezzata da molti, la famiglia nell’ultima affettuosa prossimità ad essa, tutti i convenuti sparsi nella grande sala ad ascoltare le parole introduttive di Roberto Pianta, preside del liceo Dettori e penultimo presidente dell’AMI cagliaritana, e le testimonianze commosse di Marcello Tuveri – amico di una vita intera –, di Mario Di Napoli – alto funzionario della Camera dei deputati e presidente nazionale dell’Associazione Mazziniana Italiana – e di Francesca Pau, brillantissima studiosa del movimento democratico e repubblicano italiano e sardo fra Ottocento e Novecento.
Sobrio ogni intervento. La memoria di ciascuno degli oratori ha conservato e riflesso un tratto breve ma importante della personalità dell’amico perduto. Da Marcello Tuveri è emersa la probità, soltanto all’apparenza impossibile e invece dimostrata con i fatti sempre, dell’imprenditore impegnato in un settore così a rischio di tentazioni e d’immoralità come è l’edilizia, ed è emersa anche la marcia minoritaria del “repubblicano sardista” (amico cioè del PSd’A storico, radicato nella comune scuola democratica italiana) saputosi salvare dalla solitudine soltanto per il patto d’unità politica (che era fraternità di relazione, tanto più a Nuoro) con i “sardisti repubblicani”, da Pietro Mastino e Peppino Puligheddu a Luigino Marcello e Sebastiano Maccioni, da Athos Marletta a Giannetto Massaiu e Annico Pau, e quanti altri!
Per Mario Di Napoli è valsa, della personalità di Lello Puddu come s’è donata all’amicizia ecumenica delle mille anime repubblicane e mazziniane d’Italia, soprattutto la dimensione sarda, capace di unificare in un’unica resa, rispettando le originalità di ciascuna parte, il talento di Sassari e quello barbaricino, così come quello aborense e quello cagliaritano o sulcitano, senza primazie rivendicate o concesse: la Sardegna sentita ed offerta alla comunione italiana come un unico contenitore di umanità e cultura, di una storia complessa e di una generosità morale capace di superare ogni separatezza fisica o territoriale. Senza spocchia cattedratica, Lello accompagnava non allo “spettacolo” della Sardegna, ma alla “condivisione” di quanto, grande o non grande che fosse, la nostra terra sapeva offrire di unico al mondo.
Per Francesca Pau è stato, Lello Puddu, il maestro orientatore sì anche dei suoi studi particolari e così tanto approfonditi (e riconosciuti preziosi da chi ha lavorato, sugli stessi soggetti, da una vita intera nelle università!) ma anche il garbato e competente interfaccia, dalla Sardegna, del complesso e variegato mondo della democrazia italiana che ha costruito la Repubblica con i materiali del risorgimento patrio affinati dalla stagione dell’antifascismo: bastino i nomi di Giulio Andrea Belloni e Giovanni Conti, quest’ultimo vice presidente dell’assemblea costituente.
Per tutti è stato un dotto – cresciuto da adolescente e poi giovanissimo alla scuola nuorese di Giovanni Ciusa Romagna e, negli anni degli studi universitari, a quella tutta mazziniana e mameliana di Genova – che ha offerto il pane delle idealità e degli esempi nella fraternità, mille volte di più anche conviviale, dell’incontro aperto e informale.
A seguire ecco tre contributi biografici che io stesso debbo alla penna di Lello Puddu, da lui offerti ad alcuni dei miei libri degli anni ’80-90: rispettivamente Ugo La Malfa e la Sardegna, Cagliari, 1989; “Con cuore di sardo e d’taliano…”. Giovanni Battista Melis deputato alla I a IV legislatura repubblicana, Cagliari, 1993, e Per Alberto Mario Saba, Cagliari, 1994.
Ugo La Malfa, il suo autonomismo fra Mazzini e Cattaneo
Penso di non sbagliare se affermo che dopo Milano e la Romagna, l’una per aver segnato le scelte importanti della sua vita, l’altra per averlo sommerso dell’affetto e dei bagni di folla di cui il resto del paese è stato sempre avaro nei suoi confronti, è la Sardegna la regione che più delle altre per Ugo La Malfa costituì un grande motivo cli attrazione e interesse.
Il suo primo impatto con l’isola avvenne nell’autunno del 1926 quando, espulso per attività sovversiva dal corso ufficiali di Palermo, venne spedito alla caserma di San Bartolomeo a Cagliari.
«Ogni mattina – ricorderà più tardi – prendevo le mie carte e i libri e mi sedevo sotto il primo albero della spiaggia del Poetto, oppure andavo sulle rocce della “sella del diavolo” (1). Era l’unica cosa che potessi fare. Pensare di prendere contatto con Mario Berlinguer (compagno nella pentarchia dell’Unione Democratica di Giovanni Amendola) era del tutto impossibile. Anche lui aveva le sue gatte da pelare. Attesi il congedo, che arrivò nel gennaio del ’27 e tornai nel Continente».
Il secondo impatto con i sardi, se non con la Sardegna, avvenne nelle riunioni clandestine che prepararono la nascita e la presenza nella lotta antifascista del Partito Italiano d’Azione. Francesco Fancello, Stefano Siglienti, Emilio Lussu erano i tre sardi con cui La Malfa divise tra il ’43 e il ’44 i momenti di alto rischio ma di grande tensione ideale dei giorni della resistenza a Roma fino al giugno del ’44. Lussu rappresentava già l’anima socialista del partito, la tendenza contro la quale La Malfa combatté con ogni sua energia, ma nella cospirazione romana, abbandonate le dispute, tanto Lussu quanto La Malfa rinunziarono, vivendo insieme, ai nascondigli più o meno segreti: ambedue dotati di grande coraggio, al di là della diversa visione dei problemi della società italiana, finirono legati da reciproco sentimento di stima nel ricordo di quei giorni difficili (2).
Fancello era un lussiano a prova cli bomba, l’antico collaboratore alla “Critica Politica” di Zuccarini e al giornale di Torraca “Volontà”, l’unico nel quale La Malfa non riuscì a far breccia, a differenza cli “Fanuccio” Siglienti che, nonostante l’affetto e l’ammirazione per Lussu, rimase sempre vicino a La Malfa divenendone uno dei più ascoltati consiglieri economici.
La Sardegna e i sardi di nuovo importanti per La Malfa al primo congresso pubblico del Pd’A nell’Italia liberata: Cosenza 4-7 agosto 1944.
La Malfa confesserà più avanti che digeriva molto male la collocazione di Lussu negli organi dirigenti del Pd’A e il suo sistema di telecomandare il partito quasi dall’esterno in rappresentanza del Partito Sardo d’Azione. Nell’esecutivo nazionale nato a Firenze nella riunione clandestina del settembre 1943 insieme a La Malfa, Reale, Bauer, Rossi-Doria e Fancello, Lussu rappresentava il PSd’Az. Anche a Cosenza rispetto ai 100.000 voti degli iscritti del meridione il leader sardista era accreditato di 50.000 tesserati della Sardegna che pure non furono necessari per far vincere la tendenza filo-socialista, sulla quale si riverseranno i voti della rappresentanza calabrese di Woditka pari al 50 per cento dei delegati (3).
Nel congresso di Cosenza l’unico sardo azionista, non sardista, fu Salvatore Cottoni che votò per la mozione La Malfa apportandole il peso di una decina di sezioni della provincia di Sassari (4).
Nello stesso congresso Lussu rispose al discorso di La Malfa, fautore di una scelta democratica non socialista, con un lunghissimo intervento di molte ore che iniziò col famoso riferimento al potere della vernaccia: «Nella mia isola c’è un vino inebriante, la vernaccia, ma io non bevo! Il discorso di La Malfa è inebriante. Ma io non lo bevo!». Stessa lunghezza al congresso della scissione nel ’46, quattro o cinque ore, ridotte a dimensioni minori in quello dello scioglimento, nel ’47, ma compensate da più interventi.
Lussu e La Malfa presero due strade diverse nel 1946 e non trovarono più terreno sul quale almeno discutere poiché anche il sonoro schiaffone che Lussu ammollò nell’aula del Senato, in occasione della discussione della legge maggioritaria del ’53, ad un La Malfa che non se lo attendeva, rappresentò un attestato della lontananza che ormai divideva i due uomini politici molte passionali (5).
Per quanto vincitore a Cosenza e a Roma tuttavia Lussu perdette il suo dominio sul PSd’Az. che nei luglio 1948 abbandonerà per fondare il PSdAz. socialista. Dimodoché La Malfa iniziò da quel momento a sostituire – sia pure non con la stessa intensità – Lussu nel cuore dei sardisti tessendo un rapporto di grande amicizia con Titino Melis, col quale era stato in carcere a Milano nel 1928, Pietro Mastino, già sottosegretario al Tesoro nel Ministero Parri e nel 1° De Gasperi, Luigi Oggiano, Anselmo Contu e molti giovani.
In occasione di qualche visita per motivi di governo non mancava mai di incontrare i suoi amici sardisti, in mezzo ai quali sentiva quasi una atmosfera romagnola, carica cli grandi ideali ma allietata altresì da robuste mangiate e bevute. Venuto a illustrare a Cagliari la sua proposta di Costituente programmatica tra le forze laiche nel febbraio 1952, letteralmente perse le staffe quando a Sassari parlò alla Camera di commercio della sua politica di ministro del Commercio estero per l’abbattimento dei dazi doganali.
Dopo aver premesso che era lieto di parlare nella Sardegna di Deffenu e del manifesto antiprotezionista proseguì affermando che la liberazione del Mezzogiorno dal protezionismo parassitario insieme alla creazione della Cassa con l’intervento straordinario, erano i fondamenti per le prospettive della rinascita meridionale. Il responso delle forze sociali fu carico di lamentele e in qualche caso pervaso di astio. Gli imprenditori piansero per le fortune della Nurra impoverita dalla impossibilità di smerciare il crine vegetale per i materassi provenienti dalla sua palma nana, gli rimproverarono la crisi del turacciolo, per l’apertura dell’importazione spagnola del sughero, e dell’olio d’oliva. Una accoglienza priva di generosità perché nessuno, nemmeno il commento sui giornali l’indomani, ricordò che per l’avvio del primo gruppo della supercentrale termoelettrica del Sulcis era stato La Malfa, e solo lui, a realizzare la provvista finanziaria necessaria (6).
Incontratolo dopo qualche giorno a Genova e presami la mia quota regionale di male parole per le critiche ricevute a Sassari, dalla vivacità e dall’amarezza con cui affrontò gli stessi argomenti di fronte ad altre forze sociali, stavolta del Nord, capii il suo pessimismo ma valutai anche la sua tenacia impareggiabile, la consapevolezza di non sbagliare e di persistere su un terreno nel quale tanti, troppi anni dopo avrebbe ricevuto i consensi e gli attestati di gratitudine (7).
Nel 1953, dopo qualche anno di vicinanza continua con Melis nel gruppo repubblicano, La Malfa tentò per la prima volta di realizzare un accordo stabile col PSd’Az., dal momento che per usufruire del premio di maggioranza con la legge maggioritaria bisognava essere apparentati e l’apparentamento era possibile fra i partiti che presentavano liste in tutte le circoscrizioni. La Malfa propose a Melis una lista comune sotto l’Edera; Melis disse che il suo partito non era in condizioni di rinunziare al suo contrassegno dei Quattro mori e non se ne fece niente. Ma La Malfa intervenne personalmente su De Gasperi per consentire che l’apparentamento fosse possibile per le liste che erano presenti in almeno cinque circoscrizioni. Il PSdAz. fu presente così anche nel Continente ma la legge non scattò e Melis non fu rieletto.
Nel periodo ’53-58 le visite in Sardegna furono rade; l’ultima in occasione del congresso sardista del ’57 in compagnia di Max Salvadori allora rappresentante del neonato Partito Radicale col quale si sperava di realizzare un accordo più vasto di quello che sancì l’alleanza elettorale dell’anno dopo. La presenza di Salvadori era determinata dalla intenzione di influire sulla eredità lussiana ancora presente nel PSd’Az. ovvero sull’inconfessato rammarico di aver perduto un leader prestigioso: Salvadori, eroe della guerra di liberazione, fratello di Joyce Lussu, poteva servire allo scopo.
Più tardi la “pizza 4 stagioni” che doveva raccogliere i contrassegni di PRI, radicali, sardisti, Comunità (e chissà come, quello del Partito dei contadini) non riuscì a farsi accettare soprattutto per l’opposizione di Oronzo Reale, cui si deve l’ironica definizione, preoccupato di cedimenti elettorali nelle zone tradizionali.
Il lavoro pluriennale di La Malfa verso i sardisti sembrava cancellato da uno schieramento elettorale anomalo, che però soltanto in rari casi divise profondamente le persone. Ciò gli consentì di riprendere i rapporti, anche per il fallimento dell’alleanza Sardisti-Comunità non meno fragoroso di quello PRI-Radicali, inquadrandoli in uno scenario nel quale il risvolto elettorale doveva rappresentare il naturale, logico sbocco di una alleanza politica realizzata sugli aspetti programmatici. Erano gli anni della preparazione alla svolta di centro-sinistra, della discussione sulla politica di programmazione e della conclusione degli studi sul Piano di Rinascita della Sardegna. Tra La Malfa e i dirigenti sardi del Partito Repubblicano, con l’appoggio anche se scettico di Reale, si stabilirono i criteri, i tempi e le modalità dell’azione verso la Sardegna e verso i sardisti (8). Che erano: alleanza elettorale nelle amministrative del ’60, nelle regionali del 1961, politica comune in campo regionale e difesa della visione autonomistica, sul Piano di Rinascita, alleanza elettorale per la Camera e il Senato nel 1963.
Il personaggio più sospettoso nei confronti di questo indirizzo era il maggiore interessato, colui che ne avrebbe riconseguito l’incarico di deputato e cioè Titino Melis. Egli temeva che l’alleanza con il PRI avrebbe snaturato l’essenza regionale del suo partito e ripeteva spesso che una voce sardista in parlamento non valeva tale sacrificio e soprattutto non valeva una probabile spaccatura tra gli stessi sardisti (9).
I primi atti del progetto Sardegna furono le elezioni del 1960 alle quali i repubblicani parteciparono nelle liste sardiste dei Comuni e delle Province coi “4 Mori” e la scritta PSdAz.-PRI fornendo consistenti candidati e suffragi rilevanti rispetto alla forza di quel periodo.
Nel 1961, La Malfa partecipò con intensità alla campagna elettorale per le regionali; trattenendosi diversi giorni percorse la Sardegna in lungo e in largo avendo la possibilità di entrare nel vivo della sua natura e della sua etnia e, a parte l’innamoramento politico, ne rimase definitivamente folgorato. Da allora, al di là degli impegni politici, l’isola divenne sede delle sue periodiche assenze dalla vita politica, per le visite a Capocaccia e Stintino, gli itinerari nuragici, le lagune dei fenicotteri, le escursioni a Tavolara e Molara, il trekking del Supramonte e le sagre dei paesetti di montagna (10).
Nel 1961 sbarcò a Olbia con Peter Nichols, il giornalista inglese a lui molto legato, il responsabile vero del particolare fervore con cui il “Times” e il “Financial Times” ha sempre seguito la sua politica, e già nel primo impatto con Sassari si accorse che i temi della sua azione avevano dato i frutti. Nino Ruju, che lo presentò nella piazza gremita, ricordò che la sua milizia nel Partito Sardo era la risposta all’invito che lo stesso La Malfa aveva rivolto agli universitari sardi presenti al congresso dell’UGI a Perugia qualche anno prima. Poi a Cagliari, nella Marmilla e nella Trexenta, nella montagna del Nuorese (dove incontro Armando Businco uomo della Resistenza azionista a Bologna, rettore dell’università) e infine a Nuoro dove l’affettuoso abbraccio di Pietro Mastino e Luigi Oggiano lo colpi in modo particolare.
Il viaggio del ’61, folgorante come ho detto, animò il suo impegno nei confronti della Sardegna. Diventato Direttore della Voce, il giornale divenne con articoli di fondo corsivi scritti illustrativi il più vivace difensore del Piano di Rinascita presentato come il primo esperimento della pianificazione economica nazionale della quale La Malfa era il grande autorevole fautore.
Con una nutrita polemica, estesa anche in sede regionale sui criteri di gestione delle risorse finanziarie del Piano e sulla responsabilità da assegnare alla Cassa e alla Regione, La Malfa osteggiò risolutamente il progetto del Ministro dei Mezzogiorno Pastore che assegnava ad una Sezione speciale appositamente costituita la titolarità del Piano. Uscendo dalla seduta della Commissione Bilancio del 19 gennaio ‘62 all’autore di queste note, che lo aspettava insieme all’onnipresente Maria Puddu, La Malfa dichiarò che il progetto Pastore era stato silurato ma che il difficile veniva ora: «la Sardegna deve mettersi al lavoro e lavorare bene». Qualche mese più tardi sarà con la sua firma di Ministro al Bilancio che la 588 verrà promulgata e nel congresso nazionale di Livorno del 30 maggio-2 giugno 1962 dedicherà a questo episodio la parte centrale di uno dei suoi più grandi discorsi, una sorta di bilancio della sua stessa vita di democratico, carico dl speranze per il futuro.
Ma quando venne a parlare a Cagliari in occasione delle elezioni del 1963, dalla tristezza e dalla stanchezza che traspariva dal suo sguardo intuimmo che le elezioni, come poi accadde, non sarebbero andate bene. Da Ministro del Bilancio si occupava di tutto: la nazionalizzazione elettrica e lo sciopero dei professori, il rilancio dell’Europa federata e gli investimenti del Mezzogiorno, la politica monetaria e l’esportazione dei capitali. Un lavoro massacrante con pochissime soddisfazioni. Né i sindacati, chiamati da La Malfa a svolgere un ruolo fondamentale nelle scelte strategiche del paese, né gli imprenditori, accecati da pregiudizi e chiusure di cui pagheranno lo scotto qualche anno dopo, gli tesero la mano. La sua visione della programmazione prima e della politica dei redditi poi, fu respinta nettamente, con fastidio quasi, dalle cosiddette forze sociali che più avanti ne rimasticheranno le tesi come rimedio alla crisi economica dimenticando senza vergognarsi dell’occasione perduta e della ingenerosità di quei giorni. Il suo stesso partito soffrì della scissione pacciardiana, diviso sulla scelta di centro-sinistra.
Dopo il 1963 La Malfa attraverso uno dei periodi più tristi della sua vita ma forse uno dei più fecondi per la individuazione dei temi politici su cui costruirà la sua azione negli anni seguenti. Dopo il disastro elettorale i contatti con molti suoi amici erano interrotti, qualcuno parlava di una atmosfera di liquidazione tipo Partito d’Azione 1947, c’era chi diceva, anche nel PRI che era l’ora dell’unificazione socialista (11).
L’esperienza di governo e le polemiche del primo governo di centro-sinistra fecero maturare, dopo la lettera a Moro, la proposta di politica dei redditi sulla quale articolare i giudizi sul Governo Fanfani («attaccato da tutte le parti»), la discussione sulla congiuntura caratterizzata dall’inflazione e la visione di patto sociale che avrebbe garantito la piena occupazione e il superamento degli squilibri cronici tra Nord e Sud.
Nel 1965, mese di marzo, venne eletto segretario del partito e in tale veste qualche mese dopo partecipò alla campagna elettorale delle regionali. Parlando a Cagliari il 30 maggio nel cinema Olimpia strapieno capimmo tutti che l’uomo era perfettamente in palla, caricatissimo e certo che il partito aveva iniziato a risalire la china. L’elettorato apprezzò il senso del discorso lamalfìano e l’alleanza sardista-repubblicana, pur con qualche mugugno degli indipendentisti che andavano rafforzandosi all’interno del PSd’Az., non risentì dell’episodio delle sue dimissioni da presidente della Commissione Bilancio della Camera per aver osteggiato la proposta di addossare allo Stato le spese dl viaggio degli elettori che tornavano in Sardegna dall’estero (12).
Parlò per la prima volta a Oliena cli fronte a tutta la popolazione che per sentirlo si era portata la sedia da casa. Ricorderà sempre il bagno di folla di tipo “romagnolo” anche se l’abbondante libagione del “nepente” impedì il consueto affaccendarsi dalle prime ore del mattino. Oliena e il Nuorese lo scossero ancora di più della visita del ’61 e, quando avrà un momento di tempo libero, troverà il modo di ritornarvi.
Lo farà nel settembre del 1968 per ripagarsi della fatica per la relazione del congresso di Milano. Sarà un giro dedicato alla quiete di Alghero ma, soprattutto, alla conoscenza più profonda delle nostre zone interne, dal Gennargentu all’Ogliastra, al Supramonte di Orgosolo, la valle di Lanaitto, la costa di Cala Gonone. E proprio tornando da Orgosolo a Nuoro accadde un episodio che poi raccontò anche ai repubblicani riuniti nel congresso a Milano nell’ottobre per rilevare come, talvolta, la presenza dello Stato manca proprio laddove essa è più necessaria (13).
Nel 1968 si era dimostrato sorpreso del risultato elettorale raggiunto pur dopo la rottura col PSd’Az. e nel 1969 partecipò attivamente alla campagna elettorale dimostrando il suo ottimismo sulla crescente presenza del partito in Sardegna. Alle regionali del 1974 risentì delle sofferenze e della delusione di Ministro del Tesoro del Governo Rumor, nel quale non era stato in condizioni di fermare il disavanzo cli cassa di appena 7.400 miliardi nell’infuriare dello schok petrolifero. Si era dimesso ed era venuto a spiegarci i motivi delle sue dimissioni da responsabile del Tesoro, la sua angoscia di non poter frenare l’emorragia della spesa pubblica, assalito dall’opposizione che riteneva il rigore troppo drastico e dal collega Giolitti che non voleva dare al Fondo Monetario le garanzie che La Malfa riteneva giuste e che erano dovute agli italiani, prima che al Fondo.
Il suo stato d’animo, lo conoscevamo, tendeva al brutto e al pessimismo, ma qualche minuto prima che iniziasse il suo discorso ad Alghero, 10 giugno 1974, un maresciallo dei carabinieri lo avverti che Rumor dopo averlo per tutto il pomeriggio cercato (ma lui dormiva a Platamona), pochi minuti prima si era recato dal Presidente della Repubblica a portargli le dimissioni del suo Governo. Come se liberato da un peso che lo opprimeva, sfogò tutta la sua ira in un discorso di grande livello, più urlato che pronunciato, avvertendo il pericolo che correva l’Italia in un momento nel quale il disavanzo della bilancia commerciale era cresciuto in maniera paurosa raggiungendo il livello del disavanzo di cassa.
Qualche mese dopo sarà vice presidente del Consiglio nel Governo Moro – La Malfa, uno dei migliori del dopoguerra, a cui il PRI diede l’apporto più significativo (legge Bucalossi per le aree edificabili e legge Visentini per la riforma fiscale).
Dopo quest’ultima esperienza di governo le visite si diradarono. il neo presidente del partito, che pure aveva scalato il Cervino in età avanzata, riteneva che le scarpinate sarde erano ormai faticose anche per un camminatore della sua tempra.
Il suo ultimo messaggio ci fu rivolto in occasione della confluenza nel PRI di un gruppo di autonomisti nella primavera del 1978. Rammaricandosi di non poter essere con noi, avendo l’animo rivolto ad Aldo Moro sequestrato dai terroristi, aggiunse: «tenete alta la bandiera dell’autonomismo democratico e del sardismo. Essa è stata animatrice negli anni difficili del fascismo; lo sarà ancora in questi giorni tristi della Repubblica».
Note:
(1) La Malfa era stato inviato per punizione al XVI reggimento di artiglieria di stanza nel capoluogo isolano: qui starà circa tre mesi, prima dell’anticipato congedo.
(2) Lussu ricorderà nel suo “Sul partito d’Azione e gli altri” il coraggio di La Malfa che circolava per Roma carico di esplosivo.
(3) Più tardi La Malfa sottolineerà la stranezza del comportamento di Lussu che, vincitore assoluto del congresso di Cosenza e di quello di Roma del ’47 e del successivo Consiglio nazionale che decise la fusione del Pd’A col PSI, non partecipò all’operazione. Tutta la presenza di Lussu nel Pd’A è stata formalmente anomala: anche dopo il congresso sardista del luglio 1948 che sancì la sua uscita dal partito che aveva fondato, non entrò nel PSI e capeggiò la lista per, le, regionali del PSd’Az. socialista. Nell’aprile ’48 il PSI era col PCI nel Fronte popolare e Lussu, sempre dall’esterno, lo sostenne con la formula: col Fronte, fuori dal Fronte, risultando ancora tesserato sardista.
(4) Il Pd’A in Sardegna fu costituito nel ’43 a Sassari da Mario Berlinguer, Stefano Siglienti, e Salvatore Cottoni che ne divenne segretario provinciale. Cottoni, fino quando rimase azionista per poi passare al PSDI divenendone deputato, fu molto polemico con Lussu del quale diceva che era riuscito a sciogliere un partito senza mai entrarvi.
(5) Lo schiaffo di Lussu a La Malfa non fu il solo nella storia fra i due. Uno lo mollò La Malfa a Federico Comandini nel congresso di Cosenza e Lussu invitò il responsabile a chiedere scusa con un biglietto che La Malfa conservò. Per quello del ’53 di Lussu, La Malfa, dopo aver tentato di restituirgli la pariglia, gli mandò i padrini. Avendo Lussu rifiutato (lui che aveva sfidato Farinacci), fu censurato dai padrini, che gli ricordarono di essere stato un valoroso combattente.
(6) L’indomani sulla “Nuova Sardegna” nella rubrica “Al Caffè” Frumentario parlò del diritto di un ministro non democristiano a dormire nei letti del Palazzo Provinciale visto che gli alberghi erano pieni per la corsa ciclistica Cagliari-Sassari. Quanto alla sua proposta di federazione di partiti laici il problema fu sentito dalla base giovanile sardista ma non ebbe risultati concreti.
(7) Dell’episodio di Sassari parlò 15 giorni dopo al congresso nazionale del PRI di Bari: »A Sassari mi pareva di stare in una riunione di industriali milanesi, non del Sud».
(8) Un ruolo non effimero nell’attuazione di queste decisioni ebbe la segretaria di La Malfa di quel periodo. Maria Puddu, già militante nel PSd’Az., conosceva perfettamente argomenti e persone che partecipavano all’azione politica.
(9) Contrariamente ai timori di Melis il Direttorio regionale sardista, nel 1963, sancì all’unanimità l’alleanza con PRI. Gli stessi “irriducibili” votarono a favore dichiarando che una azione politica di solidarietà pluriennale voleva l’alleanza elettorale. Michele Columbu (Antonio Simon non era nel partito) fu candidato alle elezioni politiche.
(10) Camilla Cederna, nell’”Espresso” di quegli anni, avendogli chiesto di commentare un discorso del Governatore della Banca d’Italia, uscì con un articolo intitolato “I muggini di La Malfa”. Reduce da un viaggio privato era rimasto impressionato dal fatto che nella fiera del bestiame di Abbasanta i sardi, popolo di pastori, si abbuffavano non di robuste bisteccone ma dei cefali arrosto che lui stesso aveva mangiato con le mani.
(11) Di questo periodo di solitudine ricorderà sempre coloro che non lo abbandonarono. In una lettera a Melis del luglio 1967, nel tentativo di scongiurare una rottura tra PRI e PSd’Az. dopo tanti anni di collaborazione, scriverà: «Sai quanto ti voglio bene, ma sai quanto voglio bene a chi mi è stato vicino nei giorni difficili».
(12) Per convincere i quadri del partito che la sua posizione era dettata dal rispetto della Costituzione che imponeva di indicare a carico di quale titolo di bilancio si addossavano le nuove previsioni di uscita, mandò in Sardegna il compianto Franco Montanaro, appena nominato segretario organizzativo.
(13) Una camionetta della Polizia ci aveva fermato e identificato nel Supramonte di Orgosolo. Qualche ora dopo in piena notte forammo una gomma e tutte le auto degli orgolesi che tornavano in paese si offrivano, senza sapere che c’era La Malfa, di aiutarci. Quando passò invece la camionetta della polizia, all’invito di un graduato di fermarci per aiutarci, l’autista rispose: «Che me ne frega a me di La Malfa, io vado a casa. La Malfa ascoltò e al graduato che, zittito l’autista, si metteva a nostra disposizione, disse: «Tutti i cosiddetti banditi di Orgosolo si sono offerti di aiutarci, ma se per il suo collega nemmeno io sono degno di essere aiutato, allora vuol dire che qui lo Stato non esiste. Che Stato si può attendere un cittadino qualsiasi?».
Titino Melis, sulle orme di Giorgio Asproni
Rileggendo a distanza di tanti anni i discorsi di Titino Melis vengono subito alla mente alcune considerazioni. La prima riguarda la dimensione della sua partecipazione ai lavori dell’aula di Montecitorio. Pur essendo stato eletto per due sole legislature, egli intervenne in modo così nutrito ed ampio che altri parlamentari, non solo sardi, possono vantare la stessa presenza soltanto mettendo in campo un’attività doppia o tripla di quella sua. La seconda considerazione da fare è che la parola del rappresentante sardista è quasi tutta nell’assemblea e scarsa nelle commissioni. Non faceva parte infatti di un grosso gruppo parlamentare e quindi non poteva seguire il corso delle leggi nelle diverse commissioni referenti: aspettava l’eventuale varo nella seduta decisiva dov’era più facile informare l’opinione pubblica e documentare il lavoro fatto. D’altra parte, quando faceva parte del gruppo misto in genere era designato a settori nei quali la Sardegna aveva pochi interessi diretti. Solo quando fece parte del gruppo repubblicano poté sostituire nelle commissioni uomini di governo del PRI e la sua presenza nella formazione delle leggi aumentò insieme alla trattazione di problemi non più solo sardi ma di più vasto respiro nazionale.
Quando venne eletto, il 18 aprile 1948, aveva dovuto governare una crisi interna del Partito Sardo con molto tatto, evitando l’esplosione pubblica del contrasto, ormai insanabile, che sfociò poi nella scissione del luglio seguente, tra Lussu con i suoi social-sardisti ed il nucleo dirigente che si ritrovava intorno a Mastino, Oggiano, Contu, Soggiu e lo stesso Melis.
Lussu, che aveva proposto al partito l’adesione al Fronte popolare, ricevette un cortese ma fermo rifiuto della maggioranza dei sardisti i quali, nel grande dibattito che percorse in quegli anni tutta la sinistra italiana, non ebbero dubbi nell’operare una scelta di campo difficile ma di cui oggi possiamo valutare il grande positivo valore storico. Lussu, naturalmente, non si acquietò e, dovendo rendere conto in campo nazionale al gruppo di azionisti che avevano portato il Pd’ A sulle posizioni cosiddette fusioniste col PSI, appunto rese conto della sua posizione autonoma di fronte ai sardisti nel comizio al cinema “Eden” di Cagliari, che aveva il significativo titolo: “col Fronte, ma fuori dal Fronte”.
La dicotomia che sarebbe poi esplosa nel congresso della Manifattura Tabacchi, fece perdere al PSd’ Az. quelle migliaia di voti che impedirono l’elezione di un secondo deputato nella persona di Gonario Pinna. Perché non c’è dubbio che la sinistra lussiana preferì votare per il Fronte, dal momento che l’elezione di Melis apparve, come poi accadde, senza validi competitori.
Se qualcuno rileggesse, a distanza di oltre 45 anni, il discorso di Lussu e rileggesse anche la relazione e la replica di Melis al congresso della scissione non potrebbe, dicevo, non rilevare l’importanza storica della scelta sardista di allora, l’espressione moderna di una forza della sinistra democratica, il Partito Sardo d’Azione di Melis, che vide giusto e non deragliò dalla sua antica tradizione popolare, riformatrice, libertaria, ma non classista e nemmeno corrotta da deviazioni di estremismo massimalista. E se invece volessimo valutare tutto lo scenario nel quale Lussu collocava la sua posizione politica, con tutto il rispetto dovuto ad una figura che esercitava con fascino senza limiti per il suo passato glorioso nella lotta antifascista, non potremmo non essere assaliti dai brividi nel pensare ad una soluzione delle cose nella direttrice che egli aveva auspicato.
Dopo le elezioni del 1948 l’attività di Melis si spiegò intensamente nell’aula di Montecitorio e nel sostegno al partito che, attaccato da sinistra, si accingeva ai comizi per il primo consiglio regionale, quando ebbe un successo abbastanza consistente eleggendo sette consiglieri.
Avvocato di grande spessore, abbandonò di fatto provvisoriamente la professione dedicando l’anima e il corpo allo sviluppo delle organizzazioni del partito, alla difesa delle amministrazioni locali, alle faticose peregrinazioni per tutta l’isola a diffondere la visione sardista dei problemi, mettere sotto accusa la mancata coerenza del PCI e dei PSI che si rivelavano incapaci di far dirottare le risorse della ripresa produttiva del Paese a favore delle aree depresse e la condotta della DC isolana troppo succube ai voleri e alle scelte del potere romano di uno Stato accentratore.
Nel suo primo discorso alla Camera sono presenti tutti i temi della polemica sardista, quelli ormai classici del meridionalismo democratico in “formato Sardegna”: la situazione dell’agricoltura senza acqua, dell’allevamento nomade, delle miniere senza industrie di trasformazione, dei trasporti inefficienti, della crisi del carbone e del sughero, dell’assenza del credito e della energia a buon mercato, di uno Stato che ha creato i suoi figli spuri, che ha espropriato per mancato pagamento di imposte un cittadino ogni 14 abitanti contro uno ogni 27.000 del Nord Italia, e insieme tutte le prospettive di un destino meno avaro se fosse stato varato – come Melis chiedeva – un ministero per il Mezzogiorno e le isole, chiudendo quello antistorico per l’Africa Italiana allora ancora esistente: «Chiedo anche per la nostra regione, con cuore di sardo e d’italiano, quella giustizia che ci liberi dal parassitismo e dal privilegio».
Il suo ritorno in aula è nell’autunno del 1949, ma rispetto al suo esordio dell’anno prima ci sono diverse novità: la prima è che il PSd’ Az. sta insieme alla DC nel primo governo regionale e Melis assolve al compito, talvolta in assoluta solitudine – perché le sinistre sono all’opposizione e i big sardi della DC stanno al governo – di difensore dell’esecutivo regionale che vedeva gli assessori sardisti in posizione di grande rilievo: soprattutto Soggiu all’Industria, Casu all’Agricoltura, mentre Contu presiedeva il Consiglio. La seconda novità è che Melis, nella contestazione del governo nazionale per la mancata soluzione dei problemi, non vuole confondersi con le sinistre e dunque, quando ritiene che un suo emendamento corra il rischio di essere respinto, piuttosto che lucrare a fini elettoralistici l’episodio, preferisce credere o far finta di credere alle assicurazioni ministeriali che «l’ordine del giorno Melis verrà tenuto nella dovuta considerazione».
Certo, ci sarà qualcuno, e qualcuno allora ci fu, che condanni un tale approccio di azione parlamentare mostrando di preferire un atteggiamento radicale anche se improduttivo sul piano concreto. E tuttavia, osservando il lungo percorso della trasformazione realizzata in Sardegna dagli anni del dopoguerra ad oggi, nessuno può legittimamente negare che il volto dell’isola è mutato profondamente e che questo si è avuto anche per la persistente, incessante, appassionata azione di Titino Melis. Lo riconoscerà più tardi un giornalista scomodo e mai tenero nei confronti dei sardisti, Aldo Cesaraccio, alias Frumentario, che in un famoso “al caffè” della sua rubrica quotidiana sulla “Nuova Sardegna” riconobbe al PSd’ Az., e cioè a Melis, ilruolo di “antico svegliarino”, di quel congegno che ricordava agli italiani, ma soprattutto ai sardi, il dovere della difesa degli interessi della “piccola patria” oltre ogni divisione, oltre ogni tatticismo, oltre ogni accomodamento. Melis fece diffondere quell’articolo in migliaia di esemplari, naturalmente – oggi è da rimarcare – a sue spese, aggiungendo: «se uno che non ci è tanto amico dice queste cose vuoi dire che la nostra opera non è inutile, ma essenziale».
Il discorso del 26 ottobre 1949, al quale ebbi la fortuna di assistere, è forse uno dei più belli pronunziati da lui alla Camera. Intervenendo sullo stato di previsione di spesa del Ministero dell’Industria, dotato di accurate notizie tecniche e di profonda conoscenza dei problemi, egli rappresenta uno dei più lucidi squarci della storia della lotta della Sardegna contro le baronie elettriche che come un laccio alla gola soffocano ogni tentativo di espansione della base produttiva. È uno dei momenti migliori della vita autonomistica ed esso appartiene tutto, nella direzione politica regionale e nel suo sponsor parlamentare, al Partito Sardo d’Azione. Il discorso è pronunciato in un’aula affollata, l’eloquio scintillante, le numerose interruzioni ne fanno – come ho detto – uno dei più lucidi dell’avventura parlamentare di Titino Melis.
Fino al suo intervento del 22 giugno 1950 sulla istituzione della Cassa del Mezzogiorno – altro discorso di grande spessore e anche di grande speranza – il deputato sardista si occupò soprattutto dei due problemi allora all’ordine del giorno: Carbonia con la sua crisi mineraria e il nodo dei trasporti. Di fronte a questi due comparti, la classe politica sarda ha forse scontato, possiamo dire, un errore storico basando la sua battaglia più su aspetti di carattere etico-politico che su rigorose valutazioni tecnico-economiche.
Sul carbone Sulcis, che rimaneva invenduto sulle banchine provocando riduzione delle forze di lavoro, erano fondate le teorie della produzione di energia elettrica a basso costo che poi avrebbe dovuto suscitare nuove iniziative produttive. Ma la tecnologia, che oggi con la gassificazione sembra farci uscire dal tunnel dell’annosa questione, allora non era così avanzata per cui tutti, classe politica e sindacati, combatterono, fino al malaugurato trasferimento all’ENEL e alla chiusura delle miniere, una battaglia di retroguardia distruggendo enormi risorse di denaro che forse avrebbero potuto finanziare, in altri settori, attività più sane capaci di reggere all’inesorabilità del mercato.
Per quanto riguarda i trasporti non c’è dubbio che la parificazione tariffaria era un obbligo da parte dello Stato per non discriminare i sardi, tuttavia, a parte l’ammodernamento dei servizi che fu realizzato, essa non portò all’ auspicata ipotesi di una presenza dei prodotti agricoli sardi sui mercati italiani ed europei. Si può dire anzi, ma col senno di poi, che la disponibilità dei vettori e le tariffe più modeste hanno consentito a organizzazioni produttive più agguerrite delle nostre di allargare nell’isola le quote del mercato di consumo che già detenevano.
Nel 1950 Melis aderì al gruppo repubblicano e si fece più stretto, così, il rapporto che lo legava ad Ugo La Malfa. Nel discorso del 22 giugno di quell’anno c’è infatti il tono, il taglio dell’argomentazione, l’approccio al problema della rinascita delle aree depresse che è patrimonio della sinistra democratica e di La Malfa in particolare di cui il deputato sardista ricorderà il «fondamentale discorso del gennaio 1948 al Congresso di Napoli del PRI». Nel secondo semestre del 1950 e nel ’51 i suoi interventi riguarderanno il gran problema del banditismo del quale, come avvocato penalista, aveva conoscenza diretta e profonda, la carenza di una struttura ricettiva adeguata alle possibilità dell’isola, la difesa del sughero sardo messo in crisi dalla concorrenza spagnola e la questione della esportazione del pecorino sardo sul mercato internazionale. Importante sarà il lavoro di Melis per le provvidenze destinate agli alluvionati del 1951, senza dimenticare la denuncia del malgoverno espressosi nell’assunzione di centinaia di operai in occasione della visita di Einaudi e del… licenziamento il giorno dopo.
Nella parte finale della legislatura la sua partecipazione ai lavori della Camera pare affievolirsi. Era quello il periodo dell’uscita del Partito Sardo dalla maggioranza regionale, che anticipava le giunte “sdraiate” a destra e l’imperversare del laurismo. Al rinnovo parlamentare, nella primavera del 1953, non venne rieletto. Probabilmente non gli fu di aiuto il fatto che anche il PSd’ Az. si fosse collegato con gli altri partiti di governo presentando – come la legge prescriveva – i suoi candidati in cinque collegi elettorali. Il momento era difficile, la polemica sulla legge “truffa” (che strano che oggi l’approverebbero tutti!) creò perdite gigantesche nei partiti laici e naturalmente fra i sardisti.
Quando venne eletto la seconda volta, nel 1963, fu il collegamento con le liste del PRI e il contrassegno dell’Edera a consentirgli l’utilizzo dell’alto resto. Nel decennio trascorso il centrismo era morto e il primo governo sostenuto dai socialisti aveva varato la legge 588 sulla rinascita; nell’isola i sardisti erano tornati da qualche anno al governo della Regione assumendo fra l’altro l’assessorato all’Industria di cui era responsabile Pietro Melis, considerato oggi, ben a ragione, uno dei più intelligenti amministratori che abbia mai avuto l’Istituto autonomistico.
Lo sguardo di Titino Melis si allargò per le deleghe che riceveva dal gruppo repubblicano: per portare l’opinione dei cinque deputati partecipò a innumerevoli sedute, si interessò di scuola, di Alto Adige, di tariffe elettriche, di anonimato azionario e di indulto, delle più svariate questioni. Tanto che, quando fu eletto segretario nazionale del Partito Repubblicano nel congresso del 1965, La Malfa disse alla tribuna press’a poco queste parole: «Voi mi volete segretario, ma forse non sapete che a differenza di altri partiti che su ogni questione hanno i loro esperti, li fanno parlare e poi li fanno riposare, noi non ci riposiamo mai. Si parla di scuola, parla La Malfa; si parla di marina mercantile, parla Melis; si parla di economia, parla La Malfa; si parla di partecipazioni statali, parla Melis. Il nostro gruppo è La Malfa e Melis. E voi mi volete far fare anche il segretario del partito».
Fino al 1967 – come ho detto – il lavoro parlamentare di Titino Melis fu più intenso di quello della legislatura precedente, e, se possibile, pur facendo parte della maggioranza a pieno titolo, più critico verso taluni atteggiamenti ministeriali e verso quel certo addormentamento del centrosinistra dei governi Moro. Il tono dei suoi interventi si fece più duro, la speranza fu sostituita dalla denunzia e dall’accusa spietata. In uno degli ultimi suoi discorsi alla Camera fece capolino una dichiarazione del presidente democristiano della Regione che aveva detto che la Sardegna «potrebbe diventare separatista». E pur affermando che «la creazione di nuovi stati o di politiche di indipendenza muove al sorriso», preferendo egli il federalismo delle regioni, avvertì comunque la necessità di una svolta radicale.
Era il periodo nel quale aveva preso ad imperversare sulla stampa isolana l’architetto Simon Mossa che, qualificandosi Fidel, riesumava nel dibattito interno fra i sardisti alcune linee di antico separatismo che, in condizioni di minoranza, aveva sempre convissuto colla stragrande maggioranza autonomista di Melis, Mastino e Oggiano. La conquista di Simon della segreteria provinciale di Sassari e la nascita all’interno del PSd’ Az. di una controcorrente antiseparatista creava a Melis non poco imbarazzo perché prendere le distanze da Simon e dai suoi amici lo esponeva a critiche di governativismo, di acquiescenza ad un partito nazionale come il PRI, accuse alle quali Melis non sapeva o non poteva resistere. D’altro canto, un suo sostegno aperto alle tesi di Simon, da lui mai professate, poneva grossi problemi all’alleanza con i repubblicani e allo stesso La Malfa attaccato dai liberali sui problemi dell’autonomismo locale, proprio nell’imminenza del varo delle regioni.
Egli tentò una linea mediana: in Parlamento fu alleato fedele del PRI e di La Malfa, parlò «con cuore di sardo e d’italiano», anche se le delusioni del centro-sinistra aumentarono, ho detto, la durezza del linguaggio e la presa di distanza dalle ipotesi di schieramento. Ma in Sardegna la scelta fu, piuttosto che favorevole a Simon, contro il gruppo che aveva come bandiera Mastino e nella prima metà del ’68 si consumò la rottura con un folto gruppo di quadri e militanti che attraverso il Movimento sardista autonomista confluì quindi nel PRI.
Egli non venne più rieletto alla Camera: farà una comparsa nemmeno di grande rilievo nel Consiglio regionale. Per amore di verità, pur nella scelta più radicale dei toni e degli argomenti trattati nei suoi interventi, va detto che mai abiurò alla sua fondamentale visione autonomistica e democratica: ipotizzando fughe in avanti, federalismo alla Bossi, stati indipendenti o diavolerie di questo genere. Rimase invece sempre fedele, senza deragliare, alla matrice da cui era nata la sua formazione di sardista, insensibile di fatto alle sirene neo-indipendentiste così come lo era stato a quelle classiste di Lussu.
Il bilancio della sua attività parlamentare è stato estremamente positivo. La sua è stata una voce libera della Sardegna democratica, una voce che ha portato con passione i problemi dell’isola e le speranze di soluzione nell’aula di Montecitorio riscuotendo rispetto: ciò anche se la posizione di solitudine e di estrema minoranza in tante, troppe occasioni ha avuto soltanto il valore della testimonianza. Come il partito che rappresentava, egli è stato per gli altri parlamentari sardi lo “svegliarino”, che ricordava le antiche questioni irrisolte, forte soltanto di energia morale. È da questo punto di vista che la sua opera ricorda un altro nuorese, di cui nel Parlamento nazionale ha replicato l’impegno, la passione civile, il temperamento irriducibile, lo sconfinato amore per la Sardegna: Giorgio Asproni.
Come Asproni Titino Melis ha rappresentato un modo serio di essere sardi nel dibattito politico italiano, un modo pulito di essere militante di partito, un modo di fare politica capace di altissima tensione morale e di intenso vigore civile, un modo insomma del quale sentiamo ogni giorno che passa la struggente nostalgia.
Come Asproni e tutti i grandi della scuola democratica del risorgimento e del postrisorgimento ispiratisi alla superiore visione etico-politica e anche alle pur varie intuizioni istituzionali, dell’ordinamento dello Stato, di Giuseppe Mazzini e di Carlo Cattaneo, egli ha proposto – non solo in Parlamento, ma dalle mille tribune dovunque offertegli – la questione “meridionale”, di cui quella sarda costituiva e costituisce un aspetto peculiare, in termini di questione “continentale”, di questione “europea”.
C’è un suo discorso, che vorrei in conclusione richiamare, svolto presso il Rotary Club di Cagliari il 20 aprile 1959 sul tema “I lavoratori sardi e il Mercato Comune”. Dove forse si sarebbe anche potuto dire: “L’economia sarda e il Mercato Comune”. Egli paventava che, come già nell’Italia degli anni ’40 e ’50, fossero ancora i cartelli monopolistici, stavolta internazionali, a dominare lo sviluppo delle economie, emarginando le regioni più deboli e periferiche, appunto l’area meridionale ed insulare del nostro Paese.
Poneva l’esigenza prioritaria di un radicale aggiustamento della politica economica nazionale (siamo negli anni delle grandi migrazioni verso le regioni del Nord e verso i paesi ad intensa e rapida crescita industriale). Il suo sguardo si volgeva al centro-sinistra, di cui ancora non erano definiti i tempi di percorso, capace di modificare i meccanismi dello sviluppo distorto. Si volgeva anche al piano di Rinascita in discussione nelle commissioni di studio, ma ormai quasi alla vigilia della sua approvazione, nella formulazione riscritta (1962) da Ugo La Malfa. Ma valutava poi e sottolineava le opportunità che il più largo mercato europeo poteva recare alla società regionale, come «libertà di scambio delle idee, degli uomini e delle merci, talché demolite le barriere doganali l’economia dell’Isola che non ha, praticamente, produzioni industriali protette, potrà attingere al mercato più conveniente, consentendosi quindi l’alleggerimento degli oneri di favore che si era accaparrata l’industria privilegiata.
«Per converso – aggiungeva – l’economia della Sardegna potrà trovare sbocco per i suoi prodotti agricolo-pastorali [ ... ], nelle regioni del mercato comune che, per reciprocità di difesa doganale, avevano inaridito e difficoltato le vie della nostra esportazione e quindi della produzione. Nel più ampio e libero respiro dell’area di produzione e di consumo del MEC, l’economia dell’Isola potrà trovare [ ... ] un ambiente favorevole per inserirsi nel moto ascensionale dell’economia dell’area».
Titino Melis affrontava così il tema europeo ricollegandosi alla tradizione, anche teorica, del sardismo delle origini, in termini di integrazione, e nel suo quadro inseriva la riflessione sullo sviluppo economico della sua terra e della sua gente. Dove però “sviluppo economico” significava per lui, eminentemente, valorizzazione delle potenzialità di lavoro, emancipazione delle condizioni di vita. In una battuta: riscatto civile.
Alberto Mario Saba, schivo di cariche e idealista
Nella mattina del 23 febbraio Alberto Mario Saba, il più autorevole esponente della famiglia dei mazziniani di Sardegna, è stato stroncato da una malattia che ne ha minato la fibra forte e generosa. Ha scritto in una nota del giornale L’Unione Sarda lo storico Manlio Brigaglia che Sassari perde uno dei personaggi di maggiore spicco e scompare un pezzo della sua storia più esaltante. Ha aggiunto Brigaglia che il suo destino era segnato ma negli ultimi mesi della battaglia col male non aveva abbandonata la verve solita, la serenità di spirito, il suo attaccamento al lavoro.
Il suo destino politico era segnato invece quando nacque, il 28 ottobre 1921, e Michele Saba, una delle più splendide figure dell’antifascismo repubblicano non solo sardo, gli appose il nome di Alberto Mario.
Arcangelo Ghisleri si compiacque con Michele per la scelta: essa rappresentava una precisa collocazione nella diversità delle voci della scuola repubblicana, la sintesi che lo stesso Ghisleri realizzò tra l’idealismo di Mazzini, il positivismo di Cattaneo e Ferrari, il socialismo libertario di Pisacane.
Sono molti gli amici che hanno sentito raccontare da Alberto Mario Saba quanto la sua data di nascita, 28 ottobre, era occasione, durante e dopo il fascismo, per argute osservazioni, gustose battute ed equivoci incidenti che gli consentivano di offrire il suo modo di rappresentare la tradizionale causticità della “sassareseria”.
Quando in un convegno, raccolto in volume da “Archivio Trimestrale”, abbiamo ricordato la storia del movimento repubblicano in Sardegna, ci ha raccontato del suo Natale più ricco di giochi, quello del 1930.
Michele era stato arrestato per la sua connessione con “Giustizia e Libertà” e la Sassari della democrazia e dell’antifascismo aveva voluto fare sentire meno dura l’angoscia della lontananza e della solitudine per i suoi figli. Era la Sassari che si era nutrita dell’insegnamento e dell’azione politica di Gavino Soro-Pirino, l’amico di Mazzini, la Sassari di Giuseppe Ponzi, di Pietro Moro, Enrico Berlinguer, Pietro Satta-Branca, del gruppo che dominò il Nord Sardegna nel consiglio comunale e provinciale, nella rappresentanza parlamentare e che fondando il quotidiano “La Nuova Sardegna” rappresentò uno dei pochi casi meridionali di egemonia di origine mazziniana in tutti i settori della società, dalle organizzazioni popolari a quelle del mondo delle professioni, della cultura, del mondo operaio e delle attività artigianali.
Il mondo che Michele Saba rappresentò era quello che rimase esente dai “deragliamenti” radicali, più coerente come era al rigore mazziniano, ma anche la parte, diciamo così, che si avviò sui binari del possibilismo cavallottiano, a Sassari almeno, non venne mai meno alla dignità che le proveniva dalle antiche radici.
Il senso della testimonianza paterna segnò Alberto Mario in modo indelebile. E se Michele fu grande avvocato e ancor più grande giornalista, Alberto Mario fu anch’egli avvocato di doti straordinarie, di proverbiale correttezza e precisione al limite della pignoleria, giornalista fondatore del giornale universitario, corsivista e saggista nella “Nuova Sardegna” e in tutta la stampa repubblicana tanto da poter dire che se le cure della professione non lo avessero distolto, sarebbe stato un vero, grande notista politico di stampo per così dire montanelliano.
È stato – negli anni ’50 – un consigliere comunale fra i più attenti e valorosi, collocato naturalmente all’opposizione, la più incisiva contro qualunque traffico o malversazione.
Schivo di cariche di qualunque genere dovemmo sudare sette camicie per fargli accettare l’incarico di segretario regionale del PRI, avverso come era ai gerarchi di qualunque tipo anche quando di fatto si trattava di molti oneri e di pochi onori.
Gli amici ricevevano le circolari firmate da un fantomatico segretario regionale “a cavallo”, qualifica che riduceva a zero il peso del potere acquisito.
Nel 1971 un gruppo di criminali lo sottrasse per 55 giorni alla famiglia e agli amici chiedendo un riscatto che non poteva pagare e liberandolo dopo una esperienza che lo toccò profondamente.
Ma lo toccò anche il fatto che una parte di quanto era stato pagato per riportarlo a casa era frutto della solidarietà di tanti amici di ogni parte d’Italia che dimostrarono il valore della solidarietà per un amico. Non conobbe mai il nome di questi amici, come non lo conobbe Lussu quando Michele Saba raccolse, pagando col carcere nel 1935, i fondi per consentirgli di curarsi in un sanatorio svizzero.
Ricorderò sempre le ultime giornate passate vicino al suo letto d’ospedale, specialmente quella nella quale, persa ogni speranza di vincere la battaglia che combatteva e sapendo che essendo il mio amico più caro, cui mi legavano quasi 50 anni di affetto e di comune milizia politica, lo avrei in un modo o nell’altro ricordato, aggiunse: «non farmi diventare un eroe, non lo sono mai stato. Se qualcuno lo è stato in casa Saba, senza squilli di tromba, questi era Michele. Io sono stato e ho voluto essere un buon padre di famiglia e un mazziniano, questo sì, inossidabile».
Ecco, il caposaldo della sua vita cui ha offerto – come diceva Mazzini – il sangue dell’anima: la fede nei suoi ideali di una Repubblica trasparente, casa di vetro, pulita, di poche e chiare leggi, nella quale nessuno può impunemente rubare.
Gli ideali mazziniani hanno plasmato la sua coscienza di uomo, di cittadino, di professionista. La sua città ha perduto uno dei cittadini più illustri, un pezzo importante della sua storia è scomparso, si è rotto un filo invisibile che la legava ad una grande tradizione civile. Questi sono stati i titoli dei giornali e la grande folla ha testimoniato, il giorno dei funerali, dell’affetto e della stima per un uomo così diverso da coloro che in questi giorni danno l’orrendo spettacolo di cosa è diventata la politica in Italia.
Questo è l’argomento che ha più amareggiato gli ultimi giorni della sua vita. «Ma se Michele Saba fosse vivo e se fossero vivi coloro che hanno affrontato tanti sacrifici o addirittura hanno offerto la vita per un’altra Italia, per una Italia diversa, che direbbero oggi? E i giovani? Come possono nutrirsi di speranze per una Repubblica assediata dai ladri e inondata di tutte le mele marce che ne inquinano l’esistenza?».
«Bisognerà – diceva – tornare a Mazzini, con pazienza, con umiltà, rieducare la gente, riscoprire i grandi ideali, il valore degli esempi di rettitudine, di coerenza, di serietà. Nessuno più di Mazzini ha passato momenti di così grande sconforto. Ma la tenacia della sua fede gli ha fatto valicare qualunque ostacolo. Dobbiamo avere la stessa forza».
Queste cose aveva nel cuore Alberto Mario pochi giorni prima di morire. E noi che abbiamo coltivato con lui da ragazzi il sogno di un’altra Italia, abbiamo l’obbligo di serrare le file e non disperdere il suo esempio anche se la Repubblica, la nostra Repubblica, sembra essere così lontana.