Storia di un uomo libero, di Mario Cubeddu (terza parte, fine)

CONDAGHE 2.0. Condaghe significa essenzialmente raccolta di documenti di vario genere. Con questi articoli ospitiamo degli interventi sul passato, il presente e il futuro della Sardegna. Il Condaghe è aperto ai contributi che vorranno essere forniti dai lettori e si ripromette di proporre un intervento diverso ogni settimana. Documento n° 5. La prima parte di questa ‘ storia’ è stata pubblicata in questo sito il 23 dicembre, la seconda il 30 dicembre.

La mattina del 21 dicembre 1943 una squadra di SS, le truppe speciali tedesche che avevano occupato la città dopo l’8 settembre, si presentava a casa di Antonio Feurra in via Gorrardo 5 a Montesacro. Era un sabato, pochi giorni prima del penultimo Natale di guerra.  Guidava i soldati in divisa un italiano in abiti civili, un uomo magro sui quarant’anni dal viso scavato di sciacallo che le giovani SS chiamavano Fritz.  Cominciarono col perquisire la casa alla ricerca di armi, o di documenti compromettenti, senza trovare nulla.  Decisero però di requisire due divise da sottufficiale di finanza trovate nell’armadio dei vestiti e le provviste di cibo procurate con tanta fatica in quei giorni di razionamento.  Finita la perquisizione, circondarono il padrone di casa per portarlo via in arresto. Alla reazione vivace di Antonio Feurra, che chiedeva spiegazioni, l’interprete italiano, che poi si scoprì chiamarsi Federico Scarpato, cominciò a colpirlo a freddo sul viso col calcio di una pistola. Subito un fiotto di sangue uscì dal sopracciglio invadendo il viso e la bocca dell’arrestato che veniva allo stesso tempo sbeffeggiato, insultato, spinto bruscamente verso la cucina. Qui continuava il pestaggio, inframmezzato da richieste di rivelare dove nascondeva il denaro e il resto dei cibi che un uomo che girava per commercio non poteva non aver messo da parte.  La moglie Lavinia rispondeva con un singhiozzo e un urlo ad ogni colpo inferto; quando i soldati afferrarono il prigioniero per portarlo via si rivolse implorante allo Scarpato che, oltre ad essere l’unico a capire l’italiano, sembrava il vero capo della spedizione.  Costui la spostò di lato bruscamente, minacciandola di arresto se avesse continuato a parlare. La mattina stessa Antonio Feurra entrava nella prigione di via Tasso dove percosse e interrogatorio continuarono; fu soprattutto l’interprete italiano ad accanirsi contro di lui, come per un fatto personale. Non avrebbe più rivisto la moglie. Dieci giorni dopo, il 31 dicembre, vigilia di Capodanno, insieme con gli amici di Montesacro Italo Grimaldi e Riziero Fantini, Antonio Feurra veniva condannato a morte dal tribunale militare per attività di resistenza antitedesca, portato a Forte Bravetta e fucilato. I corpi vennero sepolti in un angolo del cimitero del Verano senza alcun segnale indicativo, in modo che di essi si perdesse ogni traccia.

I tre amici di Montesacro fucilati l’ultimo giorno del 1943 avevano una casa, una famiglia, un lavoro. Avevano anche un’età abbastanza avanzata ed esperienze di vita significative. Nessuno di loro era nato a Roma, erano immigrati tutti nella capitale a partire dagli anni Venti cercando l’anonimato della grande città: all’oppressione invadente del fascismo ci si poteva sottrarre meglio proprio nel luogo in cui il regime celebrava ogni giorno i suoi fasti. I percorsi individuali dei tre erano confluiti a Montesacro, quartiere nuovo che si andava espandendo e offriva opportunità di lavoro negli anni difficili successivi alla grande crisi del 1929. Antonio Feurra veniva da Seneghe in Sardegna, aveva conosciuto i lunghi anni di guerra e le tensioni e i conflitti che l’avevano seguita, aveva compiuto da poche settimane cinquanta anni e gestiva un negozio di frutta e verdura al centro della nuova borgata.  Italo Grimaldi, un “ragazzo del 1899”, gestiva invece una macelleria. Veniva da Budrio, in provincia di Bologna, nello stesso quartiere abitavano il fratello maggiore Guido e il figlio Amneris.  La vita di Riziero Fantini, un anno in più di Feurra, era stata romanzesca. Nato in Abruzzo, aveva raggiunto a 18 anni l’America ed aveva vissuto sino al 1921 nella Repubblica dell’Equador. Era operaio muratore, gran lavoratore, capace di inserirsi e di farsi apprezzare in ogni ambiente. Aveva studiato solo sino alla terza elementare, ma si era istruito alla scuola del pensiero anarchico, tanto che teneva comizi e collaborava a diversi giornali libertari, tra cui La frusta e Umanità Nova.  Aveva usato la sua abilità di oratore nel 1921 e 1922 per sostenere la causa di Sacco e Vanzetti. Di Nicola Sacco  era stato anche amico.  Al ritorno in Italia Fantini, abbandonata l’attività politica dopo l’affermazione del fascismo, si era sposato e aveva costruito una casa a Montesacro per la moglie e i quattro figli.  Diversamente da Feurra e Grimaldi, Fantini era ben noto alla polizia politica come antifascista, il nome e la foto segnaletica apparivano nel Casellario Politico Centrale dove era definito anarchico. Di conseguenza ogni momento di particolare tensione politica, comprese le visite a Roma di personaggi illustri, comportava il fermo di polizia per alcuni giorni. Fantini aveva trovato lavoro in imprese edili dove l’apprezzamento per le sue capacità gli aveva procurato anche incarichi di responsabilità nei cantieri; le attenzioni poliziesche e il fermo comportavano la perdita di preziose giornate di lavoro . Decise di ricorrere al sottosegretario e poi ministro fascista Edmondo Rossoni, amico personale di Mussolini, ex socialista, ex sindacalista rivoluzionario, uno dei teorici e realizzatori più importanti della politica corporativa fascista che aveva trovato definizione nella Carta del lavoro.  Alla lettera di Fantini Rossoni rispose dichiarandolo non pericoloso, per cui a partire dalla fine del 1932 Fantini verrà solamente sorvegliato a  distanza. Ma ogni tre mesi gli uffici della polizia politica firmano un documento che attesta che è sempre tranquillo e non c’è niente di nuovo per quanto riguarda la sua attività politica. Tutto cambia dopo l’8 settembre 1943.

Roma fu liberata dall’occupazione tedesca il 4 giugno 1944 dalla Quinta Armata americana. Due settimane dopo veniva fermato in via Sicilia dal detective Thomas Tipton l’interprete delle SS Federico Scarpato, considerato tra i più attivi e feroci complici dei tedeschi. A lui si addebitava un’attività di spionaggio  e provocazione che aveva portato anche  all’arresto dei nipoti di Badoglio. Lo si accusava di aver maltrattato e seviziato i prigionieri politici contribuendo alla morte di Antonio Feurra e Italo Grimaldi. Il violento furore esibito davanti ai tedeschi serviva a coprire la sistematica rapina dei beni posseduti dagli arrestati: da casa del macellaio Grimaldi portò via 4000.000 lire e un maiale intero macellato per uso famiglia. L’inchiesta sul suo operato porta a un rapido processo che si conclude con la condanna a morte emanata ed eseguita il 25 aprile 1945, giorno della liberazione di Milano e della fine ufficiale della tragica avventura italiana nella seconda guerra mondiale. L’inchiesta condotta dagli americani e il processo presso l’Alta Corte di Giustizia per i crimini fascisti costituiscono l’unica fonte che consente di capire le ragioni della fine tragica dei tre amici di Montesacro. Dopo l’8 settembre e l’occupazione della città da parte dei tedeschi, Roma conosceva giorni agitati e pericolosi. L’avanzata delle truppe alleate era stata fermata sul Garigliano. Il 16 ottobre la comunità ebraica di Roma era stata rastrellata dalle SS e 1024 persone, tra cui più di duecento bambini, erano stati caricati sui treni per Auschwitz. Si può immaginare quale eco questa vicenda abbia provocato negli strati popolari della città, piccoli artigiani e commercianti in particolare; gli ebrei non vivevano solo nel Ghetto ma in ogni parte della città e anche a Montesacro furono arrestate e deportate famiglie di ebrei romani. I partiti politici in fase di ricostruzione incitavano la popolazione alla resistenza e all’insurrezione, soprattutto dopo che Napoli era riuscita a liberarsi dei tedeschi con una rivolta popolare negli ultimi giorni di settembre. Le persone con un minimo di sensibilità civile ed esperienza politica si chiedevano che cosa potessero fare per combattere gli occupanti e contribuire a liberare la città dalla loro presenza. Possiamo solo presumere che il gruppo di Montesacro abbia partecipato ai primi episodi di resistenza disorganizzata all’entrata delle truppe tedesche in città. Una volta consolidato il loro controllo della città, cominciano gli episodi di resistenza vera e propria, agguati  a soldati singoli, lanci di volantini e bombe  da parte di persone che passano veloci in bicicletta e spariscono.  L’episodio più clamoroso avviene in piazza Barberini il 18 dicembre 1943: una bomba lanciata in mezzo alla folla che usciva dal cinema provoca la morte di 10 persone, alcuni soldati tedeschi e  due ragazze italiane. L’attentato porta ad una pressione su spie e delatori per l’individuazione delle cellule in cui si discuteva ed organizzava l’opposizione al fascismo e all’occupazione tedesca. Un certo Luigi Guadagni denuncia il gruppo di Montesacro e scattano le perquisizioni e gli arresti.

Nessuno dei testimoni dell’inchiesta sull’arresto e la morte dei tre amici parla di presenza di armi nelle loro abitazioni perquisite di sorpresa, di organizzazione militare, di atti che nell’aprile del 1945 si potevano tranquillamente rivendicare di fronte agli inquirenti. Si parla invece di denuncia da parte di conoscenti fascisti abitanti nella stesa borgata. Guido Grimaldi, fratello di Italo e il figlio di quest’ultimo Amneris, raccontano fatti e fanno nomi, accusando un collega macellaio della vittima con cui si sarebbero trovati nei giorni precedenti ai fatti per una cena e una bevuta di colleghi: Io ricordo perfettamente che mio fratello ritornando da una colazione dove era stato ospite del signor Palotta Remigio….insieme con Nerio Perondi, squadrista, sciarpa littorio, ex segretario della sezione fascista di Legnate, residente a Montesacro, e Zocchi Amedeo, macellaio, anche di Montesacro, tutti fascisti, si fermarono a casa mia a bere e parlarono di politica… Guido Grimaldi, autore di questa testimonianza, viene a sua volta portato a via Tasso con l’accusa di aver brindato al comunismo, fatto evidentemente raccontato dai conoscenti fascisti del quartiere. La vicenda e il ruolo dei tre fucilati insieme a Forte Bravetta fu peraltro diversa per ciascuno di loro. Il primo ad essere arrestato fu Italo Grimaldi, sorpreso per strada il 20 dicembre da una squadra di SS guidata dallo Scarpato e da altri due fascisti italiani. Col viso ridotto a una maschera di sangue per i colpi inferti sul viso con in calcio di un fucile, viene trascinato a via Tasso e torturato. Quando la sera stessa il fratello Guido, arrestato a sua volta, ne intravede il viso da uno spioncino di una cella contigua, fatica a riconoscerlo.  La mattina dopo vengono arrestati Antonio Feurra, che viene anch’egli portato a via Tasso, e Riziero Fantini con due figli, rinchiusi nel carcere di Regina Coeli.

Il primo a registrare il nome di Antonio Feurra negli atti della sua passione e morte in via Tasso fu l’interprete, spia, truffatore e ladro, Federico Scarpato. Non scrisse Feurra, ma Feola. Si può immaginare che il cognome sia stato pronunciato a fatica da un uomo con i denti spezzati e la bocca piena di sangue, che non riusciva più ad articolare bene le parole. Così fu registrato nelle carte del carcere fascista e nazista e purtroppo ancora con quel cognome, e non con il suo, è segnalato nella grande scritta presente nel Museo della Resistenza creato nei locali delle prigioni.  La vicenda dei primi fucilati per attività antitedesca, termine che meglio non potrebbe definire la loro qualità di resistenti, fu relativamente poco considerata dai comitati dell’antifascismo romano. Tutto questo è comprensibile, se si pensa al violento impatto suscitato, prima e dopo la conclusione della guerra, dai 335 trucidati delle Fosse Ardeatine che oscurava i piccoli numeri rappresentati dai “precursori” di Forte Bravetta. Gli elementi di confusione e di travisamento si spiegano forse soprattutto col fatto che sulle vicende umane si sovrapposero le interpretazioni politiche e ideologiche. Che Fantini, Feurra e Grimaldi appartenessero al Partito Comunista e a un GAP di Montesacro già attivo a metà dicembre 1943 è possibile e forse probabile, ma non ci sono documenti certi che lo attestino. Nella resistenza di quei mesi confluisce la vicenda complessa del movimento progressista italiano che comprende una miriade di orientamenti diversi, dagli azionisti, agli anarchici, ai socialisti e comunisti di varie tendenze. L’affermazione del PCI nel dopoguerra ha steso una patina uniformante che nasconde una realtà complessa e variegata di cui oggi è difficile ricostruire i contorni. Anche le vicende singole subiscono la stessa sorte: nelle ricostruzioni delle vicende dell’antifascismo sardo è presente la notizia che Antonio Feurra sarebbe stato responsabile militare del gruppo di Montesacro. La testimonianza di Guido Grimaldi al processo dell’aprile 1945 documenta invece che a guidare il gruppo sarebbe stato il fratello Italo. Dichiara infatti che mio fratello era il capo dei patrioti di Montesacro. Non c’è motivo per non credergli a meno di pensare a una distinzione tra direzione politica e direzione militare, che appare poco probabile per un gruppo come questo.

I documenti sono molto laconici, la testimonianza di Lavinia, moglie di Antonio Feurra, sembra quella di una donna ferma con la mente e il cuore alle immagini di terrore e spavento del giorno dell’arresto. Tra le sue poche frasi spicca il dettaglio delle due divise da sottufficiale di finanza che furono sottratte quel giorno a casa sua dallo Scarpato. Chiamata a una nuova testimonianza qualche tempo dopo, Lavinia conferma le poche notizie dichiarate e tiene soltanto a precisare che quelle divise appartenevano a un compaesano di Antonio Feurra.  Voleva forse dire che nessuno doveva immaginare che potessero servire come travestimento per un’azione armata? Antonio Feurra aveva in effetti degli amici e dei compaesani nella Guardia di Finanza ed è possibile che uno di loro si sia liberato della divisa per non subire l’arruolamento nelle strutture della Repubblica di Salò. Dieci giorni dopo, il 31 dicembre la vita dei tre amici si conclude con la fucilazione a Forte Bravetta. Ciò che colpisce in questo gruppo di persone che hanno perso la vita perché accusati di essere nemici del fascismo e del nazismo, resistenti al dominio in atto di quelle strutture del massacro, è soprattutto la loro età e situazione familiare. Fantini, Feurra e Grimaldi non sono i giovani entusiasti del Liceo di Montesacro o dell’Università, che entreranno in azione nei mesi successivi. Sono uomini che potrebbero giustificare posizioni neutrali, o inerti, rispetto a ciò che sta avvenendo con il fatto di “avere famiglia”: le mogli, i figli numerosi, il lavoro. Invece fanno proprio il contrario: è per i figli, è per un futuro diverso, per una società più libera  e giusta in cui essi possano vivere, che sacrificano la propria vita.  I loro nomi si perdono tra i tanti nomi delle persone uccise in quei mesi da una parte e dall’altra della “guerra civile” italiana. Ma c’è qualcosa di speciale in loro ed è proprio l’essere comuni lavoratori, persone che sembrano percorrere le strade della vita senza nome, o col nome frainteso, e invece hanno dentro di sé un patrimonio di intelligenza, sensibilità, passione politica e civile.  Di questo patrimonio il potere in genere non sa che farsene; risulta prezioso invece quando si tratta di porre nuove basi alla convivenza civile. Non c’è di meglio per questo del sangue dei poveri e degli innocenti.

Archivio Centrale dello Stato di Roma, Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo n° 33 1944-47

 

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