Gerusalemme, capitale di tutti di Caterina Sitzia
Pubblichiamo un bell’articolo pervenuto al blog in relazione alle vicende della pace difficile in Terra Santa. Si tratta di riflessioni impegnative e acute, fra la geopolitica e l’istanza spirituale, degne di essere raccolte e rilanciate (gf.m.).
Pace vo cercando…
E’ recentemente tornato agli onori delle cronache, dividendo l’Occidente dall’Oriente, popoli atlantici europei e mediorientali, grazie ad una delle ultime trovate del mirabolante Presidente USA, il dibattito se Gerusalemme possa essere riconosciuta, o meno, la capitale dello Stato Ebraico.
Troppo sbrigativo ed immediato, derubricare l’argomento come una delle ultime trovate di the Donald, per riuscire nell’intento di spostare l’attenzione della pubblica opinione e dei media dalle scottanti attualità che riguardano lui ed il più stretto entourage presidenziale, genero compreso, come il Russia gate e altre gatte da pelare.
Facile declassarla come l’ultima delle strampalate iniziative dello stesso, per cercare di guadagnarsi una patente internazionale di statista capace di intervenire efficacemente come il capo di una potenza intercontinentale, in grado di risolvere dove altri capi, americani e non, hanno fallito.
Altrettanto forte la tentazione di inquadrare l’intervento del Presidente americano come una (tardiva?) manovra, anticipata dalla preliminare rottura degli accordi nucleari assunti da Obama e i vertici dello stato persiano, controbilanciando la forte iniziativa russa nello scacchiere mediorientale, rivelatasi alla fine vincente per la sconfitta dell’ISIS .
Sono tutte autorevoli e fondate ipotesi sulle quali si potrebbe discutere all’infinito trovando, all’unisono, ragioni a favore di questa e di quella.
Lasciando da parte la causa scatenante, su Gerusalemme hanno ragione gli israeliani o gli altri popoli da tempo immemore presenti in quelle terre? Difficile dare un risposta equilibrata, poiché vi sono ragioni storiche a sostegno di entrambe le ipotesi.
Gerusalemme prima di tutto è una questione politica di rilievo internazionale capace, se trascurata o, peggio, gestita in modo distorto, di compromettere equilibri mondiali.
Motivi che affondano nella storia degli ultimi duemila anni, quando la regione giudaica fu prima una provincia romana, seguendo poi altri destini che ne cambiarono i connotati geografici e non solo.
Non pare giusto ridurre il tutto alla polemica della forzatura inglese che, dando seguito ad una disposizione dell’ONU, nell’immediato dopoguerra decise di appoggiare la rinascita dello stato ebraico con i ben noti fatti legati allo sbarco della nave Exodus.
La questione, evidentemente, è più antica e molto più profonda.
Hanno ragione gli israeliani quando invocano la loro capitale più simbolicamente che realmente (ma non si sa fin dove, dal momento che in fatto di muri e recinti non scherzano affatto), in quanto i fatti antichi sembrerebbero rafforzare quell’aspirazione e soprattutto per dare compimento al “nuovo” (ormai settantenne) Israele, di fatto ricostituito ma senza la sua storica capitale. Certo, molti sostengono non sia affatto necessario perché, sia logisticamente che funzionalmente, Tel Aviv, la collina della primavera, è la migliore sede amministrativa che lo stato ebraico potesse avere dopo la diaspora e l’olocausto, affacciata sul Mediterraneo e verso l’Occidente, la seconda patria degli ebrei.
Hanno ragione i palestinesi ad invocare la loro capitale per tutti i fatti che si sono avvicendati storicamente, come la loro ininterrotta presenza e l’occupazione mussulmana, che vi ha stabilito sacri luoghi come la Moschea della roccia, mentre nel contempo maturava la lunga assenza di una “nazione” israeliana.
Gerusalemme è quindi culla “condivisa” di tanti popoli che in essa hanno dimorato da almeno 25 secoli e che in essa hanno stabilito comune luogo di vita e capisaldi religiosi.
Nel contesto appare persino superfluo ricordare che Gerusalemme è il luogo della Basilica della Natività, terra natale del Cristianesimo mondiale.
Vi sono quindi innanzi tutto ragioni interreligiose che legano diverse storie e tradizioni in modo indissolubile a quei luoghi e già questo sarebbe un valido motivo per cui non solo gli USA, ma tutte le potenze straniere farebbero bene a starne fuori.
Non sono in gioco l’accessibilità e l’esistenza stessa dei luoghi santi, sono in gioco gli equilibri israelo-palestinesi intimamente legati a quelli mediorientali, (e con essi quelli mondiali) che devono, una volta per tutte, trovare un assetto accettato dalle parti in causa secondo le formule più volte sperimentate come gli accordi di Oslo, sottoscritti da Arafat e Rabin, volti a raggiungere un equilibrio fra le parti in causa: una terra, una capitale e due stati dentro di essa come innegabilmente è nei fatti antecedenti ed attuali.
La diplomazia ed il diritto internazionale, senza gli imbarazzanti interventi e i discussi patrocini americani e quant’altro, ben potranno trovare una composizione a tutto questo quando i veri interlocutori troveranno equilibri reali. Ciò dipenderà dalle volontà israeliane da una parte e dalla capacità di assumere un’unità di intenti da parte di tutta la popolazione palestinese.
Non serviranno né il potenziale militare (neppure atomico) di Israele da un lato né, dall’altro, le controproducenti vane continue pressioni, con devastanti azioni terroristiche, da parte delle fazioni palestinesi sostenute dal vicino e invadente Iran.
Basterebbero forse meno ingerenze che riattizzano trascorsi storici dolorosi e, da parte della divisa nazione palestinese, maggiore consapevolezza che un futuro fondato sulla violenza non ha nessuna prospettiva, mentre un assestamento regionale (insieme a quello libanese) porterebbe pace, benessere e sviluppo.
Purtroppo (o fortunatamente) la regione non ha ricchezze nel sottosuolo tali da imporre a tutti più miti (e interessate) condotte.
L’attualità, l’attivismo imprevedibile quanto distruttivo del presidente americano e degli altri attori regionali, sembrano distogliere le menti diplomatiche e la pubblica opinione da questioni umanamente troppo complesse, la cui risoluzione richiede pace e sforzi immani.
A tal proposito sovviene un aneddoto attribuito all’ateo primo presidente di Israele, Ben Gurion, quando chiese ragioni sulla fede al suo amico filosofo Martin Bubber ,la cui risposta giunse breve quanto lapidaria: “se fosse semplice spiegare certe cose, forse anche io, come lei, non potrei credere!”
Ragioni eterogenee e di straordinaria rilevanza tengono distanti gli interlocutori ma, certo, anche i sionisti potrebbero rinunciare all’ingiustificata pretesa sia per la contingenza storica sia per le ragioni innanzi riportate ma, a pensarci bene, una riflessione o conclusione che se ne potrebbe trarre è che la vera ragione inseguita dagli astuti politici ebraici verso la capitale avita sia piuttosto un’altra: una cosa è essere riconosciuti di fatto dal proprio padre, altra cosa è potersi fregiare del suo cognome: per Israele essere di fatto lo stato della terra promessa, ma non averne la storica capitale come propria sede riconosciuta da tutti, pare in modo accecante un fatto similare.