Nel 130° anniversario della morte di Giovanni Battista Tuveri, uno stellone d’onore nel Monumentale di Bonaria disputato fra il Municipio di Collinas e l’Amministrazione cagliaritana, di Gianfranco Murtas
Ho letto in questi giorni su L’Unione Sarda un articolo a firma di Santina Ravì circa la richiesta, da parte del sindaco di Collinas all’Amministrazione civica di Cagliari, del trasferimento in paese della grande stella marmorea che al camposanto di Bonaria onora, da un secolo e trent’anni, la memoria di Giovanni Battista Tuveri.
So da molte fonti che Franco Cannas, il sindaco di Collinas, già Forru, lontano successore di Tuveri in quella generosa magistratura civica, è un amministratore valoroso, competente e colto, sensibile ai dati della storia non meno che ai bisogni del presente della sua comunità, sicché la sua istanza merita un rispetto supplementare che si aggiunge a quello delle motivazioni che adduce. In primis l’abbandono (obiettivo e ingiustificato, del Comune di Cagliari e della stessa giunta Zedda, del monumento che onora il grande pensatore democratico). Ma non posso, in conclusione, concordare con lui.
Sopra ogni altra cosa, e prima di entrare nello stretto merito della questione, mi viene però da proporre qualche rapida riflessione sia sul significato morale e sentimentale che una memoria storica di tanta autorevolezza, quale indubbiamente è quella di Giovanni Battista Tuveri, porta con sé, vedendone le ricadute possibili anche sul piano pedagogico, alimento a idealità da riscoprire o incrociare per la prima volta nell’offerta (anche scolastica, locale e no) ai giovani e giovanissimi; sia sulla attualità che il messaggio di vita e di pensiero del grande repubblicano e federalista dell’Ottocento reca con sé, entrando o non entrando nel dibattito pubblico sulle riforme possibili del nostro ordinamento, tanto quello nazionale quanto quello regionale. Perché poi a questo bussano, con gli umori e malumori del momento più che con una meditata visionarietà storica, autonomisti di vario credo, separatisti o indipendentisti, sovranisti (a raccogliere qui una più recente declinazione semantica, certamente elegante, venuta su zampillando da sinistra, nella indifferenza – banale e superficiale a mio modesto avviso – che l’etichetta sia condivisa, o sia stata magari lanciata, anche da certi parafascisti sardi e continentali che con il Goffredo Mameli dell’Inno degli italiani – oggi anche formalmente nostro inno nazionale – non hanno parentela né vicina né lontana, né passata né presente e neppure futura).
Andrebbe ripercorsa questa storia della democrazia italiana e sarda dell’Ottocento per scorgerne le relazioni e/o le scissioni, le distanze, gli accostamenti faciloni e senza sostanza, con quanto s’è prodotto in questo settantennio e più, politico e sociale, venuto dopo la fine della dittatura e della guerra. Occorrerebbe ripensare quanto delle intuizioni profonde, oltre dunque il contingente per provocazione e/o per risposta, di un Asproni o di un Tuveri sia rimasto nel tempo, coltivato dalle formazioni della sinistra politica e culturale riformatrice (e un tempo potevamo dire anche “non di classe”). Perché comunque l’attuazione progressiva nelle istituzioni e nelle politiche dell’idea europeista anticipata fin dal 1834 da Mazzini con la sua Giovine Europa – Asproni era allora un giovane chierico fresco di ordinazione e appena ricatapultato dal vescovo Bua per specializzarsi avvocato al seminario e all’università di Cagliari, e Tuveri un adolescente che viveva anche lui il clima di studio ecclesiastico al Tridentino di Castello dal quale soltanto da pochi mesi era uscito con il diploma di magistero per avviarsi ad un baccalaureato in leggi – ha posto in crisi, con la sua rete di trattati internazionali sempre più stringenti, l’idea delle autonomie sovrane degli stati nazionali, senza risolvere l’istanza che pure resiste diffusa e direi giustificata nel continente, e sostenuta da minoranze ideali forse illuse, forse tutte nobili, della Europa dei popoli. Concezione che guarda con una sua speciale attenzione alle questioni identitarie, talvolta facendone idoli e dibattito senza costrutto e prospettiva, altre volte scavando nella storia e provandosi in un rilancio di modernità franco da dogmatismi o settarismi. Ma certo è che la dimensione europea rimette in gioco, per stringere o per allargare, anche questa istanza portando alla ribalta aspirazioni e candidature regionali, cioè substatuali definite talvolta anche nazionali – si consideri ora la Catalogna –, nella interlocuzione politica e nella deliberazione legislativa (si pensi soltanto, per quanto ci riguarda, alla questione della insularità, condivisa con la Corsica e le Baleari).
Insomma è fatica della generazione oggi impegnata nelle responsabilità istituzionali del continente, dell’Unione Europea, e da lì per li rami, quella di “promuovere” essa un ampio ripensamento (e non soltanto di “ricevere” ripensamenti e input nuovi), circa assetti che meglio sappiano conciliare, forti tutti di un senso storico, legittime aspettative di popoli e territori e vincoli insuperabili della scena mondiale in materia sia di economia e finanza sia di diplomazia sia di difesa. Niente è facile, niente può venire dagli slogan gridati da piazze senza responsabilità, per non dire di animelle in libera uscita che con le loro tavole mosaiche non aggiungono un grammo alla comune consapevolezza del “cosa fare” e “come fare”.
Con i ragazzi delle medie al camposanto risorgimentale
Un mese fa mi è occorso di accompagnare una terza media della scuola Alfieri di Cagliari al Monumentale di Bonaria: il programma prevedeva di compiere un percorso risorgimentale, materia di studio dell’anno scolastico, scoprendo dunque i sepolcri di alcuni dei partecipanti sardi, così nelle canoniche tre guerre dell’indipendenza dall’Austria, come nel conflitto di Crimea, e nelle campagne garibaldine e di Mentana, fino alla presa di Porta Pia nel fatidico 20 settembre, ma partendo – presso il cenotafio di Enrico Serpieri e le stele gugliate dei suoi figli – da qualche considerazione sulla Repubblica Romana. Dico chiaro: quella Repubblica per la cui difesa cadde il nostro Goffredo Mameli, martire ventiduenne dopo un mese di agonia straziante – accudito egli, come un fratello giovane, da Mazzini e Garibaldi che puntualmente ne informavano la madre a Genova –, quella Repubblica che proclamò una costituzione che prevedeva la proscrizione delle “pene di morte e di confisca” (quando tutti gli stati impiccavano e ghigliottinavano tutti i giorni, il papa Pio IX artefice illiberale compreso fra i carnefici del patibolo) e riconosceva il suffragio universale a tutti i cittadini d’età maggiore ed ogni libertà al popolo. Quelle libertà, sarebbe giusto ricordare, che ancora tre lustri dopo, nel 1864, sarebbero stati condannati dal papato nelle tristi elencazioni del “Sillabo”: dalla libertà di culto e di stampa ai diritti dell’uomo, alla stessa democrazia (leggere per credere l’incredibile che Paolo VI e Giovanni Paolo II avrebbero rovesciato di segno, felicemente, ora sono pochi decenni, inneggiando alla Provvidenza e alla storia). Quel primo titolo della costituzione votata ad unanimità dalla assemblea romana era, insieme con gli introduttivi “principi fondamentali”, poesia pura e, insieme, diritto positivo. E quanto sarebbe stata debitrice di questa romana, nel 1948, la costituzione della Repubblica italiana!
Testimonianza risorgimentale, di valori patri e di valori universali ad un tempo. Ché il risorgimento fu una causa storica e fu esso, con i suoi santi e i suoi martiri, ben degno della storia di cui apriva nuove stagioni, arrivando a dare unità a un popolo che italiano, Italia anzi, era stato sentito da Petrarca nel ’300 così come, cinquecento anni dopo, in piena restaurazione, da Leopardi.
Ma con gli artefici della costruzione politico-militare, e i nostri nel novero, compresi quelli ora nel riposo del camposanto di Bonaria, i pensatori. Tuveri, o i suoi simboli, fra essi e con essi. Sicché con i ragazzi della terza, sezione I, dell’Alfieri ci siamo recati apposta nel tunnel che, al Monumentale, dall’area di San Bardilio introduce ai quattro quadrati erbosi delle primissime sepolture e alle più antiche cappelle confraternali e gentilizie, accoglie la stella del memoriale tuveriano. E con essa anche la lapide del Brusco Onnis cagliaritano.
Il liberalismo aprì, pur fra molte contraddizioni, la strada alla democrazia. La Sardegna dette il suo contributo, sempre nell’orizzonte largo dei valori universali di libertà, che non erano vaniloquio o rischio di omologazione ma profezia in tempi di oscurantismo religioso e politico. Basti il nome di Efisio Tola, fucilato a Chambery, trentenne, proprio nel 1833 del sacerdozio asproniano e del diploma tuveriano, perché affiliato alla mazziniana Giovine Italia filone ispirativo della Giovine Europa. E la democrazia, prima e dopo le costituzioni del 1848 – dunque anche prima dello Statuto albertino, fu sì parte del grande movimento liberale del secolo ma nel divenire dei tempi sempre più se ne staccò. Avvenne quando anche i liberali e/o i cosiddetti liberali ebbero la responsabilità dei governi, come l’ebbe il Cavour nel regno di Sardegna (o sardo-piemontese) prima e d’Italia poi, e quindi i suoi successori, ed essi non rinunciarono a strumenti impositivi autoritari, perfino allo stato d’assedio nel 1898, agli arresti massivi: allora la democrazia sempre più ne prese le distanze, marcando una identità non confondibile con altre anime. Il centro della libertà fu ancor più esplicitamente definito per i democratici nel civile e nell’istituzionale, mentre esso – il centro della libertà – restò nell’idea liberale (e poi, per contrasto oppositivo, per il movimento socialista) il campo economico: a tutela della iniziativa privata e delle leggi del mercato (e nell’altro campo nell’unità di classe, nella pubblicizzazione dei mezzi di produzione e magari nella dittatura del proletariato).
Fu dalla democrazia mazziniana e cattaneana, come dunque da quella tuveriana (e con tutte le sue particolarità anche asproniana) che vennero, tutte sul filone civile e istituzionale, l’istanza repubblicana e quella del suffragio universale (e sarebbe venuto da essa anche il movimento delle suffragette – si ricordi in Sardegna la Bastianina Martini Musu –, cioè per il voto femminile), quella variamente autonomista a presidio dei territori nella versioni municipalista, regionalista e federalista. La concezione della “cittadinanza” in luogo di quella della “sudditanza” (nei versi di una corona) fu patrimonio della democrazia che la storia avrebbe poi affermato lasciandone traccia nei vocativi delle moderne minoranze della sinistra (essi aprivano infatti i loro comizi novecenteschi con il vocativo “Cittadini!”, mentre altri sceglievano espressioni diverse: “Amici”, “Compagni”, “Lavoratori”, “Italiani”…).
Fu altra cosa dal liberalismo autoritario la democrazia, negli ultimi decenni del secolo XIX. E i discorsi degli studenti universitari o dei soci del Circolo Democratico e degli altri sodalizi attivi a Cagliari (dal Club giovanile alla Ginnastica Mazzini) pronunciati, nelle ricorrenze di calendario, davanti alla croce dei martiri di Mentana o alla lapide garibaldina nel Monumentale, oppure in città davanti ai marmi mazziniani di Castello o cavallottiani nella via Manno, erano puntualmente zittiti dagli agenti della prefettura e rimosse le corone di fiori o d’alloro appena deposte coi loro bei fiocchi rossi. Sicché puntuale arrivava a Roma la protesta degli offesi da tanta miopia dei questurini, e l’onorevole Giovanni Bovio aggiungeva la sua voce di rimprovero al ministro dell’Interno e al presidente del Consiglio per tanta pusillanime insistita arroganza.
Tuveri e Bovio, mazziniani
Abbiamo considerato, e ammirato, la stella tuveriana, i ragazzi e i loro professori Zoncheddu, Panese e Mathieu, ed anch’io con loro. I richiami alla libertà (di vita umana), alla eguaglianza, alla probità e al lavoro, agli indirizzi cioè di un’esistenza sociale ed esemplare quale fu quella del filosofo repubblicano – indirizzi scolpiti nelle punte della stella –, l’accenno a che nel risorgimento, insieme con i soldati (e i volontari) impegnati nelle battaglie a fuoco, i soldati civili del pensiero e della politica costituivano l’altra gamba di un patriottismo attivo: anche a questo abbiamo fatto riferimento nelle poche parole spese, i ragazzi per domandare, noi altri per cercare di rispondere, prima di salire al famedio dei Reduci delle Patrie Battaglie fra loro associati, al rientro in città dalle campagne militari, in una società patriottica e di mutuo soccorso sociale ed operaio. (Importante questa esperienza scolastica anche di generale scoperta del Monumentale, luogo delle memorie condivise della comunità cittadina, e per i ragazzi motivo spontaneo di associazione, e migliore comprensione, della grande storia a quella sarda e locale, per taluno anche familiare).
Disagevole, purtroppo, la lettura dell’epigrafe dettata da Giovanni Bovio – sempre lui! il grande Bovio che fu anche Gran Dignitario del Grande Oriente massonico ed oratore allo scoprimento del monumento a Giordano Bruno in Campo dei Fiori, avrebbe dettato anche l’epigrafe, là dirimpetto, in onore di un altro mazziniano, il pubblicista Vincenzo Brusco Onnis, come più tardi, nel 1902, quella in onore di Efisio Marini, per la lapide affissa all’università (dapprima nell’atrio, poi in rettorato). Direi ancora: il Bovio che ebbe onori tutti suoi, quando anche lui lasciò il tempo per il non tempo, nel 1903, e poi nel 1905, quando a Cagliari gli fu perfino eretto un monumento di marmo nello square delle Reali, spalle a Verdi e faccia alla stazione ferroviaria. E rimase ad ascoltare proprio là, pietra umana, i discorsi degli studenti riuniti in assemblea, quelli del circolo dei Martiri del libero pensiero Giordano Bruno, Gramsci diciottenne fra loro, e Renato Figari oratore leader; il Bovio effigiato nel doppio (in gesso pesante) che i fascisti avrebbero sequestrato alla loggia massonica Sigismondo Arquer che lo teneva come un nume tutelare nella sua sede di via Barcellona e fortunosamente salvato e recuperato mezzo secolo dopo, oggi custodito a palazzo Sanjust…
Bovio, il quale dettava l’epigrafe in onore di Giovanni Battista Tuveri «che sdegnoso del presente / su cui si adagia / il dotto e il ricco vulgo / presentì tempi di giustizia / e fu filosofo / nel pensiero e nella vita». Nell’anno MDCCCLXXXVII, «gli studenti dell’Università di Cagliari PP». Così nel marmo scuro in quel nostro famedio in ventiquattresimo.
La cronaca forse non è conosciuta. Ne scrissi una trentina d’anni fa, proprio nel primo capitolo del mio L’Edera sui bastioni. I repubblicani a Cagliari nell’età di Bacaredda (Cagliari, Le Volpi, 1988). Il semplice spoglio della stampa – operazione umile ma preziosa e perfino, talvolta, necessaria – valse allora al recupero delle fonti, documenti mi vennero poi da altre fonti. Ma la cerimonia era tutta cagliaritana, degli studenti e di molti altri uomini di coscienza civile; e sempre da Cagliari, dalla capitale sarda, dove dal 1892 avrebbe operato un circolo giovanile studentesco, di maggior intonazione letteraria, intitolato proprio a Giovanni Battista Tuveri, sarebbe partita l’altra operazione gemella destinata a portare, nella primavera 1895, allo scoprimento di un monumento in Collinas. Da Cagliari sarebbe partita una grande sottoscrizione e anche dai centri della provincia sarebbero venuti gli aiuti di partecipazione… Ne dirò poi. E torno al 1887, alla notizia della scomparsa del pensatore che fu anche deputato alla Camera subalpina, e che fu soprattutto pubblicista e saggista dai chiari principi, e al 1888, quando lo si celebrò proprio al Monumentale di Bonaria.
Aggiungo, per evidenza di testo, che non mi sto inoltrando qui nel complesso e suggestivo pensiero filosofico o politico di Giovanni Battista Tuveri, ampiamente analizzato e commentato da numerosi studiosi, fra i quali mi preme citare l’amico mio perduto e indimenticato Gianfranco Contu – antesignano, in quest’ultimo mezzo secolo, delle ricerche tuveriane –, e mi preme citare altresì l’amico pure carissimo e geniale Alberto Contu, autore di numerosi saggi in materia. I titoli tuveriani costituiscono ormai una biblioteca specializzata e ad essa rimando, insieme con la ristampa di numerosi lavori del Collinese, avvenuta grazie anche a sollecitudini pubbliche regionali. Nel gran novero, in particolare, con i contributi del professor Lorenzo Del Piano, accenno soltanto ad Antonio Delogu, Filosofia e società in Sardegna. Giovanni Battista Tuveri (1815-1887), uscito da FrancoAngeli nel 1992.
All’indomani della scomparsa, nella stampa cagliaritana
La morte di Giovanni Battista Tuveri era stata accolta con profonda afflizione nelle redazioni dei giornali democratici, quotidiani e periodici, locali. L’Avvenire di Sardegna, la testata più importante (L’Unione Sarda sarebbe venuta due anni più tardi e La Nuova Sardegna dopo quattro), nella sua edizione del 10 dicembre 1887 pubblicava anche la testimonianza d’un nipote collinese: «Zio G B Tuveri – scriveva – morì alle ore 7,35 pom. d’ieri. Giusta le sue abitudini distribuiva la cena alla famiglia e nell’atto in cui con una candela in mano offriva, coll’altra, la zuppa al suo carissimo Carmine, sentissi mancare le gambe e con una esclamazione di meraviglia ripetuta per tre volte – Eh! Eh! Eh! (quasi non sapendosi dar ragione di quanto accadeva) – stramazzò a terra. Tentò rialzarsi e fece sforzi per profferire parole, ma non vi riuscì, ricadde di nuovo ed esalò l’anima».
Preceduto dall’epigrafe carducciana («A voi la vita mia, me ignota fossa / Accolga innanzi gli inni / Pugnate voi contro iniqua possa / Contro tutti i tiranni!»), così invece L’Arena apriva la sua edizione dell’11 dicembre: «Giovanni Battista Tuveri non è più. Oggi il telegrafo, a noi che da poco tempo avevamo ricevuto buone e confortanti notizie sullo stato dell’illustre uomo comunicavane la triste e dolorosissima notizia: “Morte di Giovanni Battista Tuveri avvenuta ore sette e mezza pomeridiane 8 dicembre 1887. La Famiglia”.
«Permettete che lo constatiamo. Per il mondo indifferente, per l’apatia dei più, la morte di Giovanni Battista Tuveri non equivale ad altro che alla scomparsa d’un uomo dalla gran scena umana; per i malvagi e per gl’iniqui, e non sono pochi e si conoscono da tutti, la morte di Giovanni Battista Tuveri è semplicemente un benefizio, e solo per noi, che dalla sua virtù, dai suoi conforti traemmo incitamenti alle lotte venture, la morte di Giovanni Battista Tuveri è disgrazia, e più che disgrazia, immenso danno. Di lui che odiato a morte da’ mestatori, dai venditori delle coscienze, della dignità paesana, dirà la storia; a noi, per ora, poiché giunta non è pur ancora l’alba della giustizia e della libertà, non pianti sulla tomba dell’illustre estinto, ma novelle affermazioni.
«Onore ai morti! Onore agli onesti che vanno a riposare le stanche ossa all’ultima dimora. Onore a Giovanni Battista Tuveri: e sia e ferva la pugna contro ogni iniqua possa, contro quanti i di lui giorni vilmente angustiarono, contro tutti i tiranni. Onore al morti!».
Per parte sua, L’Avvenire di Sardegna il 17 dicembre pubblicava il testamento, nobilissimo, dell’illustre scomparso e tutta una serie di telegrammi di lutto pervenuti alla famiglia.
Uno stellone per 192,40 lire, con cuori caldi
Dopo soli tre giorni da quell’8 dicembre 1887 gli universitari avevano eletto un proprio comitato coll’incarico di avviare un’iniziativa capace di onorare nel modo più degno colui che era unanimemente riconosciuto come il pensatore più moderno ed avanzato della Sardegna dell’Ottocento. Fra gli altri ne facevano parte anche Roberto Binaghi, prossimo magnifico rettore, ed Ignazio Macis, futuro esponente cli punta dell’avvocatura cittadina e del radicalismo politico cagliaritano anni ’90: entrambi massoni, opinion leaders della loggia Sigismondo Arquer (al debutto giusto due anni dopo).
Prima mossa degli studenti era stata quella del lancio di una pubblica sottoscrizione in vista di approntare una lapide in memoriam da incassare in una delle pareti del Monumentale di Bonaria. Così nel giro di appena due settimane erano stati in cento ad aver risposto all’appello. Non mancava Ottone Bacaredda, che avrebbe esordito come sindaco anche lui fra meno di due anni, nella nuova stagione che si apriva al secolo nuovo. Cento sottoscrittori per 192,40 lire complessive.
Era toccato al giovanissimo scultore Emilio Atzeni Incidere nel marmo – circoscritta in una corona d’alloro la stella d’Italia, le cui punte annunciavano ciascuna un’opera del Tuveri e, autografata in rosso, l’epigrafe di Giovanni Bovio, quelle parole musicali sopra evocate: «A G.B. Tuveri / che sdegnoso del presente / su cui si adagia / il dotto e ricco vulgo / presentì tempi di giustizia / e fu filosofo / nei pensieri e nella vita».
La mattina del 5 febbraio un lungo corteo s’era mosso dall’università, aperto dalle bande musicali (la Civica e quella della società sportiva e ricreativa “Gialeto”) e da molte decine di studenti e professori, forte di numerose presenze di delegati di pubbliche amministrazioni e di sodalizi. C’erano i deputati Salaris e Palomba, c’era il professore Domenico Lovisato, l’irredento triestino rifugiato in Sardegna, sempre devoto a Mazzini e ad Oberdan, il ricordo del cui sacrificio era, a Cagliari, occasione ogni anno per una celebrazione repubblicana, già un dodicennio prima della fondazione del partito.
«La larghezza degli inviti diramati ad ogni sorta di persona senza distinzione di classe o d’opinione aveva lasciato Intendere che se l’uomo che si intendeva onorare professava opinioni repubblicane, non per questo una chiassosa manifestazione di partito intendevasi fare, ma mostrare come tutta la Sardegna si univa reverente nel tributare onoranze», aveva commentato L’Avvenire, diretto da un ex garibaldino come Giovanni De Francesco.
Il discorso di circostanza, elevato nei sentimenti e nella forma, dopo lo scoprimento della lapide, l’aveva tenuto Felice Uda, letterato raffinato (fu anche uno dei primi massoni cagliaritani, nella loggia Vittoria innalzata all’indomani dell’unità d’Italia), il quale per una buona mezz’ora aveva, con rigore critico, tessuto le lodi del filosofo, concludendo telegrafico: «Visse e mori incontaminato», ed esortando i giovani là convenuti all’austerità di vita e alla nobiltà dei sentimenti: «imitate questo grande esempio anche nella serietà e nell’austerità. Abbiatelo presente nelle dubbiezze e fate nelle difficili circostanze com’egli, vivente, avrebbe fatto. Rispettate in lui i pochi che pensano, i pochi che sentono, i pochi che amano. Lasciate, nel suo nome, le leggierezze, non sempre perdonabili, dell’età vostra. E pensate che non abbiamo più né arte, né letteratura, né democrazia né popolo, ma solo pochi tribolati per affannosi interessi. Rifate voi, giovani, la vostra città, il vostro avvenire nell’esempio suo, ed ambite, non le grandi, ma le piccole glorie, tra le quali annovero questa, che i sepolcri desiderano invano: Visse e morì incontaminato».
Unica nota stonata: quella bandiera universitaria negata dal rettore Luigi Zanda, un diniego che si combinava bene con le riserve e i distinguo, fortunatamente passeggeri, della Società operaia di Cagliari e di quella dei Reduci (sodalizi in cui i fedeli di casa Savoia soverchiavano nel numero quelli devoti all’Apostolo repubblicano)…
Ben altra sensibilità aveva mostrato l’anziano senatore, e già rettore, Gavino Scano, liberal-monarchico anche lui, ma soprattutto patriota, e capo carismatico della Massoneria locale anni ’70 ed ’80 il quale, pur malato, aveva voluto con un biglietto presenziare all’omaggio a «quell’uomo venerando, nel quale la modestia era pari alla dottrina profonda, il cuore all’intelletto grande».
Dopo L’Avvenire tutti I giornali della città si erano occupati dell’avvenimento, ricordando le virtù del grande Collinese. Così L’Arena, così Il Bertoldo che aveva accusato il rettore Zanda d’aver talmente involuto il suo pensiero da ridursi ad essere un codino pauroso…
Qualche riferimento bibliografico
Ho detto che la stampa cagliaritana dette largo spazio tanto alla notizia luttuosa proveniente da Collinas quanto alla iniziativa cagliaritana. Offro qui di seguito qualche riferimento più preciso ad una pubblicistica che taluno potrebbe meglio compulsare al fine di trarne spunto per nuovi lavori di approfondimento: L’Avvenire di Sardegna, 8, 12, 17, 24 e 31 dicembre 1887, 6, 7 e 10 febbraio 1888; Il Bertoldo, n. 15, 11 dicembre 1887 e nn. 2 e 7, rispettivamente 8 gennaio e 12 febbraio 1888; L’Arena, nn. 39 e 41, rispettivamente 11 e 25 dicembre 1887, e n. 2, 12 gennaio 1888.
Più particolarmente, nel suo n. 41 del 1887, L’Arena dava riconoscimento al comune di Sorso di essere stato il primo ad onorare il grande repubblicano: «Onore al merito – scriveva il periodico autodefinitosi “giornale del popolo”. Abbiamo appreso con piacere che il primo paese dell’isola che abbia onorato il nostro ora defunto e illustre conterraneo Giovanni Battista Tuveri è stato Sorso, capoluogo di mandamento nella provincia di Sassari, di oltre 5.000 abitanti e che già da sei anni, vivente ancora il T., e sotto l’amministrazione di quell’egregio gentiluomo che è il cav. Ignazio Muciga, intitolò dal nome dell’illustre conterraneo una del nuove vie in costruzione, e la prima anche che si presenta allo sguardo di chi giunge in paese per lo stradone Sassari-Sorso…».
Sorso democratica e repubblicana meriterebbe forse uno studio tutto speciale. Converrà ricordare che quattro anni più tardi, nel ’91, la visita di Felice Cavallotti in Sardegna sarà motivata proprio da un invito proveniente da un circolo sorsese. Interessante sarebbe, in questo quadro, approfondire la conoscenza della figura di don Luciano Nieddu, teologo, morto all’età di settantotto anni nel giugno 1898. Una specie di don Verità, un nuovo Salvatore Frassu?
Il testo dell’orazione pronunciata da Felice Uda al Monumentale cagliaritano di Bonaria fu stampato dalla tipografia già Timon nello stesso 1888 sotto il titolo G.B. Tuveri. Discorso profferito in occasione d’una lapide commemorativa posta nel camposanto di Cagliari per iniziativa degli studenti dell’Università il 5 febbraio 1888. Il volumetto – che consta di una cinquantina di pagine ed è corredato da note ed appendici sull’opera filosofica-politica del Tuveri – è conservato presso la Biblioteca comunale di Cagliari.
Il replay, sette anni dopo, in Marmilla
Altra scena ora con focus provinciale, fra Cagliari e Collinas. Una mobilitazione generale in vista cioè della realizzazione di un medaglione in rilievo da collocare nel paese natale del filosofo, nell’aprile 1895.
Le adesioni alla pubblica sottoscrizione promossa dal circolo tuveriano di palazzo Rossi, a Castello, come detto in attività dal 1892 (novembre), erano state qualche centinaio. L’Unione Sarda ne dava puntuale notizia, pure con dettaglio nominativo dei contribuenti. Le offerte andavano dai dieci centesimi alle due lire. Monsignor Paolo Maria Serci, l’arcivescovo, aveva elargito dieci lire, cinque il leader clericale Enrico Sanjust, ma l’on. Francesco Pais Serra il garibaldino addirittura venti. Numerosi gli anonimi, i classici “N.N.”. La raccolta globale era stata di L. 690,85.
Ho detto che la sottoscrizione popolare l’aveva promossa un circolo “letterario” cagliaritano Intitolato proprio al grande Collinese. Composto da giovani, ess aveva trovato la sua sede in uno dei più solenni palazzi della Cagliari antica, proprio all’angolo di congiunzione di due fra le più suggestive strade della città medievale, la via Genovesi e la via Lamarmora (ex Dritta), a pochi metri dal portico delle Grazie e dal bastioncino di Santa Caterina.
Alcune decine di giovani, non tutti necessariamente politicizzati, dal novembre 1892 avevano preso a riunirsi nel piano terra del vecchio edificio, alternando le conferenze alle feste, le gare di scherma alle sfilate patriottiche. Così nell’ampia sala erano corsi i fantasmi di Mazzini e di Fogazzaro, di Leopardi, di Verga e di Garibaldi, di Capuana, di Rovetta e si erano esibite le maschere di carnevale. “Il sorgere delle nuove Idee” era stato, per esempio, l’argomento presentato dal liceale Francesco Sanna, mentre il giovanissimo Raffa Garzia – destinato a dirigere un giorno (neppure lontano) L’Unione Sarda e ad insegnare poi all’università di Bologna – aveva preferito trattare del “Romanzo italiano contemporaneo”. Un altro studente, Giovanni Battista Sechi, s’era soffermato sul “Pessimismo moderno” come corrente di pensiero; Jago Siotto – un futuro anche per lui di redattore capo e di direttore de L’Unione Sarda, di avvocato e antifascista militante – aveva parlato della “Letteratura e la sua missione”, mentre Alfonso Dessì di “Mazzini e le sue opere giovanili”. Fra le iniziative “giovanili” si potrebbero pure includere – per il loro aspetto anche emotivo e coreografico – i cortei garibaldini, con banda e bandiera, promossi non sempre col successo sperato e meritato: come appunto sarebbe capitato proprio il 2 giugno 1895, eco abortita delle manifestazioni collinesi… Epperò, o comunque, le maschere e la scherma di cui ho detto, e tanto più le feste danzanti, capaci dl protrarsi fin alle prime luci dell’alba, impedivano a tutti, soci e osservatori, di pensare che al “Tuveri” la seriosità prevalesse per forza sulle esigenze dell’età dei soci coinvolti.
Presidente e fondatore del circolo era Alfonso Dessì, un ragazzo meno che ventenne – futuro zio del celebre autore di Paese d’ombre –, villacidrese d’origine, mazziniano e garibaldino, anima del repubblicanesimo giovane della città che compiva allora, fra mille trasformazioni, il suo passaggio da secolo vecchio a secolo nuovo.
L’obiettivo era diventato dunque un monumento, modesto ma dignitoso, austero nella sua espressività, da far sorgere a Collinas, proprio nello spiazzo dirimpetto alla casa che era stata abitata dal filosofo e dove viveva ancora la vedova con i due figli, Carmine e Mariangela. L’iniziativa era stata messa a punto nel gennaio del ’94. Avviata a Cagliari, la “la questua di riconoscenza” s’era subito allargata ai molti paesi dell’interno, e tutti avevano aderito, dalla Marmilla all’Ogliastra, dal Sulcis-Iglesiente alla Trexenta. Con Cagliari e Collinas erano in lista San Nicolò Gerrei, Sanluri, Villacidro, Selegas, Seui, Mandas, Isili, Nuraminis, Samatzai, Segariu, Senorbì, Arbus, San Gavino, Samassi, Serramanna, Tuili, Guspini, Lunamatrona, Siddi, Sardara, Sant’Antioco, Gonnostramatza, Ales, Gonnoscodina, Simala, Zeppara, Escovedu, Gonnosnò, Usellus, Ollasta/Usellus, Turri, Barumini, Morgongiori, Villanovaforru.
Municipi ed enti come la Camera dl commercio del capoluogo, singoli cittadini delle più svariate condizioni e ideologie, circoli e società, dagli universitari agli operai, fino, come detto, all’arcivescovo e ai parlamentari: non mancava nessuno. Tutti per onorare il mite uomo di studi, mite ma mai accondiscendente o propenso ad annacquare i suoi principii, colui che Giovanni Bovio aveva chiamato «filosofo nei pensieri e nella vita».
Partiva ancora da Cagliari un segno concreto, plastico, di stima verso Giovanni Battista Tuveri e poi tutto il territorio della provincia se ne faceva coinvolgere.
La ricordo in breve, adesso, la cerimonia paesana che s’era svolta il 28 aprile. Le comitive arrivarono per il più, o quelle più numerose, da Cagliari, ma tutta la provincia era rappresentata. Le Reali avevano assicurato uno sconto del biglietto pari alla metà del prezzo. I binari si fermavano a San Gavino Monreale e dunque un servizio di vetture – le vetture del 1895! – coprì il tragitto fino al cuore, bello e povero, della Marmilla.
Ecco i giovani del circolo “Tuveri”, ecco la delegazione della Società operaia dl Cagliari, stavolta perfettina, con tanto di bandiera e la guida assicurata dal presidente Enrico Fadda; ecco la rappresentanza del Circolo universitario; ecco ancora un buon numero di Iscritti alla nuova Società ciclistica del capoluogo ed ecco qualche esponente della Società magistrale sarda, il sindacato cioè dei maestri elementari; e le autorità, poi, cominciando dagli onorevoli Francesco Cocco-Ortu e Antonio Cao-Plnna e arrivando ai deputati provinciali Battista Piras, Luigi Congiu, Salvatorangelo Ledda; ecco il cavalier Arangino, consigliere provinciale, e il signor Loffredo, rappresentante il Municipio di Oristano; da Siliqua era venuto il presidente della Società di tiro a segno, e ancora tanti altri.
“In memoriam” è il titolo del lungo articolo, a firma di Francesco Corona, che L’Unione Sarda pubblicava in prima pagina il 28 aprile 1895, la domenica cioè dello scoprimento del medaglione lapideo frutto di tante spontanee contribuzioni. Eccone alcuni stralci, un po’ troppo celebrativi forse, ma anche capaci di offrire al lettore un’immagine reale, morale e fisica, del grande scomparso (e indirettamente delle riserve anticrispine del quotidiano di obbedienza invece cocchiana):
«In questi tristi giorni in cui il Governo attenta quasi quotidianamente alle pubbliche libertà, più grande, più importante, più splendida si presenta la figura del grande filosofo sardo [...]. Il Tuveri amò il popolo senza mai lusingarne i vizi o i difetti, che anzi spesso aspramente, ma sempre amorevolmente, corresse; non vide di buon occhio i privilegiati dalla fortuna, che dei loro mezzi non sapevano utilmente disporre e contro I quali scagliava uno dei suoi capolavori; combatté a tutta oltranza i retrogradi.
«Lo intesi non poche volte propugnare, con la sua robusta voce baritonale, le sue idee, ch’egli esponeva chiare, precise, nette, spoglie da ogni retorica e soprattutto da ogni finzione, e ciò nonostante così fascinose e ammaliatrici.
«La sua testa, ricoperta di folta e lunga capigliatura, che nel parlare squassava con fierezza, la sua fisionomia franca e aperta, rischiarata da due occhioni neri e intelligenti, il suo gestire parco ma espressivo, e soprattutto il suo dire concettuoso e vibrato, ispiravano riverenza e devozione…».
Ricco di citazioni, lo scritto del Corona illustra la personalità di Giovanni Battista Tuveri sezionandola nei suoi più vari aspetti privati e pubblici (lo studente, il deputato, il giornalista, lo scrittore e il filosofo, l’uomo) ed efficacemente ambientandola nella terra natale.
Ecco poi il testo dell’editoriale titolato “Per un pubblicista repubblicano” uscito nella stessa data su La Nuova Sardegna, giornale allora interno al movimento repubblicano. (La cronaca dell’avvenimento collinese – nell’edizione del 1° maggio, col titolo “In onore di G.B.Tuveri” – appare abbastanza stringata. In più de L’Unione, La Nuova fa cenno alle brevi parole «che strapparono fragorosi e unanimi applausi» pronunciate al cimitero dall’avv. Ranieri Ugo, rappresentante della stampa):
«Domani, nel ridente paesetto di Collinas, verrà inaugurata una lapidea Giovanni Battista Tuveri. È un modesto ma giusto e significante tributo di riconoscenza e di ammirazione all’illustre pubblicista repubblicano che ebbe fama al di là del mare e al di là delle Alpi.
«In un tempo in cui si innalzano grandiosi monumenti a chi in vita sua non ebbe altra mira che quella di spogliare i cittadini, di attentare alle pubbliche libertà, può parere troppo modesto il ricordo decretato al Tuveri dalla gioventù democratica dell’isola. Ma ad un uomo modesto, nemico implacabile delle vanità e delle pompe, ben si conviene un modesto monumento.
«D’altra parte, Tuveri si è innalzato un monumento più duraturo e più educativo coi suoi scritti. Il Tuveri non cercò mai onori e popolarità. Deputato nella prima legislatura di un collegio di Cagliari, accettò a malincuore la riconferma nelle due successive legislature. Nella IV diede le dimissioni, che ripresentò irrevocabilmente nella V.
«Egli dichiarava sempre, con quella sua bonarietà che imponeva il rispetto, che il Parlamento non era fatto per lui. Egli non si sentiva attratto in alcun modo, convinto che lì dentro i diritti del popolo non potessero prevalere sopra gli interessi delle camarille.
«Ed eravamo ancora molto lontani dalla corruzione politica, ed eravamo ancora molto lontani dai metodi di Procida. Ma che cosa egli avrebbe detto, se invece dei tempi in cui Brofferio poteva investire tutti i giorni Cavour, senza che venisse minacciato il domicilio coatto, si fosse trovato alla… seduta del 15 dicembre 1894! [il riferimento era alle manovre di Crispi, presidente del Consiglio, per evitare che la Camera dei deputati, all’indomani anche del caso della Banca Romana, conoscesse i traffici impropri nei quali egli era rimasto coinvolto]. Evidentemente il buon uomo, non a Collinas sarebbe corso, ma al colle più alto del mondo, dove non gli potesse giungere neppure l’eco dell’indecente spettacolo.
«Giovanni Battista Tuveri fu uno dei più dotti pubblicisti del suo tempo. Era profondo nella storia e nella filosofia. I suoi articoli erano quasi sempre una conferenza. Vi era l’esordio e la conclusione. I suoi “Specifici” sono veri e propri saggi di polemica arguta.
«Ma l’opera più nota e che gli procacciò lodi anche all’estero è, senza dubbio, quella che tratta del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi. Quell’opera oggi si può dire di circostanza. Perché mai come oggi in Italia si invoca il diritto di potersi liberare di un governo che in pochi mesi impone altri 90 milioni di tasse ed abolisce libertà, prerogative parlamentari, Statuto.
«Abbiamo conosciuto ed amato il buon Tuveri; siamo certi che se egli potesse rivivere per un’ora sola, con quella franchezza che gli fu abituale, direbbe… che desiderava subito ritornare all’altro mondo! Perché Giovanni Battista Tuveri fu soprattutto uomo onesto, onesto nel più vero senso della parola; onesto nella vita privata come nella vita pubblica, onesto nello scrivere, in tutto.
«Fu un uomo di carattere. Forse non compreso dai suoi tempi. Se il Tuveri fosse stato professore o avesse avuto perlomeno una croce… forse lo avrebbero onorato ancor più ed egli, nauseato e sconfortato, non avrebbe trascorso gli ultimi anni di sua vita, quasi in esilio, lavorando sempre per l’idea che cammina, per l’isola diletta che egli sognava meno infelice».
L’oratore ufficiale della manifestazione – l’avvocato Pietro Paolo Siotto-Elias – era uno degli esponenti più in vista del movimento democratico e repubblicano sardo della seconda metà dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, di convinzioni federaliste e già fondatore e direttore del periodico Caprera, consigliere comunale di Nuoro, inviso e minacciato da famiglie banditesche e costretto a passare la vecchiaia a Cagliari, dove circolava con il vestito barbaricino. La sua straordinaria longevità gli consentì di seguire attivamente le vicende risorgimentali e post-risorgimentali fino alla conclusione della prima guerra mondiale che, sancendo il completamento dell’unità territoriale dell’Italia, realizzava l’antico sogno mazziniano.
Altri riferimenti bibliografici
Ho riportato in larga parte il discorso del Siotto Elias in L’Edera sui bastioni, cit.
In memoriam G.B. Tuveri (Collinas XXVIII aprile MDCCCXCI) è la testata del numero unico pubblicato nella ricorrenza celebrativa con i seguenti contributi: “Nell’occasione dell’inaugurazione del monumento eretto in Collinas, gli ammiratori” di Serafino Soro; “Un carattere” di Celestino Loy; “Ai giovani” di Giovanni Tiana; “O quanti al tempo reo” di Sebastiano Madau; “Sull’ara di Collinas” di Efisio Mameli-Cubeddu; “Le pastoie dell’educazione” di Carlo Brundo; “A G.B. Tuveri” di Giuseppe Bellini; “Cari amici” di Luigi Falchi.
Sebastiano Satta aveva inviato da Nuoro i suoi versi con a capo una doppia epigrafe. Isaia, prima di tutto: «Et qui non habet vendat tunicam suam / et emat gladium». E lo stesso Tuveri, quindi, era menzionato con un estratto dai suoi Sofismi Politici: «… si ribella (l’uomo) ad una società la quale non gli appare che come spietata matrigna».
Segnalerei, perché normalmente escluse dalle bibliografie sull’argomento, alcune edizioni di Spigolature d’arte, ed il n. 16 del 21 ottobre 1924 del periodico fascista cagliaritano Battaglia, del quale era magna pars il prof. Sebastiano Deledda, neo-convertito all’ideologia dei Fasci ma pur sempre intellettuale acuto e “sardista” sensibilissimo. Dall’autobiografia del Tuveri la rivista riprendeva l’elencazione delle molte opere uscite a partire dal 1848, dal Saggio delle opinioni politiche di Giovanni Siotto Pintor allo Specifico contro il codinismo, dal Trattato sociologico filosofico sul diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi alla Questione barracellare, dalla Vita dei Cesari ai cennati Sofismi Politici, da La conservazione degli Stati a Della libertà delle caste, per non dire delle collaborazioni a giornali come Il Corriere di Sardegna (che per qualche tempo pure diresse), Il Movimento Sardo, i napoletani Il Popolo d’Italia e Il Pungolo, il romano La Roma del Popolo, il genovese Il Dovere.
Di Spigolature d’arte – la rivista quindicinale diretta dal ventunenne Enrico Nonnoi (prossimo leader della sezione repubblicana di Cagliari) – possono ricordarsi i seguenti tre interventi: nel n. 1 (anno 1°), 23 dicembre 1894, l’articolo di Carlo Brundo “G.B. Tuveri” (una riflessione sulla biografia tuveriana); nel n. 2, 17 marzo 1895: sotto il titolo “Gemme nascoste” è riportata una lettera inedita del filosofo collinese consegnata alla rivista da Alfonso Dessì; nel n. 9, 2 maggio 1895, l’articolo di Paolo Hardy (alias Ranier! Ugo) “G.B. Tuveri” e il testo dell’epigrafe dettata da Serafino Soro per il monumento collinese.
Sull’intervento del Consiglio comunale di Cagliari a favore della vedova del Tuveri cf. Il Corriere dell’Isola, 17 settembre 1908. La proposta – partecipata dal sindaco Giovanni Marcello all’Assemblea civica – veniva dal consigliere radicale (espressione del “blocco” dell’Estrema cagliaritana) avv. Umberto Cao, a nome del circolo repubblicano “Cattaneo” di Milano. Spesa globale L. 40.
Sull’ordine del giorno proposto al Consiglio provinciale da Ottone Bacaredda, Umberto Cao ed Enrico Nonnoi cf. L’Unione Sarda, 25 ottobre 1916.
Aggiungerei un riferimento di cronaca collinese nel crispino Il Popolo Sardo, 29 aprile 1895, e della piazza di Sassari, invece, in La Nuova Sardegna, 10 maggio 1895.
Più in generale merita un richiamo la messe di trafiletti di cronaca sull’attività del circolo “Tuveri”, sulla colletta popolare e sulla cerimonia di inaugurazione del monumento, in L’Unione Sarda, in particolare, potrebbero in rapida e non esaustiva rassegna quelli del: 22 aprile 1893; 20, 23, 25 e 30 gennaio, 10, 17 e 19 febbraio, 17, 20 e 30 marzo, 7 e 9 aprile, 11, 14 e 23 maggio, 19 luglio (in prima pagina anche un profilo biografico del pensatore), 5, 11, 14, 15, 17, 21 e 24 settembre, 18, 19 e 25 ottobre 1894; 1°, 7 e 15 febbraio, 3 e 30 marzo, 8, 9, 12, 16, 18, 19, 27, 29 e 30 aprile, 2, 8 e 30 maggio, 10, 2, 4 e 8 giugno 1895.
Concludendo circa la “strana” richiesta
Non ho rilanciato qui grandi cose. Ma mi pareva importante motivare il perché il ricordo monumentale di Bonaria sia da considerarsi tutto cagliaritano e immotivata, sullo specifico, la richiesta del Municipio di Collinas a quello di Cagliari. Mi pareva altresì utile aggiungere alcune considerazioni: intanto, che lo stato pietoso in cui si trova il nostro meraviglioso museo a cielo aperto, nella collina di Monreale – certamente ereditato dalla presente Amministrazione Zedda ma al momento ancora marginalizzato nell’agenda della giunta e del Consiglio (non soltanto, e neppure soprattutto, per gli sforzi finanziari a cui potrebbe pensarsi come obbligo finale di un interessamento proficuo) – ben potrebbe essere parzialmente corretto dallo sviluppo di un volontariato civile, anche categoriale (anche scolastico, anche giovanile), da impegnare nelle cure correnti, certamente a direzione comunale, se mai dal Comune venissero davvero intelligenze e professionalità e passione civica utili alla bisogna.
Quindi, riferito al Tuveri: che Cagliari grande e Collinas piccola sono città comunque sorelle e debbono collaborare, grate entrambe alla storia che le ha fatte trascorso teatro di vita di un testimone e protagonista della democrazia risorgimentale come il filosofo che fu mazziniano e federalista, studiato dal Solari e dal Bobbio, oltre che da tanti dei nostri migliori autori. Si trovino i modi, e nel nome di Giovanni Battista Tuveri, senza vana retorica, si promuova un programma di operativa fraternità intercomunale, sociale e culturale, cominciando dagli scambi scolastici. Se si vuole, si può.
Di trasferimento dello stellone manco a parlarne: oltretutto i vincoli di soprintendenza, sacrosanti in questo caso, lo dovrebbero impedire in assoluto. E peraltro oggi con le tecnologie 3D dominate da Sardegna Ricerche o da CRS4, ben potrebbe riprodursi il monumento ed acquisirlo da parte del Comune di Collinas. Sarebbe anche l’occasione buona perché, insieme con il sindaco Zedda capoimpresa, possiamo anche noi accostarci alla prima necessaria ma gratificante fatica di ripulitura, centotrent’anni dopo, di quel simbolo italiano che ebbe onore da Tuveri, ed onore esso dette alla memoria di Tuveri.