Una festa la memoria civica di Antonio Romagnino, fra la mostra documentaria e una serata di testimonianze biografiche, di Gianfranco Murtas
Lo scorso sabato 25 novembre – data centenaria della nascita cagliaritana, e castellana, di Antonio Romangino (nel calendario erano i giorni a ridosso di Caporetto e della rivoluzione russa) – si è tenuta, ad iniziativa del liceo Dettori e degli Amici del libro, una manifestazione di memoria e d’affetto celebrativa di una personalità unica e irripetibile, di altissimo spessore pedagogico e civico, la cui strada si è incrociata con quella di molti, la mia inclusa, lungo svariati decenni.
Avevo lanciato l’idea con un articolo di un anno fa proprio nel sito di Fondazione Sardinia (“Antonio Romagnino, s’avvia oggi l’anno del centenario”, 11 novembre 2016), che replicava un accenno alla cosa che m’ero permesso di fare – ora sono anni – in occasione di un incontro con la signora Annamaria Pes, vedova del professore, e con Carla e Lodovica Romagnino, le figlie tanto amate.
Era un’idea, un’intenzione, e un accenno di programma. Tutto poi si è sviluppato, incontrando la felice collaborazione di Franco Masala, dinamico organizzatore culturale ed esponente di Italia Nostra – la benemerita associazione che il professore promosse nel 1971 a Cagliari e di cui fu a lungo presidente regionale e consigliere nazionale, responsabile nazionale del settore “ambiente-scuola” – e dell’attuale preside del Dettori (nonché reggente dell’Eleonora d’Arborea) Roberto Pianta.
Pianta, allievo “di classe” di Romagnino, ha coltivato nella sua formazione – bravissimo – molti dei fermenti ideali e politici, oltre a quelli letterari ben s’intende!, ricevuti dal professore: così da dirigente, nei nostri verdi anni ‘70, della Federazione Giovanile Repubblicana sarda, un’organizzazione che, sull’esempio di personalità come Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini – sempre univa l’impegno strettamente politico a quello culturale. Per il che Romagnino critico letterario ed interprete dei tempi e Romagnino defensor Karalis ben prima di averne ricevuto il formale titolo costituì per lui sempre un riferimento certo, e ancor più tale si dimostrò, ma per tutti, nella decennale presidenza degli Amici del libro (dal 1983), cui Pianta, allora giovanissimo professore in carriera in una lunga sequenza di sedi, ancora mostrò fedeltà piena e continuativa.
Gli Amici del libro nell’attuale compagine direttiva, sotto la presidenza di Maria Grazia Vescuso Rosella – subentrata a Giuseppina Cossu Pinna, che per vent’anni ha portato avanti l’associazione con valore e nonostante le difficoltà crescenti per l’intervenuta precarietà della sede – si sono anch’essi, gli “amici”, coinvolti nell’allestimento di una manifestazione che ha raccolto innumerevoli consensi: circa duecento sono stati i partecipanti alla serata convegnistica nell’aula magna del liceo Eleonora, non di meno quelli che, dalla tarda mattina di sabato 25 ai giorni successivi, si sono soffermati (e ancora, in visite solitarie o sociali, si soffermano, ché la mostra è rimasta aperta e visitabile nei corridoi del piano terra del Dettori, a un passo dal Dante… ritrovato, salvato e ricelebrato) ad osservare e commentare quanta documentazione sia stata possibile rendere pubblica. Così, fra il moltissimo altro, le testimonianze della sua formazione scolastica nei lunghi anni della dittatura, gli stati di servizio del docente prima e dopo la guerra (da Iglesias all’Eleonora, al Dettori), i rimandi alla prigionia americana, le prove del pubblicista e dello scrittore – dello scrittore che fu anche poeta in lingua sarda campidanese, lo si ricordi! – le istantanee tratte dall’album privato…
All’incontro nel salone dell’Eleonora hanno parlato, con il sottoscritto, Franco Masala e Giancarlo Ghirra, l’uno sviluppando il tema dell’impegno ambientalista di Romagnino, l’altro rivelando e commentando alcune pagine testamentarie del professore, tanto più riferite a quanto della sua fatica civica egli avesse riversato nella “scommessa” politica del 1979, in una candidatura da indipendente nelle liste regionali del PCI, il cui boicottaggio ancora disonora chi se ne fece attore.
Belle (e dotte) le testimonianze finali venute dalla platea: ricordo almeno quelle di Matteo Porru, di Carlo Lavena e di Maria Antonietta Mongiu, nonché quella – proveniente da Sassari ed apparsa nel tablet del preside Pianta – di Aldo Borghesi, altro dettorino che amò il professore ammirandone lo stile tollerante e dialogico anche nei tempi calamitosi di certe assemblee studentesche.
Due filmati a firma di Angelo Porru (ed ottimi tecnici suoi complici) hanno introdotto e concluso il convegno: il primo mixando alle immagini della Cagliari che fu le testimonianze di numerosi ex allievi (oggi professionisti affermati e taluno… perfino già in meritata quiescenza), il secondo riproponendo la nobilissima lettera testamentaria di sapore insieme umanistico e civile che il professore lasciò alle sue figlie Carla e Ludovica: prova provata di una straordinaria combinazione di affetti privati e doveri pubblici serviti sempre come impegno d’onore.
Ha portato il saluto dell’Amministrazione municipale l’assessore Frau, anticipando l’intenzione del Comune di intitolare, appena possibile, ad Antonio Romagnino la passeggiata centrale della via Roma. Ottima idea. Se la passeggiata alberata sostituirà integralmente il parcheggio – e non necessariamente per questo negando il traffico sui due lati, portici e mare – potrebbe anche trovar collocazione, nel sito, un piccolo anfiteatro o teatro all’aperto, in cui poter trattare, nella bella stagione, della città nostra, o da lì, come luogo di convegno, partire alla volta di mete prescelte. Passeggiando per Cagliari riconquistata, come passeggiando conobbe Cagliari e il mondo Antonio Romagnino, giusto come fece Francesco Alziator.
Presento qui appresso il testo della mia relazione. Essa si aggiunge riunendosi idealmente a quanto già da me pubblicato in questi ultimi anni e anche nelle scorse settimane. Con un fine antologico ne richiamo almeno titoli e date:
su L‘Unione Sarda, “Romagnino, anima laica in cerca di risposte. Il professore e il piacere della “domanda” (occhiello: “Un filo rosso lo lega all’amico Francesco Alziator”), 28 novembre 2011;
nel sito di Edere Repubblicane, “Antonio Romagnino, il Dettori, Alziator e Dessì…”, 14 settembre 2012; “Romagnino: “Fedele sempre alla Repubblica”, 5 ottobre 2012; “Sulla facoltà di Filosofia e Lettere di Cagliari negli anni di Antonio Romagnino”, 5 novembre 2012; “Mazzini e i repubblicani: la questione della cessione della Sardegna alla Francia nella tesi di laurea di Antonio Romagnino sul giornalismo politico isolano di metà Ottocento”, 15 gennaio 2013;
nel sito di Fondazione Sardinia, “Antonio Romagnino, l’intellettuale e lo scrittore. Le fatiche letterarie di un Maestro” (prima parte), 18 novembre 2013; “Antonio Romagnino, l’intellettuale e lo scrittore. Le fatiche letterarie di un Maestro”, (seconda parte) 26 novembre 2013; “Antonio Romagnino, un repubblicano nella liberaldemocrazia. Storia di un’amicizia oltre le generazioni, fra «aerei ponti», a Cagliari”, 23 dicembre 2013; “Cossu e Romagnino, due protagonisti della cultura letteraria e civile della Sardegna contemporanea. Memorie, riviste, libri”, 1° giugno 2015; “Antonio Romagnino, s’avvia oggi l’anno del centenario”, 11 novembre 2016; “Antonio Romagnino, appunti biografici su di un liberal celebrato nel centenario della sua nascita”, 20 novembre 2017; “Antonio Romagnino, l’impronta di un ventenne in una rivista del GUF cagliaritano”, 22 novembre 2017; “Antonio Romagnino, dall’emeroteca la grande storia e la cronaca dell’ordinario quotidiano. La quarantennale collaborazione a L’Unione Sarda, le riflessioni e le polemiche”, 24 novembre 2017.
Certo vorrei poter sbobinare il molto che, del professore, ho raccolto nel tempo, magari alle presentazioni di qualche mio libro, a cominciare da L’Edera sui bastioni – del tutto inedito è il suo intervento celebrativo della memoria di Giovanni Battista Melis, riferito agli appunti biografici di quest’ultimo, scritti in vecchiaia e nei duri giorni della malattia (Storia del cavaliere senza macchia e senza paura) – o nelle interviste, in aggiunta a quelle uscite in saggi monografici (come 1946, l’anno della Repubblica oppure La città chantant, monarchica, clericale e socialista), rilanciando anche il suo delizioso e dotto “duetto” con Dolores Ghiani sulla figura di Francesco Alziator (registrato nel 1981).
Mi piacerebbe un giorno poter ripresentare anche un documento filmato che promossi nel 1991, associando negli studi televisivi di Sardegna Uno il professore e il suo collega, a me altrettanto caro – pur nella distanza ideologica – Francesco Masala. Fu un dibattito fra loro tutto improvvisato e spumeggiante, l’uno a difendere la sardità urbana, l’altro quella rurale o agro-pastorale, l’uno i ponti “con Civitavecchia”, cioè con il vasto mondo, l’altro pensoso di un destino finora ingeneroso riservato dalla storia alla Sardegna; nel mezzo la lingua sarda da salvare e rilanciare, con l’uno – Masala – fermo nel sostegno alla causa bilinguista, l’altro – Romagnino, pur bilingue di impronta – a richiamare i grandi della letteratura italiana come depositanti fruttiferi nella formazione delle nostre generazioni più o meno scolarizzate ed istruite.
Chiudo anzi questa breve nota con i versi di una delle numerose composizioni poetiche in lingua sarda campidanese rivelatrici di un’arte cui Antonio Romagnino non disdegnò di applicarsi, marcando anche lì la leggerezza perfino ironica (e autoironica) del suo animo pur impegnato e riflessivo, direi complesso. Titolo “Su pensionamentu”.
Dunca m’has nau
chi ti ses po pensionai,
Allichineddu.
Abarra attentu a no da pigai –
po du nai in italianu –
cumenti unu «riposo eterno».
Sesi a una svorta
e dipendi de tui,
de ndi fai una stagioni noa
de sa vida tua.
Sciobera tui,
non ti fazzas cunsillai,
fai e pensa
cussu chi non
has pensau o fattu mai,
finzas a moi.
Aicci scetti
poris evitai chi
ti portinti allestu
in su ricoveru.
Ma una cosa ti bollu nai:
abarrarindi attesu ’e is pensionaus.
Issus sì chi ti porinti buciri,
prangendi d’ognia dì “sulle pensioni”.
Appartengono alla stessa categoria dello spirito leggero che ben accompagnava il nostro professore (il quale ai versi di “Su pensionamentu” unì quelli di “S’imbriagoni” donandoli all’antologia Poesie nel cassetto, a cura di Duilio Caocci, Gianluca Corsi e Simona Vacca, uscita nel 2006 nella collana “la biblioteca dell’identità” de L’Unione Sarda) l’arte e l’occasione che lo videro fra i protagonisti ritratti dalla penna – anzi dal carboncino ed inchiostro – del brillantissimo nostro caricaturista Giancarlo Buffa, ed a noi proposti in Come la luna, uscito nel 1996 per i tipi della cagliaritana editrice Castello (con il saggio introduttivo di Maria Grazia Scano e la postfazione di Bachisio Zizi).
Ne scrisse allora, della propria caricatura – un tempo queste vignette umoristiche si chiamavano “pupazzetti” e la Cagliari della belle époque ha avuto fortunatamente almeno venti testate fertilissime sul campo –, il professore. E la sua nota impaginata dallo stesso Buffa nel bellissimo volume è, nella relativa sua stringatezza, un vero e proprio saggio. Eccone qui i passaggi tutti forti:
«Ma sono proprio così? Commenta chi viene raffigurato in quella che si chiama “caricatura”. Eppure è stato lusingato dalla proposta dell’artista a farsi ritrarre. Non lo ha neppur sfiorato il pensiero che caricatura vuol dire accentuare le caratteristiche del soggetto, svelarne quelle che più si prestano ad essere enfatizzate. Magari con effetti comici o satirici. Anche solo un poco di etimologia lo avrebbe dovuto aiutare a prevedere che la sua faccia sarebbe stata “caricata”, che tutto o molto sarebbe stato messo in risalto, che la matita lo avrebbe marcato.
«Ma pochi sono quelli addestrati ad accettare gli effetti comici o anche solo ironici del ritratto realizzato da un caricaturista. L’esame cui esso sottopone è quasi insuperabile. Raramente la sola difesa “ma non mi rassomiglia” prende il posto della repulsa o del fastidio. Per questo ha avuto sempre più fortuna il dipinto, il quadro, che ha in partenza, quasi scontato, un fine elogiativo, riesce celebrativo anche quando raffigura un mostro.
«Il godimento della caricatura, l’accoglimento dell’estro deformante che l’ha realizzata, esige invece la stessa rara disponibilità che richiede l’humor per essere penetrato e giustificato. “L’umore è la speciale disposizione” ha scritto Alfredo Panzini “che un’alta intelligenza ha nell’addentrarsi insino al fondo delle cose: ciò che nella superficie è comico, può essere tragico e viceversa. Ne deriva una forma di arte che irrita il buon pubblico, il quale rifugge dalla verità”.
«Ecco perché quella della caricatura è un’arte difficile, e l’apprezza soltanto chi sa leggere in se stesso e vi immerge senza paura il bisturi, che anticipa il pennino selettivo, insieme realistico e simbolista, dell’artista. Altrimenti, rivolgersi al fotografo per un’immagine, possibilmente con ritocco».
Ecco, nelle sue complessità, il nostro professore, l’intellettuale e il democratico, il defensor Karalis e l’uomo che ci insegnava a conoscere il vasto mondo per meglio comprendere ed amare la nostra terra.
Antonio Romagnino, il dopoguerra di un “liberal” cagliaritano
Onoriamo una memoria che è ancora viva nella nostra città ed in Sardegna, e ci viene spontaneo scorgerla ed indicarla come una presenza morale, intellettuale e civica che a molti di noi è stata necessaria per dare senso, orientamento e contenuto, ora nella scuola, ora nell’associazionismo, ora nel dibattito pubblico, alla nostra appartenenza. Nei livelli più alti, quelli dei Lilliu o degli Alziator, ma con qualcosa di tutto suo, di originale, forse per i tempi che ha attraversato – tutti di rapide trasformazioni –, forse per il bisogno cui lui, solo lui, o soprattutto lui, Antonio Romagnino, ha saputo dare risposta: con l’Associazione dei professori europeisti, con Italia Nostra, con gli Amici del libro, con L’Unione Sarda, con le frammentarie ma musive cessioni del suo tempo e delle sue energie alle relazioni personali e collettive, docente all’Università della Terza come nella comunità di Mondo X Sardegna del padre Morittu e nelle televisioni.
Storicizzare Antonio Romagnino significherebbe però storicizzare anche noi stessi che abbiamo incrociato la nostra con la sua strada, e sarebbe un lusso, o un azzardo, impossibile. Verranno i tempi. Il massimo che possiamo fare oggi, ove vogliamo sfuggire alle prigioni dell’aneddotica – benché l’aneddotica possa essa stessa, se trattata con arte, rivelare molto del protagonista –, è quello di raccontare il professore nella complessità ed articolazione dei suoi impegni pubblici cogliendo in essi, con qualche doveroso distacco, il dato morale e motivazionale, il loro perché ultimo, situandolo in quel che ci pare, anche per l’esperienza nostra personale, esser stata la domanda sociale. In altre parole: la nostra non può essere che testimonianza, ma l’impegno o lo sforzo nostro deve essere quello di situare, per quanto possibile, la fatica del professore sulla scena di una città bisognosa di interpreti del suo presente, come già del suo passato, e di figure maestre, capaci di prefigurare il futuro, rappresentandolo nello sviluppo parallelo dell’identità, della stretta originalità e irripetibilità, e dei “ponti”, delle relazioni.
Da umanista di gran razza, Antonio Romagnino è stato studioso e anche avvocato della cultura urbana e insieme sostenitore della relazione città-campagna, della relazione Cagliari-Sardegna; ma con Italia Nostra ha portato il soffio della sensibilità ambientalista nazionale dei Cederna o dei Bassani degli anni ’60 e ’70 nel nostro mondo isolano e cagliaritano; con gli Amici del libro, come già a scuola e in parallelo alla rubricistica letteraria de L’Unione Sarda, ha spaziato fra gli autori del vasto mondo, classici e moderni, universalizzando e insieme cogliendo le novità e le originalità nostre, dalla Deledda a Dessì, ai contemporanei; tanto più in classe come poi anche nella pubblicistica ha gustato lui e proposto al gusto morale dei ragazzi e degli adulti, lui laico, il magistero umano, spirituale oltreché intellettuale, dei padri Turoldo, dei padri Balducci, dei don Milani, come anche, lui liberaldemocratico, la provocazione culturale di un comunista dagli influssi profetici come Pier Paolo Pasolini.
Ho frequentato il professore per quarant’anni, l’ho intervistato un’infinità di volte per il pubblico e per il privato, l’ho anche portato, nel luglio 1973, al congresso del mio partito – quello repubblicano segnato dall’edera della Giovine Europa mazziniana –, e sempre ho colto in lui l’uomo che spaziava e coglieva i nessi fra le esperienze soltanto all’apparenza lontane e perfino di segno opposto od inconciliabile.
Forte di questa impostazione laica e dialogica, Antonio Romagnino ha vissuto però anche, in un’età che non era più di prima giovinezza ma era ancora comunque di giovinezza, esperienze chiamale divisive o partigiane. Fu la passione per la politica a suggerirgli una partecipazione attiva alla vita pubblica, di lato a quella strettamente professionale, invero pubblica di sua natura essa stessa: intendo la docenza liceale.
Mi sono posto la domanda da dove nascesse l’amore di Romagnino per la politica e le risposte che mi sono dato si collocano in un’area che direi delle probabilità, non delle certezze. Corrispondono cioè a quel che io ho capito del profondo della sua personalità.
Non entro nelle sue propensioni personali, benché possa dirsi che una qualche prima risposta possa rinvenirsi nel suo attivismo nel GUF cagliaritano degli anni ’30, e particolarmente nella redazione di Sud-Est (la rivista uscita a Cagliari dal 1934 al 1942), in cui firmò soprattutto articoli di critica letteraria e cinematografica. Una più convinta risposta potrebbe ottenersi, io credo, dal tema della sua tesi di laurea, discussa nell’anno accademico 1938-39: “Lineamenti storici del giornalismo politico sardo dal 1848 al 1870”. Scrivere di un largo e così impegnativo dibattito quale fu quello che precedette o accompagnò la formazione dello stato unitario risorgimentale credo non avrebbe consentito all’analista ed estensore – tale era il tesista –, una estraneazione, una neutralità o una terzietà piena. E gli spazi differenti concessi a questa o quella posizione, la stessa impostazione referente e perfino la scelta delle aggettivazioni sono tutte spie di adesioni o distanziamenti ideali. Ed entrava già lì la necessità da lui avvertita non della omologazione ma della relazione, non dell’assorbimento anonimo della Sardegna nell’Italia, ma del valore aggiunto che la Sardegna, con le sue elaborazioni, avrebbe potuto conferire all’Italia nuova del risorgimento identificata in una causa della storia, degna della storia.
Lo stesso volontarismo bellico potrebbe essere visto come espressione di una voglia partecipativa, traduzione a sua volta di un intimo impulso chiamalo pure politico o patriottico.
Ma ancora: l’assenso espresso alle autorità militari americane circa lo svolgimento delle funzioni collaborazioniste nei campi di prigionia fra la fine del 1943 e l’estate del 1945 – assenso corroborato dallo studio del celebre saggio di Tocqueville La democrazia in America – anche esso pare un’indicazione direi sicura di una maturazione politica, finalmente di segno democratico, destinata a trovare, al ritorno in patria, canali di espressione.
Qui è, a mio avviso, il Romagnino che abbiamo conosciuto, certamente nella varietà dei toni, ma sempre fedele ai valori appresi e meditati e sedimentati: la democrazia rappresentativa integrata dalla democrazia associativa, come in America; la democrazia repubblicana in luogo di quella dinastica, parziale o viziata, della tradizione italiana; la democrazia innervata dai grandi ideali universali ed affrancata da ogni istanza d’utile contingente.
Liberal più che liberale
L’Antonio Romagnino liberale, o liberal – come preferiva essere identificato – imposta e struttura la sua identità politica, già dal ritorno in Italia e finalmente in Sardegna ed a Cagliari nell’ottobre 1945, seguendo quelle linee generali e maestre. Con una tale identità ricoprirà per alcuni anni – dal 1953 a tutto il 1957 – la carica di segretario provinciale del Partito Liberale Italiano, e con tale identità sarà presente nelle liste liberali, o degli aggregati liberali per ben sei volte: nel novero entrano, dopo l’esordio nientemeno che per la Costituente del 1946, le politiche per il rinnovo parlamentare (1953) e per quello del Consiglio regionale (tre volte: 1949, 1953 e 1957), ed entrano le amministrative per la città capoluogo (sono le comunali del 1956); con questa stessa identità liberaldemocratica o liberal, parteciperà, da indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, alle regionali del 1979. Tanto impegno, sempre, nessun risultato; tante partecipazioni, nessuna elezione; sfiorata quella alle Comunali del 1956. Delusioni un’infinità.
Non si è mai dettagliata la sua esperienza politica, sia partitica sia elettorale. Egli stesso pareva aver rimosso quei passaggi, invero non marginali o episodici, della sua vita: certamente essi, tutti quanti, furono motivo non soltanto di delusione ma anche di frustrazione: nel suo partito per talune operazioni che, sgradite, lo emarginarono, oltreché alle urne per l’insuccesso nella conta. Ne riferirò più oltre. Ma anticiperei questo: non mancò, almeno in talune circostanze – nella metà di quelle gare elettorali, alle comunali del 1956 o alle regionali – la speranza e perfino la convinzione di poter tradurre in voti l’accredito di cui sapeva di godere, come docente e militante della libertà di pensiero e civile; fu invece l’esperienza amara della concorrenza più o meno, e soprattutto meno, leale, che ritenne di subire nel cimento a renderlo consapevole davvero che nella nostra società le intelligenze critiche, indipendenti per statuto anche nello svolgimento di una militanza liberamente intrapresa con spirito civico e patriottico, non hanno spazio, talvolta non hanno neppure l’aria per respirare. Ugo La Malfa, galeotto già 25enne per antifascismo e resistente e padre della patria repubblicana, viveva del suo 2 per cento dei consensi elettorali; Ciccio Cocco Ortu fu per il più in minoranza nel suo partito in cui pur godeva della massima considerazione; i radicali della scissione del 1955 e animatori dei convegni del Mondo di Pannunzio si contavano in poche centinaia in tutt’Italia ed erano tutti nobilissimi e fierissimi; gli autonomisti del Partito Sardo prima dei tralignamenti nazionalitari vivevano d’un 3-4 per cento isolano, eppure venivano da una gran storia che saldava regione e nazione.
La riflessione andrebbe portata sulla funzione delle minoranze nella storia dell’Italia sempre e della Repubblica italiana nei suoi primi trenta-quarant’anni almeno, e delle personalità di assoluta indipendenza morale e intellettuale all’interno delle stesse minoranze sempre agitate, per converso, da qualche animella che puntando ai riscatti quantitativi smarrisce il gusto della intransigenza motivata nello stile prima ancora che sulle cose.
Per intanto, e prima di presentare una completa rassegna delle candidature così come degli atti politici posti in essere dalla segreteria Romagnino, credo sarebbe importante puntare l’obiettivo sui primissimi passi propriamente politici del professore, allora 28enne, fra il ritorno a Cagliari e la prima importante esperienza pubblica. Si vedrà subito tutta la rilevanza dirimente delle sue scelte iniziali: perché la compagnia che con lui affrontò tutte le difficoltà del reducismo e con lui stazionò per otto-nove mesi nel presidio liberale a ridosso del voto referendario e di quello per la Costituente fu la stessa che, alla fine del 1946, dette vita al Movimento Sociale Italiano, formazione di destra il cui statuto nazionale avrebbe indicato tanto nei nostalgici del regime di dittatura e della dinastia Savoia quanto nei collaborazionisti della Repubblica di Salò la propria base sociale ed elettorale. Insomma, dei cento reduci che con Antonio Romagnino fecero iniziale movimento rivendicativo e, il 2 giugno 1946, alleanza con i liberali, almeno novantotto optarono infine per un inquadramento di destra e, obiettivamente, antiliberale.
Segretario del Movimento dei Reduci sardi
La sequenza è questa: nelle settimane che seguono il rientro in città, il giovane Romagnino si fa, con altri, promotore di una formazione d’opinione ed agitatoria che prenderà il nome di Movimento Indipendente Reduci Sardi. Contemporaneamente si accosta, ancora con alcuni dei suoi sodali, alla testata giornalistica Presente, che è in procinto di uscire, con periodicità settimanale, prima – dal gennaio 1946 – a Sassari da Gallizzi, poi – dal n. 5, nella primavera dello stesso 1946 – a Cagliari, col fine di rappresentare proprio le istanze del Movimento.
Nel novembre 1945 il MIRS diffonde un proprio documento che presenta le istanze ideali dei reduci, insieme con quelle più strettamente afferenti il loro reinserimento sociale e professionale; firmano, con Antonio Romagnino, Armando Congiu ed Italo Mereu – i tre costituiscono il “comitato provvisorio” del movimento, ed il testo esce in Rivoluzione Liberale, periodico liberale fondato da Francesco Cocco Ortu e da lui diretto insieme con Giuseppe Susini, notissimo critico letterario, che lo pubblica nel suo numero dell’11-18 novembre. Eccone il testo:
«Caro Direttore,
«poiché difficoltà di ordine tecnico ci hanno finora impedito di dire una parola chiarificatrice, attraverso il nostro giornale “Presente”, sul Movimento Indipendente dei Reduci, sicuri dell’ospitalità larga che sempre ha offerto “Rivoluzione Liberale” ci rivolgiamo a Lei perché ci dia la possibilità di esprimere i principali punti programmatici che perseguono i Reduci, associati in questa nuova forma.
«E’ ormai evidente che ogni associazione di ordine legale lascia nell’indifferenza il pubblico tenacemente distratto e gli organi governativi separatamente volti a perseguire differenti scopi politici sulla base degli interessi particolari di partito. E’ così che è sorta la necessità dell’unione di tutti coloro che hanno sacrificato alla Patria, non in contrasto con le associazioni legali esistenti, ma bensì fuori di esse, per consentire una agilità di azione che la burocrazia ufficiale è impedita di avere.
«A fondamento della bontà della causa che noi difendiamo, sta il fatto che analoghi movimenti vanno creandosi e collegandosi in tutta Italia. Noi non siamo contro nessuno, e tale assunto poniamo alla base della nostra agitazione, a cui possono aderire tutti coloro che hanno compiuto il loro dovere, in armi, qualunque sia il loro attuale colore politico; il programma pratico, che verrà enunciato dettagliatamente fra pochi giorni, mostrerà la nostra presa di posizione in vista del prossimo congresso dell’Associazione Nazionale Combattenti. Comunque non è prematuro stabilire che noi perseguiremo due paralleli indirizzi: uno propriamente ideologico, in vista di una onesta rivalutazione di tutte le guerre, ed uno pratico con l’affermazione della necessità di una sistemazione di assoluta precedenza per tutti i Reduci».
Alcune settimane dopo, invece, lo stesso Movimento – e comunque senz’altro Romagnino – parrebbe aver preso atto con sfavore di una virata (sia pure soltanto annunciata) del periodico Presente a pro della causa qualunquista. E’ per tale ragione che, appunto Romagnino insieme con Armando Congiu (che diverrà, anni dopo, esponente del PCI) ma non più con Italo Mereu (giovanissimo giurista che abbraccerà poi anche lui il torchietto dell’Uomo Qualunque), pubblica un comunicato di distanziamento dalla testata prossima ventura. Ecco il brevissimo testo, datato 27 dicembre 1945 a firma di “il comitato organizzatore” del MIRS, consegnato al redattore capo Susini, il quale lo pubblica nel numero del 7 gennaio 1946 di Rivoluzione Liberale:
«Da questo momento il giornale Presente cessa di essere in alcun modo emanazione del Movimento dei Reduci, e pertanto né il dott. Armando Congiu né il dott. Antonio Romagnino fanno parte della redazione e della direzione, e non hanno mai fatto parte dell’amministrazione di tale giornale».
Inizia pressoché allora, direi, la prossimità, che diverrà successivamente collaborazione, di Antonio Romagnino a Rivoluzione Liberale, unitamente ad una militanza nello stile dell’uomo: sulla linea delle idealità e molto attento alle relazioni interpersonali che una vita di partito da se stessa impone: con disponibilità quindi alla partecipazione a tutte quelle incombenze che le regole interne dettavano, così nelle assemblee e nei direttivi come nei cimenti elettorali, col nome sulla lista e con la semina di incontri di propaganda in città e fuori.
Il primo atto di questa prossimità è costituito dalla partecipazione, in quanto rappresentante del Movimento Indipendente Reduci Sardi ed unitamente al generale Giuseppe Musinu (ufficiale della storica Brigata Sassari ed eroe della grande guerra) alla lista dell’Unione Democratica Nazionale che si presenta alle elezioni del 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente: una lista comprensiva dei liberali del PLI, dei demolaburisti del Partito Democratico del lavoro – anch’esso appartenente all’esarchia ciellenista – e, appunto, del MIRS. In campo nazionale, non in Sardegna, sono altresì aggregati all’Unione anche i movimenti di Francesco Saverio Nitti (cioè l’Unione Nazionale per la Ricostruzione) e di Arturo Labriola (detto Alleanza Democratica della Libertà). Il risultato sarà, nell’Isola, piuttosto buono pur se si mancherà l’elezione del deputato.
E’ anche da dire che nell’aprile 1946 si tenne a Cagliari il congresso del Movimento, essendo assegnato a Antonio Romagnino, in quando segretario, il compito della relazione introduttiva. Fu questo, forse, l’ultimo episodio politicamente significativo del MIRS, come organizzazione autonoma. Ecco qui un passaggio centrale, forse decisivo, della vicenda politica di Antonio Romagnino che orienterà tutta la sua lunga vita e la sua testimonianza pubblica, radicandola in posizioni sempre assolutamente democratiche – perché mentre egli compirà l’esperienza elettorale unionista per la Costituente stabilizzandosi quindi nell’area liberale, gran parte dei suoi sodali, o sodali fino ad allora, come ho detto prima, alla fine dello stesso 1946, daranno fondamento al primo nucleo cagliaritano del Movimento Sociale Italiano, formazione di destra estrema, estranea al patto costituzionale e di derivazione ideale dal fascismo.
La relazione svolta da Romagnino al congresso locale, si direbbe provinciale, dei reduci è riprodotta nel numero unico, e speciale, di Il Reduce: un giornale (purtroppo perduto alle biblioteche pubbliche sarde) che, mentre offre qualche notizia sulla organizzazione del movimento, raccoglie anche diversi contributi di riflessione politica da parte dei suoi maggiori esponenti.
Questo è il testo dell’articolo/relazione di Romagnino segretario del MIRS (nonché direttore responsabile del giornale), titolato “Problema morale”, in cui si rivendica la nobiltà ideale della partecipazione in armi, sia pure stata ad una guerra perduta, da giovani uomini ora quasi vilipesi, come già dopo il conflitto del 1915-18:
«In nessun paese forse come in Italia, quello dei reduci è un problema ricorrente periodicamente. Non che altrove manchino le cause che possono dargli origine, ma il fenomeno non assume quel carattere politico, e vivacemente [?], che suole prendere da noi.
«In paesi come l’Inghilterra e l’America gli uomini vanno incontro a quella paurosa necessità che è la guerra, e salvo le reazioni individuali, ritornano quello che erano, senza creare una classe fittizia, che si arma di una comune dolorosa esperienza; in Russia potrà capitare, come recentemente è avvenuto, che solo di riflesso i combattenti diventano una classe politica, come propagandisti di una libertà che sebbene [?] ed oppressa, ha pur sempre sfolgorato dinanzi agli occhi del combattente russo nei campi insanguinati d’occidente. In Italia non è così. Forse che da noi è veramente diffusa, senza possibilità di superamento, la mentalità deteriore del reducismo, che fa della guerra una pedana di lancio per chi ritorna? No certo, almeno potenzialmente. Può affermarsi senza ombra di dubbio che in Italia, come in qualsiasi altro paese del mondo, i reduci hanno ripudiato la concezione falsa che per aver fatto la guerra si acquisiscono dei diritti. In Italia, come altrove, sanamente si pensa che la guerra non è più di ogni altra che una esperienza umana, e come tale si fraziona nei piccoli mondi delle anime di coloro che l’hanno vissuta: una grande tragedia collettiva che tocca pur sempre i lati più umani, se riportata nell’intimità delle coscienze schive di perturbamenti rumorosi. Chi tiene realmente a questa ricchezza umana non potrà mai permettere che essa diventi lo spunto di sonanti proclamazioni. L’anonimo combattente che muore o che ritorna, e che lascia intorno poca traccia di sé e dei suoi anni fangosi, è la più calda espressione della guerra come fatto umano. Un uomo, nella sua completezza di moralità e di costume, questa ritrosia e questo velato pudore a parlare “dei giorni di gloria” se la porterà con sé, come un tesoro geloso, e sarà la sua cosa più bella. E della contemplazione della morte, che fu la sua battaglia, tacerà con lo stesso spirito ritroso che lo fa tacere delle bellezze contemplate nei giorni d’amore.
«In Italia, in cui per la nostra antichissima civiltà potremmo essere uomini completi, purtroppo queste sane concezioni non prevalgono. Sembra che da noi ci sia sempre qualcuno che di proposito si mette a disfare un lavoro ben fatto. Una guerra perduta è un fatto di per sé stesso così eloquente e scottante nella vita di un paese, che niente più di essa riesce a riportare a limiti più realistici le esuberanze esagerate dello spirito nazionale. Ma anche questa lezione rischia di essere perduta da noi. Perché ci sarà sempre qualcuno che si prenderà estrema cura di suscitare reazioni, e sconvolgere posizioni sentimentali, naturalmente avviate all’equilibrio. Così è avvenuto che un uomo politico sardo agli universitari cagliaritani osava dire che gli italiani dovevano essere grati allo stato maggiore, che aveva voluto perdere la guerra. Mentre l’attuale capo del governo più tardi affermava che la sola guerra che conta è quella combattuta dagli italiani dal 1943 al 1945.
«Quando in Italia si fanno affermazioni di questo genere, è giustificato meravigliarsi che la cronaca quotidiana segnali un tumulto di reduci? Quando tutta una generazione di giovani viene svuotata, violentemente con spirito fazioso, del solo contenuto ideale dei loro grigi anni, rappresentato dalla forza che viene dalla coscienza di aver ubbidito al proprio paese, è proprio strano che questi giovani si agitino ed acquistino un colore, che non è nell’ordine naturale delle cose?
«Potranno essere votate le più larghe provvidenze, potranno essere molti e assillanti problemi del lavoro, e questa massa di reduci delusi continuerà a rimanere una forza fredda ed ostile, fino a quando l’Italia non scioglierà un voto di riconoscenza e non risponderà al grido di mille e mille morti che urlano: perché mi hai ucciso?».
Alle elezioni per la Costituente
Alle elezioni del 2 giugno 1946 l’Unione Democratica Nazionale sfiorò, in Sardegna, il quorum (raccolse 33.336 voti, mentre il quoziente elettorale era fissato a 35.113), ed un ottimo successo personale, quasi pareggiandosi nel numero delle preferenze, raccolsero i due capilista: il liberale Francesco Cocco Ortu (7.856) e il demolaburista Giuseppe Sotgiu (7.756); più distanziati Raffaele Sanna Randaccio (4.541) e Pier Felice Stangoni (3.585), e più ancora, con gli altri, il generale Giuseppe Musinu (1.220). Al giovane Romagnino andarono appena 138 preferenze, ma non fu lui a chiudere la lista.
A preparare la pagina politica della vita di Antonio Romagnino, forse già dai tempi della ospitalità ottenuta ai due comunicati del MIRS fra le colonne di Rivoluzione Liberale, fu la crescente consuetudine con Francesco Cocco Ortu, leader liberale, di appena cinque anni più grande del Nostro.
La figura di Francesco Cocco Ortu
Nel capitolo XXV del suo Diario americano, Romagnino accenna insistentemente alla sua vicinanza umana e politica a Cocco Ortu, ed a una prossimità morale che permase anche negli anni successivi alla sua uscita dal Partito Liberale Italiano. Scrive (nel gioco letterario chiamando Cagliari col nome di Genna Maria e se stesso con quello di Stefano):
«Ma a Genna Maria Stefano non ne trovò molti altri di uomini politici che corrispondessero a quegli ideali di libertà e di giustizia, di cui si era nutrito negli anni americani. Uno di questi pochi fu Francesco Cocco Ortu junior, nipote del deputato e ministro giolittiano, dello stesso nome. Si conobbero che Stefano era rientrato a Genna Maria da qualche settimana, e subito fra i due nacque un rapporto vivo, in cui le coincidenze a lungo prevalsero sulle divergenze. Anche se il liberalismo di Cocco Ortu era accompagnato dalla convinzione che, parallelamente alla “religione della libertà”, che poteva difendere solo i diritti politici e civili, doveva essere ugualmente sostenuta e difesa la libertà economica. […]. Di fatto in Stefano quella coincidenza, fra liberalismo e liberismo, non si verificò mai, e su quella divaricazione egli adottò per sé quella che egli chiamava l’apocope che l’originario nome aveva subito, da liberale in liberal».
In Diario americano, Romagnino rimarrà sulla figura di Cocco Ortu, in lui identificando il meglio delle virtù civiche non separate da una nobiltà d’animo e insieme da un pregio intellettuale e professionale assolutamente raro in città e, per lui, esemplare. Romagnino ha in sé la capacità di storicizzare uomini ed eventi della sua contemporaneità, di elevare cioè la sua testimonianza al rango del giudizio storico, e Cocco Ortu gli offre l’occasione di questo passaggio: «Quel liberale portava solo la camicia bianca, e questo gli procurò difficoltà negli studi. Si trasferì a Roma, dove quelle difficoltà sarebbero continuate, se un professore ebreo, Max Ascoli, non avesse scoperto le qualità del giovane, che si laureò col massimo dei voti e la lode. Iniziò immediatamente quella professione forense che era stata della famiglia. Ma ancor più attese a quella formazione che ne fece uno dei più severi democratici del postfascismo. […].
«Francesco Cocco Ortu viveva… fra la gente, faceva i bagni al Poetto, le passeggiate in via Roma, frequentava i bar, sospendeva la passeggiata della domenica, a mezzogiorno, per unirsi alla grande folla che riempiva o Sant’Agostino o Sant’Eulalia. […]. Stefano lo vedeva, in quelle sue tarde stagioni, che si appoggiava all’acquasantiera di Sant’Eulalia e ascoltava, religiosissimo, la messa con i suoi concittadini. Ma Cocco Ortu fu anche un uomo di grandi combattimenti e di grandi lotte, fu un uomo pugnace senza tregue. La libertà non arriva mai al porto, non caccia per sempre il male dal mondo, è viva e reale solo nella lotta senza fine contro il male. Era la “religione della libertà”‘ con cui si intitola il capitolo che apre la Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce. […].
«Nei tempi in cui le lotte politiche erano diventate furenti, le piazze tumultuanti, quelli che più rozzamente trasmettevano non l’opposizione ma l’avversione improvvisamente tacevano. Quando Cocco Ortu saliva fino alla finestrella di piazza Yenne tutti, qualunque fosse lo schieramento di appartenenza, stavano ad ascoltarlo. In queste stagioni di democrazia acerba, non era facile per un liberale che aveva una tradizione laica, anzi anticlericale dietro di sé, per tutta quasi la storia del liberalismo, non era facile essere cristiano. Cocco Ortu lo era e lo era nella pietà che esercitava continuamente per chi era caduto, ed era difficile che si risollevasse. […]. La sua severità morale gli veniva da una pratica, dall’educazione che aveva ricevuto dai gesuiti negli anni dell’adolescenza e della primissima giovinezza, quando aveva frequentato la Congregazione Mariana».
La conclusione: «Stefano lo seguì per molti anni, fino a quando non si persuase che la lunga coabitazione nel governo con la Democrazia Cristiana mal si conciliava con il suo liberalismo ideale e proponeva forme di consociativismo che non sarebbero state diverse da quelle che furono praticate assai più tardi con partiti di segno opposto. Di quella sua stagione politica durata fino alle soglie degli anni sessanta, fra molte delusioni, Stefano ricordava l’attività giornalistica di Cocco Ortu, che più corrispondeva a quella sua vocazione di chiarire, di convincere, di conquistare, e coincideva con quei bagaglio di idealità democratiche che l’ex prigioniero si era portato dall’America, tenendosele ben strette…».
Sembrerebbe importante dire a questo punto che tali rimandi alle questioni di fede, assunte dalla vicenda umana di Francesco Cocco Ortu per storicizzare tempi crudeli – quelli del temporalismo perdurante del cattolicesimo clericale italiano – ma anche per dire di sé, con accenti tanto delicati quanto alti, e della propria vicinanza di laico agnostico (e forse ateo) ai profeti del nostro Novecento, come padre David Maria Turoldo, padre Ernesto Balducci, don Lorenzo Milani, ed anche Pier Paolo Pasolini, fissano alcuni paradigmi dell’esistenza che combinano, nella riflessione profonda di Antonio Romagnino, il trascendente con l’immanente, il “sempre” con quell’oggi e il qui che dettano i doveri.
Siamo ad un nuovo passaggio evolutivo delle esperienze umane e politiche di Antonio Romagnino: insieme con la colleganza e l’amicizia partecipativa intessuta con Cocco Ortu e la sua leadership liberale, ci fu infatti allora l’esperienza di qualche mese – l’anno è il 1947 – della redazione di Rivoluzione Liberale, che riprendeva le pubblicazioni dopo una breve sospensione.
Questa la testimonianza dello stesso professore – una testimonianza venuta mezzo secolo dopo! ancora in Diario americano – inizialmente ancora riferendosi a Cocco Ortu:
«Quel leader collaborava a “L’Unione Sarda” e a “Italia Liberale” ed aveva fondato nella sua città “Rivoluzione Liberale”, a cui Stefano collaborò come redattore-capo e con diversi articoli. Il suo titolo era gobettiano e il suo impegno maggiore, in polemica continua con “Il Lavoratore” comunista, era di difendere i liberali dall’accusa di essere conservatori reazionari, sempre d’accordo con i padroni. “Rivoluzione Liberale”, invece, non aveva mai i quattrini pronti per pagare i conti dell’editore, che era Ferruccio Sorcinelli [recte: la Società Editoriale Italiana della famiglia Sorcinelli]. Li aveva invece “Il Lavoratore”, che saldava sempre i conti regolarmente. Ma il giornale era aristocratico soprattutto culturalmente e nella sua prima stagione».
L’esperienza di “Rivoluzione Liberale”
A quella «prima stagione», dal febbraio 1945 – quando egli ancora era in America – all’estate (4 luglio) 1946 – cioè all’indomani delle elezioni per la Costituente – Romagnino non aveva partecipato: sbarcato a Cagliari dalla nave proveniente da Napoli, nell’autunno 1945, prendendo e riprendendo i contatti e le relazioni con la città, aveva conosciuto Cocco Ortu e il suo giornale e questo lo aveva trovato coerente con il proprio gusto culturale e letterario. Esso «… nel ’45 attingeva le speranze di salvezza dalle massime di Giacomo Leopardi, pubblicava pagine di Montale, poesie di Valéry, un ricordo di Foscolo, quattro traduzioni da Catullo di mano di Nicola Valle, i racconti di Salvatore Cambosu, poesie di Quasimodo, cronache della poesia di Giuseppe Susini, le cronache musicali di Nino Fara. Ma Stefano soprattutto si rallegrò di trovarvi le poesie di Walt Withman, che era stato il cantore della libertà e di quella nave della libertà che erano per lui gli Stati Uniti d’America. Da quelle pagine tutte saliva un’educazione alla democrazia, una fede nelle elezioni e nel voto che, scriveva Cocco Ortu, eguaglia l’ultimo zappatore ad Einaudi e l’ultima beghina a Togliatti».
A distanza di quasi nove mesi dalla sospensione – determinata anche dal trasferimento di Giuseppe Susini alla direzione de L’Unione Sarda restituita, dopo il triennio di commissariamento CLN, alla gestione dei Sorcinelli, famiglia proprietaria – le pubblicazioni di Rivoluzione Liberale ripresero con il numero del 6 marzo 1947 (durando da allora sei mesi, fino all’agosto cioè). Il giornale ricomparve con la responsabilità editoriale oltre che politica ancora di Francesco Cocco Ortu e con Rita Carboni Boy e, appunto, Antonio Romagnino redattori. Dal quarto numero di questa nuova serie – vale a dire dal numero del 27 marzo 1947, il nome di Romagnino figura come redattore capo al posto di Giuseppe Susini, allora passato alla direzione de L’Informatore del lunedì (dello stesso gruppo editoriale de L’Unione Sarda) e tornato al suo lavoro professionale presso l’ufficio Fidi del Banco di Napoli.
In rapida successione – 20 marzo, 3 aprile e 1° maggio 1947, sempre in prima pagina – usciranno tre articoli a sua firma: rispettivamente “La repubblica insanguinata”, “La pattuglia di punta (I lavoratori del braccio e della mente, non vi dimentichiamo. Il convegno sindacale del PLI)”, “Il sesso degli angeli”.
Eccone di seguito il testo integrale, documento certo del giudizio e del sentimento di Antonio Romagnino trentenne, adesso attore riconosciuto sulla scena pubblica cittadina, nell’Italia della ricostruzione morale e materiale dopo i disastri della dittatura e della guerra: l’Italia finalmente repubblicana e ormai, per i voti amministrativi della primavera 1946 e quelli delle politiche per l’elezione dell’Assemblea Costituente, pienamente democratica, pur se ancora bisognosa di tradurre nella pratica i principi di una legge fondamentale – la tavola costituzionale – peraltro soltanto in fieri.
Nel molto che sembra possibile scorgere all’interno delle riflessioni romagniniane è la diffidenza, tipica del liberalismo di quella stagione, verso le ragioni che erano state del CLN, evolutesi poi nella compartecipazione governativa fra cattolici e socialcomunisti ed ora, dopo il viaggio americano di De Gasperi e la scissione di Palazzo Barberini, ancora operativa nelle politiche di repressione (ritenute non tutte giustificate) degli ostili alla Repubblica.
Merita segnalare che la collezione pressoché completa del giornale è conservata presso la Biblioteca Universitaria di Cagiari, dove ho potuto consultarla ed ottenerne la digitalizzazione.
“La Repubblica insanguinata”, 20 marzo 1947
Dunque il senso che il Consiglio dei Ministri, formulando la nuova legge del consolidamento della Repubblica, ha attribuito agli undici milioni di voti che gli italiani il 2 giugno hanno dato alla forma repubblicana dello Stato è purtroppo questo: che chi, come il sottoscritto, ha votato per la repubblica, avesse chiesto allora non soltanto l’instaurazione della Repubblica, ma anche la legge persecutoria della minoranza monarchica.
Non discutiamo gli articoli che contemplano le norme severe per la repressione del neofascismo e dell’attività per la restaurazione con “mezzi violenti” dell’istituto monarchico; essa è materia che fa parte della giustizia ordinaria, e non faceva caso che una legge eccezionale se ne occupasse, ma non possiamo non avvertire che tutto ciò è preambolo inutile, ripetizione oziosa, che ha il solo scopo di far passare inosservati gli articoli cinque e sei con cui si inchiodano definitivamente le libertà di opinione e di stampa. Ed infine è nostro dovere denunciare quell’ipocrisia e quell’enormità con cui si assimilano monarchici e fascisti.
Si sgretolano con questo gesto tanti episodi di lotta eroica per la libertà di cui insieme senza divisione alcuna furono protagonisti monarchici e repubblicani. Si vilipendono figure come quella di Edgardo Sogno, l’eroica medaglia d’oro partigiana, che quando a rischio di morte si calava dal cielo nei luoghi più infidi del nord, dalla sua fede monarchica non conosceva i limiti all’opera coraggiosa, e non si sentiva diviso dai compagni di lotta, accomunato dalla stessa fede nella libertà.
Chi il 2 giugno in perfetta buona fede diede il suo voto perché quell’istituto repubblicano, al di sopra dei contingenti apprezzamenti degli uomini che passano, fosse la meta finalmente toccata dalla nostra maturità politica, non ha oggi che da tristemente rimpiangere che di quello che fu idealmente contemplato come qualcosa di superiore e quasi il suggello ad un passato che scompariva, si faccia strumento di vendetta ed odiato mezzo di persecuzione.
Quella corona civica sulla quale si erano appuntati i voti consapevoli della maggioranza degli Italiani doveva diventare non semplicemente il simbolo di passaggio da un istituto ad un altro, ma, perché non fossero parole prive di senso “liberazione”, “insurrezione del nord”, “referendum”, il simbolo di una autentica rivoluzione ideale ispirantesi alla pacificazione degli animi ed all’attuazione di un’agognata giustizia.
Chi votò l’istituto repubblicano, lo votò perché il sogno mazziniano, in quei giorni di attesa di cose migliori, gli arrise e gli parve la repubblica volesse dire più larga partecipazione di popolo, e quindi più umano e più giusto reggimento delle cose. Ma così non è stato. E non per cattiva volontà popolare, ché le innate qualità di giustizia del nostro popolo non muteranno, e dal più elevato nella scala sociale al più umile lavoratore insopprimibile ed incoercibile sarà questo appello alla giustizia.
Solo un pugno di uomini ha ancora una volta tradito il nostro popolo, tradendo il mandato di cui erano stati investiti. Quelli che un giorno furono tra i più ferventi paladini della libertà, oggi, conquistato il potere, mandano alle galere, al confino ed alla morte gli oppositori. E passi che fautori della terza ondata, che si scatenerà appoggiandosi alla nuova legge, si facciano i socialisti e i comunisti, ma è veramente inammissibile ed insieme incomprensibile, perché non si riesce ad intendere come non ci si avveda dell’iniquo e dello sciocco che è nella legge per le naturali relazioni che susciterà, che ne siano patrocinatori proprio coloro che siedono ai seggi di ministro con i voti dei monarchici. Il tradimento del mandato da parte di certi sottoscrittori di quella legge sta soprattutto nella mancanza di quel rispetto che si deve ad ogni fede, sia essa vera o falsa, nella soppressione di quello spirito liberale che accompagnava quei voti: perché è bene non sia dimenticato che l’elefantiasi di un partito vittorioso il 2 giugno si verificò non per l’adesione convinta alla sua ideologia fideistica, ma per l’unione contingente sotto lo stesso segno di uomini d’ordine, desiderosi di porre argine alle minacce del totalitarismo marxista.
Questi uomini d’ordine, schiacciati dalla nuova legge, è bene che intendano, perché ne traggano preziosa esperienza, che i loro soldati hanno defezionato superando la barricata, che i voti del 2 giugno avevano innalzato. Oggi le due parti bivaccano, fraternizzando, e De Gasperi di sopra al muro demolito stringe la mano a Togliatti.
La lezione è severa per tutti gli onesti, ma non scevra di insegnamenti utili per il futuro.
Infatti che Togliatti ricordi il suo lungo esilio, che De Gasperi menzioni gli immancabili soprusi sofferti dal Regime fascista, che Gonella abbia a vantarsi d’essere stato vittima della violenza fascista per la voce libera dei suoi “Acta diurna”, che Sereni si alzi alla Costituente a dire di non vergognarsi di esser stato un galeotto, sono gesti svuotati ormai d’ogni contenuto morale, perché non sono esempi che valgano ad esortare alla tolleranza, ma posizioni polemiche per avallare ritorsioni, giustificare vendette. Quelle figure, alle quali doveva andare il rispetto degli Italiani, per l’esperienza di dolore, da essi affrontata pur di non rinunciare alla libertà in cui credevano, sono ridotte ormai a termini e proporzioni modeste e ben misere, che fanno di essi gli astiosi e personali vendicatori di torti subiti, e non i superiori paladini di un ideale offeso. Un velo di inganni e di ipocrisie, tessuto in quasi quattro anni di vita politica italiana, oggi è caduto ed il triste spettacolo che ci appare può certo rattristarci ed offenderci, ma rinvigorisce anche il nostro orgoglio legittimo di sapere che la sola via di libertà e di giustizia è la nostra, e che fuori di noi sono la faziosità e la violenza.
“La pattuglia di punta (I lavoratori del braccio e della mente, non vi dimentichiamo. Il convegno sindacale del PLI)”, 3 aprile 1947
A conclusione dei lavori del Convegno Sindacale del PLI che si è svolto a Roma nei giorni 25 e 26 marzo è stato votato all’unanimità il seguente odg:
“I rappresentanti provinciali partecipanti al Convegno Sindacale Liberale svoltosi a Roma nei giorni 25 e 26 marzo, ricordato che è nella tradizione liberale l’ansia per la risoluzione dei problemi sociali, riconoscono la particolare funzione del lavoro nella produzione ed auspicano quelle forme di collaborazione che non generino nocivi dualismi nella impresa moderna; esprimono la convinzione che i principi di cui sopra possano trovare la loro realizzazione attraverso una azione sindacale libera ed indipendente dai poteri pubblici e dai partiti politici ed in proposito riaffermano che il Partito Liberale continua a farsi assertore della libertà sindacale nel senso che all’unità dei sindacati si giunga per libera adesione delle associazioni di categoria spontaneamente sorte e che i dirigenti sindacali eletti democraticamente dagli associati debbano astenersi da ogni azione politica durante l’esercizio della loro attività sindacale”.
La presenza attiva del Partito liberale nel mondo del lavoro è quanto mai necessaria nelle circostanze attuali. Beninteso non si tratta, e non si tratterà mai di creare una nuova chiesuola sindacale in concorrenza delle tante parrocchie, basiliche o cattedrali che agiscono nel campo sindacale assai più per recare acqua ai mulini elettorali dei partiti che per il reale interesse dei lavoratori.
Si tratta piuttosto di portare il lievito dei principii politici ed economici del liberalismo nelle associazioni sindacali che devono essere organismi liberi e indipendenti per la tutela degli interessi del lavoro e non strumento per agevolare la conquista del potere a questo o a quel partito.
Ora noi diciamo ai lavoratori che l’individualismo dei liberali non i affatto sinonimo di anarchia e di disinteresse per il mondo del lavoro.
Fra liberalismo e socialismo delle varie tendenze c’è decisa opposizione anche sul campo sociale; ma questa opposizione non consiste affatto – come dice la sragionante propaganda socialista – nell’essere il liberalismo dannoso agli interessi dei lavoratori e i liberali tutti arcicapitalisti.
La differenza è questa: che i liberali vogliono la elevazione dei lavoratori “come individui” mentre i socialisti, comunisti, fascisti e via dicendo vogliono livellare la società e far procedere in blocco questa società. Praticamente non ci riescono ma intanto colle loro utopie generano spaventose perdite di ricchezza delle quali di regola sono proprio i membri più deboli della collettività a fare le spese.
Perché l’individuo non venga stritolato tra le spire di una gigantesca macchina statale agisce il PLI sia nel campo politico che in quello sindacale, ed i lavoratori del braccio e della mente gelosi della propria personalità di uomini liberi e non di schiavi, sapranno riconoscere da che parte sta la verità, e da che parte la menzogna.
***
Una cappa di piombo sembra essere stata stesa sul Paese: una cappa che isola in una torre inattaccabile l’aula di Montecitorio, ove si susseguono monotone le riunioni dell’Assemblea Costituente, a cui neppure il grido di “Viva la Repubblica” riesce a dar animo, come non riuscirono a scaldare le tristi e fredde sedute di un tempo non lontano gli inni della Rivoluzione cantati a gran voce dai consiglieri fascisti; una cappa di piombo è stata stesa perché i saggi imperturbabili operino, perché l’aula famosa sia sorda a i gridi di dolore che s’alzano da ogni parte d’Italia, non sia intaccabile dalle fiamme che distruggono, non senta gli spari, che uccidono.
Quando un’assemblea come la nostra, anche democraticamente eletta, vive una vita avulsa dalla volontà popolare, e non se ne sente più il polso la democrazia è in pericolo, e scoccano le ore tragiche in cui ogni avventura è possibile.
Una democrazia vera è prima d’ogni altra cosa coraggio e senso di responsabilità; e dinanzi alla marea montante di vergogne rinunciatarie, di violenze liberticide, e di corruzioni scandalose, su cui si stende il velo dei pavidi e la colpevole acquiescenza di chi potrebbe colpire e punire, l’Italia non chiede che questo: finalmente abbia inizio la vera democrazia, frutto di voci libere e franche.
Vuole l’Italia che la piccola schiera di uomini animosi, saliti il 2 giugno in silenzio dai posti di lavoro e venuti a servire il Paese nel solo modo in cui l’uomo pubblico deve servirlo: illuminandolo e sapientemente interpretandolo, non ubbriacandolo con le inebbrianti bevande delle vane promesse, diventi la maggioranza nell’Assemblea eletta dal popolo, perché definitivamente siano banditi i pericoli di dittature di destra e di sinistra, perché finalmente sia stabilita quell’equidistanza che separa tanto dal comunismo che dal fascismo un regime democratico fondato sulla libertà.
Il Paese sa quale è questa pattuglia di punta della democrazia, conosce i nomi di Martino, Perrone Capano, Villabruna, Cortese, Bellavista, Cifaldi, Badini Confalonieri, Condorelli, Crispo, Rubilli e Lucifero, che non conoscono viltà, ogni qual volta c’è una ingiustizia da smascherare, un sopruso da condannare, una rivendicazione italiana da proclamare ben alta nel mondo. Sa che Trieste e Pola non ebbero difensori più appassionati fuori delle intransigenze nazionalistiche e dagli schemi e delle consegne dei partiti solo sensibili alle voci eterne e immutabili della libertà e della giustizia.
Sa che la reazione dei deputati liberali è sempre pronta, ed appassionati i loro atti di accusa alla debolezza del governo, sia che si tratti del sabotaggio della nostra emigrazione in Argentina, al posto della quale si vuole imporre l’emigrazione in Francia a condizioni da schiavisti, o degli incidenti gravissimi di Sant’Elpidio, di Trapani, Taranto e Gioia del Colle, e delle manifestazioni neofasciste di Milano (in occasione dei funerali di De Agazio) e di Palermo, o delle aggressioni di cui sono state vittime Mastroianni, Benedettini e Lucifero.
Ed è un appello ad un senso più umano della lotta politica, al superando di una faziosità che sta corrompendo la nostra vita democratica, alla tolleranza ed al rispetto di tutte le fedi, perché si eviti di dare spunti e occasioni a coloro che dalla prova del regime democratico si attendono l’ora propizia per le rivincite e le avventure. E la grande assente dalle tumultuose riunioni parlamentari, l’Italia, ritorna nei cuori perché il nome sacro ne viene ripetuto, ad ogni crisi minacciosa della sua incolumità, soprattutto dai deputati liberali.
Così Cortese facendo eco agli affanni della lagrimose madri deli settantamila prigionieri italiani sterminati nei campi di Russia, contro ogni legge che governa l’umano consorzio, ha gridato alle sinistre, messe al muro dagli schiaccianti argomenti, che hanno dimostrato l’enorme numero di prigionieri mancanti. «Non si può ammettere che essi venissero trattati come balle ammonticchiate; vi dovevano essere degli elenchi; vi dovevano delle liste nelle quali si segnava chi moriva, quando moriva, come moriva. Non è chiedere troppo questo; non è chiedere troppo chiedere questo piccolo conforto in nome delle madri, in nome dei genitori, in nome di tutti i partiti, in nome di tutti gli italiani i cui figli sono scomparsi in Russia».
E Gaetano Martino nella sua elevata deplorazione degli atti di violenza subiti dai membri della Camera, contro i molti pavidi che subivano tacendo, disse: «Avrei io voluto oggi sentire (e sono deluso per non averlo sentito) una nota di alta e sincera umanità, tale da superare, negligendolo, l’interesse della parte per ispirarsi esclusivamente all’interesse degli uomini».
E nei giorni delle violenze non comuni perpetrate contro il giornalista De Agazio, ucciso durante la sua lotta per la verità, ed il generale Zingales, sostituito mentre conduceva coraggiosamente le indagini per il tesoro di Dongo, ferma e dignitosa è stata la replica di Villabruna alle scappatoie di Scelba e alle poco soddisfacenti dichiarazioni di Gasparotto: «La protesta per gli attentati non si limita a coloro che non sono state le vittime, ma si eleva al di sopra dei partiti nell’interesse della libertà comune. Io raccomando al governo di intervenire energicamente: il Paese gliene sarà grato. E’ ora di dare al Paese la fiducia che oggi comincia ad essere scossa. Solo così si darà la convinzione che l’Italia è un Paese di democrazia e di libertà».
Piccola schiera è pur vero, ma coraggiosa e ferma nel suo atteggiamento di opposizione, che non è sterile e intransigente, ma costruttiva, e volta ad illuminare gli italiani sugli errori commessi il 2 giugno, quando concedevano la fiducia a uomini che della maggioranza dovevano fare uno strumento di oppressione e di persecuzione, violando quelle libertà fondamentali, di cui vent’anni di fascismo avevano fatto nascere nel nostro Paese un nostalgico e sconfinato amore.
Che l’opera di questi pochi animosi possa oggi illuminare quelle cieche maggioranze parlamentari che hanno portato l’Italia al limite di un baratro!
“Il sesso degli angeli”, 1° maggio 1947
Tutti i partiti, dal comunista al liberale, dal democristiano al socialista, attendevano con ansietà la grande prova delle elezioni siciliane.
La situazione politica italiana, in questa perdurante anormalità, oggi offre ciò che in tempi di regolari parlamenti a quadriennale scadenza non si potrà certo verificare, cioè quelle consultazioni popolari ridotte, che riempiono il vuoto, che nasce nell’attesa di quelle maggiori. Così tra il 2 giugno e i prossimi comizi elettorali, al termine della Costituente, ci sono state le elezioni amministrative nelle grandi città, ed il 20 Aprile le elezioni in Sicilia per l’Assemblea Regionale, e nei prossimi mesi si terranno ancora le elezioni amministrative a Roma, e quelle per l’Assemblea Regionale in Sardegna.
Questi atti elettorali non solo raggiungono lo scopo di tener desta l’attenzione delle grandi masse e quindi scuotere lo spirito democratico, che altrimenti rischierebbe di languire, ma offrono anche la possibilità di scoprire indici dei flussi e riflussi dei singoli partiti, che altrimenti mancherebbero fino alla convocazione di nuovi comizi elettorali generali.
Inoltre, e ciò non sembri suggerito dalla maligna nostra attenzione a scorgere pericoli dappertutto per questa nostra democrazia nascente, credo che questa saggia distribuzione nel tempo di consultazioni popolari sia valsa a distrarre, a sopire, e quindi a neutralizzare i non limpidi propositi di molti che, nella passionalità della lotta, hanno spesso pensato di dar mano alla forza, ed ottenere con la violenza ciò che con i voti liberamente espressi non era riuscito loro di ottenere.
Il non consumare tutta in una volta la somma di domande che sono state poste al popolo italiano e che in parte ancora devono essere poste, se da una parte ha inciso e non leggermente sul bilancio dello stato, a cui è affidata l’organizzazione delle consultazioni, ha peraltro sicuramente raggiunto il benefico effetto di far nascere speranze nei cuori degli sconfitti, di rendere meno brucianti le ferite dei vinti, facendo ad essi balenare prossima la visione di non lontane rivincite.
E così questo nostro dopoguerra così povero di grano e calore, ma pur così ricco di parole e di fedi, va trascinandosi, sì stancamente, ma anche, non c’è dubbio, tendendo a superare quel mare di guai, che i pessimisti vedevano come insuperabili, e che ritenevano la fatale tomba della democrazia italiana. C’è insomma una verità che balza oggi evidente dagli avvenimenti lontani e recenti: che la gran maggioranza del popolo italiano la sua scelta l’ha fatta, volgendo l’anima alla strada della democrazia e della libertà. E che si tratti di atteggiamento cosciente e non passivo, è dimostrato irrefragabilmente dall’afflusso alle urne nelle recenti elezioni siciliane.
Dunque la Rivoluzione non ci sarà, la tanto temuta violenta mutazione di cose non ci sarà, per una serie di ragioni varie, tra cui non ultimi i riflessi della situazione internazionale. Ma soprattutto non ci sarà perché la valutazione realistica di imbarcarsi in un’avventura, i cui più diversi esiti sono tutti attendibili, ha consigliato per altro verso ed ha spinto ad operare nel campo legalitario. Sembrerebbe che si sia compiuto il miracolo, che il metodo, tanto odiato dai totalitari, abbia conquistato questi suoi avversari irriducibili facendo in essi nascere la convinzione che le mete segnate dai loro programmi possono anche esser raggiunte col metodo democratico
Inoltre, e prima d’ogni altra considerazione, deve essere sottolineato il fatto che le probabilità di successo, fuori dai conflitti armati e dalle lotte di forza, ci sono e i grossi partiti di massa non se le lasciano sfuggire, anche perché una patina di vernice democratica è un successo, che una vittoria ottenuta con la forza, anche se più immediata, difficilmente potrebbe eguagliare. Tutto questo vale soprattutto per il Partito comunista che, spauracchio della vita politica italiana, ha praticamente applicato questa sua nuova tattica nella politica dei blocchi attuata recentemente in Sicilia.
Ma questa quasi idilliaca descrizione degli avvenimenti italiani non ci deve trarre in inganno, e distrarci da quell’attenta e sempre vigile preoccupazione, che è il fondamento di una vera democrazia. Che se non ci fossero le paure passate a tenerci desti, ci dovrebbero accendere soprattutto quelle considerazioni che vien fatto di fare sui mezzi, che hanno portato oggi il nostro avversario ad un certo successo.
Nessuno ignora tutto l’insieme di intimidazioni, di fallaci promesse di distribuzione straordinaria di viveri che hanno portato al «Blocco del Popolo» circa seicentomila voti in Sicilia. E nessuno, che è cosciente della verità, dubita che il tempo farà giustizia degli errori di oggi, ed assottiglierà i creduli voti delle nostre masse ignoranti. Ma questo tempo ci sarà concesso? Quando i marxisti saranno entrati nella cittadella della democrazia, si e certi che ci sarà concesso a noi di rifarci con la rivincita che nasce immancabilmente dalla verità offesa, a loro di tentare ancora il gioco che solo una volta può dare esito favorevole? No, non lo crediamo E allora nei prossimi mesi le forze dell’ordine e moderate devono provarsi in questo nuovo tentativo di sopravvivere, o rassegnarsi a decisamente sparire.
La lezione della Sicilia è gravemente ammonitrice: il «Blocco del popolo» attraverso la collaborazione dei non marxisti – gli «utili idioti» secondo la definizione di Tito – e con la maschera di Garibaldi, con cui ha nascosto la rossa bandiera con falce e martello, è riuscito ad ottenere 600.000 voti che la ferrea disciplina delle preferenze ha rivolto a tutto beneficio dei comunisti.
Di contro ci sono stati oltre un milione e duecentomila voti divisi tra indipendentisti, monarchici, repubblicani, blocco liberalqualunquista (317.594 voti in note provincie, ed in provincia di Messina, dove erano separati, liberali 40mila, U.Q. 31mila) e democristiani, tutti voti anticomunisti. Quindi il rapporto è di un terzo appena del corpo elettorale per il blocco del popolo, e per di più senza che la totalità di quel terzo sia, per via degli utili idioti, marxisti.
Perché le forze democratiche non riescono ad intendersi al di sopra di secondarie divisioni per la difesa della democrazia contro il mascherato assalto marxista? Sembra di assistere in Bisanzio alla discussione sul sesso degli angeli mentre i turchi sono alle porte della città.
Coloro che intendono la democrazia non come qualcosa che si porta sulle baionette dei vincitori, ma come la continuata ragione di vita dei popoli, non come una fortunata breve vicenda o il frutto di un dono straniero, ma il duraturo fondamento delle nazioni, sanno chi assicurerà questa non temporanea resistenza della democrazia italiana. Qui non si tratta più di escogitare sfumature, e quindi di dar spunti a nuove formazioni a cui sarà di fronte domani il crudo destino di essere soverchiate; qui carità di patria, che si confonde con l’anelito e la speranza della maggioranza degli italiani, vuole che un fronte democratico si crei, e che sia diga alla minaccia delle sinistre; qui ha da farsi più massiccia questa formazione iniziale, qui ha da farsi questo sblocco, fuori da ogni angustia e da ogni riserva, che nascono solo da interessi ed ambizioni personali. Qui ha da farsi questo blocco il più largo possibile, senza sottilizzare sui programmi particolari. E il popolo lo saluterà come la sua salvezza, si chiami pure il «Blocco del Diavolo».
La partecipazione alle gare elettorali politiche ed amministrative
Come detto, lungo un decennio circa, dalle prime regionali del maggio 1949 alle terze regionali del giugno 1957, Antonio Romagnino è in lista con i liberali altre cinque volte: ancora alla gara per il rinnovo del Consiglio, nel 1953; una volta per il rinnovo parlamentare, nello stesso 1953, ed una volta per il rinnovo del Consiglio comunale di Cagliari, nel 1956.
Siamo nella lunga stagione del centrismo, dell’alleanza governativa cioè fra la maggioritaria Democrazia Cristiana e le formazioni di democrazia laica, vale a dire socialdemocratici (scissisi nel 1947 dall’albero socialista), repubblicani delle distinte scuole mazziniana ed azionista, e appunto liberali (al tempo sotto le segreterie di Bruno Villabruna, quindi dal 1954 di Giovanni Malagodi, a livello nazionale, e sotto la permanente leadership di Francesco Cocco Ortu in Sardegna).
Va precisato che fra gli alleati storici, pur fra alti e bassi, della DC figurava nell’Isola, negli anni fra il 1949 e il decennio successivo, anche il Partito Sardo d’Azione, che tanto più nella prima legislatura nazionale contava una qualificata presenza sia a Montecitorio che a Palazzo Madama.
Andrebbe inoltre soggiunto che nel 1955 – già sotto la segreteria Malagodi saldamente ancorata a istanze moderate e di rappresentanza di interessi di centro-destra – si compì nel PLI una scissione dell’ala più progressista, che andò a dar vita al Partito Radicale, del quale il settimanale Il Mondo, in edicola ormai da un lustro e più, e diretto dal liberal-radicale Mario Pannunzio, costituì il miglior strumento di azione politica, dato anche che il partito mancava di una sua rappresentanza parlamentare.
Poche parole sui diversi appuntamenti elettorali, ricostruiti sia con lo spoglio dei quotidiani sardi del tempo, sia con la consultazione dei verbali custoditi nell’Archivio storico del Consiglio regionale della Sardegna.
Alle regionali del 1949
L’8 maggio 1949, quando in Sardegna esordisce l’istituto autonomistico a statuto speciale, i consiglieri da eleggere sono 60 ed i voti di lista espressi sono complessivamente 579mila nell’Isola, 298mila nel collegio provinciale di Cagliari (comprensivo dell’Oristanese).
Relativamente a tale collegio, questi sono i risultati in termini di seggi (complessivamente 31): 10 ai democristiani, 8 ai comunisti, 2 ai socialisti, 3 ai sardo-socialisti di Lussu, 1 ai socialdemocratici, 2 ai sardisti con gli alleati repubblicani; sulla destra 1 ai missini, 3 al Partito Nazionale Monarchico, nessuno ai qualunquisti; i liberali eleggono un consigliere: Felice Medda; nessun altro candidato liberale sarà eletto nei collegi di Sassari e Nuoro.
Il partito raccoglie 8.559 voti nel collegio vincente, complessivamente 11.755.
Antonio Romagnino raccoglie 651 preferenze, classificandosi nono su 31. E una prima performance che profila, anche nella gara, la statura di un giovane professore quale potrebbe accreditarsi nella vita pubblica cittadina e provinciale.
Nel corso di questa prima legislatura autonomistica si susseguiranno due giunte a presidenza Luigi Crespellani (già sindaco di Cagliari e prossimo senatore): la prima bicolore democristiani/sardisti, la seconda monocolore democristiana integrata da tecnici.
Va detto che in campagna elettorale i liberali si sono schierati contro il regionalismo al debutto – e Romagnino è su questa linea insieme con Cocco Ortu –, sebbene essi, con Sanna Randaccio, abbiano positivamente partecipato, in sede di Consulta sarda, alla stesura del testo di statuto speciale passato poi al giudizio della Costituente.
Alle regionali del 1953
Il primo rinnovo del Consiglio regionale avviene il 14 giugno 1953: i consiglieri da eleggere sono adesso 65 ed i voti espressi 620mila, di cui 321mila nel collegio provinciale di Cagliari (per 34 seggi).
Questa la assegnazione dei seggi nel collegio: 14 ai democristiani, 9 ai comunisti, 4 ai socialisti (che intanto hanno assorbito di sardo-socialisti di Lussu), nessuno ai socialdemocratici, 2 ai sardisti con gli alleati repubblicani; sulla destra 2 ai missini, 2 al Partito Nazionale Monarchico; i liberali eleggono ancora un solo consigliere, ed è nuovamente Felice Medda; nessun liberale negli altri collegi dell’Isola.
Il PLI raccoglie 9.985 voti nel collegio di Cagliari, complessivamente 12.359 (più qualcosa nel Nuorese, dove si presenta, senza successo, unitamente ai socialdemocratici).
Antonio Romagnino raccoglie 1.375 preferenze, classificandosi quarto su 34, terzo dei non eletti dopo Carboni e Caredda e prima di Tola.
Nel corso di questa seconda legislatura autonomistica si susseguiranno quattro giunte: la prima ancora monocolore democristiana ancora a presidenza Crespellani; la seconda pure monocolore democristiana a presidenza Alfredo Corrias; la terza, presieduta dallo stesso Alfredo Corrias, bicolore democristiani/sardisti; la quarta (più duratura) nuovamente monocolore democristiana ed a presidenza Giuseppe Brotzu, appoggiata dalle destre monarchica e missina.
I liberali appoggeranno Corrias ma saranno all’opposizione di Brotzu (nella votazione della fiducia Medda si astiene), contestando anche una politica elemosiniera dei democristiani a favore, fra l’altro, della scuola privata.
Alle regionali del 1957
Il secondo rinnovo del Consiglio regionale è del 16 giugno 1957: i consiglieri da eleggere sono ormai 70 ed i voti espressi 667mila, di cui 347mila nel collegio provinciale di Cagliari (per 37 seggi).
Questa la assegnazione dei seggi nel collegio: 15 ai democristiani, 8 ai comunisti, 4 ai socialisti, nessuno ai socialdemocratici, 2 ai sardisti con gli alleati repubblicani; sulla destra 2 ai missini, 1 al Partito Nazionale Monarchico e 4 al Partito Monarchico Popolare (scissionista dal primo e con riferimento nazionale in Achille Lauro); i liberali eleggono ancora un solo consigliere: per la terza volta è Felice Medda; nessun liberale negli altri collegi dell’Isola.
Il partito raccoglie 11.769 voti nel collegio di Cagliari, complessivamente 18.129.
Ad Antonio Romagnino vanno ben 3.374 preferenze – molti ma… considerati pochi! –, classificandosi primo dei non eletti: la sua cifra individuale paga uno scarto di un migliaio di voti rispetto a Medda, ma ne presenta uno di pari entità, a suo vantaggio, rispetto al terzo classificato, Tola.
La terza legislatura autonomistica vedrà susseguirsi due giunte: la prima a presidenza ancora Brotzu, monocolore democristiana e con l’appoggio ancora delle destre e l’opposizione ancora, fra gli altri, del consigliere liberale (che peraltro neppure non partecipa al voto per la elezione del presidente); la seconda (temporalmente prevalente) a presidenza Efisio Corrias, nuovamente bicolore democristiani/sardisti con aperture ad un prossimo centro-sinistra e all’impegno per il piano di Rinascita.
Alle politiche del 1953
La settimana antecedente a quella delle regionali, nel 1953, si sono svolte le elezioni per il rinnovo del Parlamento; non ha trovato applicazione la legge elettorale maggioritaria, che avrebbe assegnato un premio alle formazioni coalizzate ove la sommatoria dei loro voti avesse superato il 50% del totale (nel concreto hanno aderito al patto democristiani, liberali, socialdemocratici e repubblicani, nonché i sardisti).
Nell’unica circoscrizione regionale i voti espressi sono stati 647mila e i deputati eletti – 14 in tutto – sono stati 7 democristiani, 4 comunisti, 1 socialista, 1 monarchico ed 1 missino.
I liberali hanno raccolto quasi 18mila suffragi, ma non hanno confermato il deputato che nella prima legislatura 1948-1953 era stato Francesco Cocco Ortu. Questi è risultato comunque il candidato liberale più votato (con 7.099 preferenze), seguito a grandissima distanza da Walter Angioi, esponente già qualunquista, data l’intervenuta confluenza del Fronte dell’Uomo Qualunque nel PLI (mentre nel 1948 i due partiti, anche con i nittiani, erano associati nel Blocco Nazionale.
Antonio Romagnino è risultato terzo per preferenze su 16, con 1.195 consensi confluiti sul suo nome.
Alle comunali di Cagliari del 1956
Prima delle regionali del 1957 – le ultime alle quali Antonio Romagnino abbia partecipato con i liberali – si sono svolte anche le elezioni comunali, le terze in successione nella ripresa postfascista, dopo quelle del 1946 e del 1952.
Si sono presentati alle urne 71.200 cagliaritani. Ha vinto alla grande la Democrazia Cristiana che ha piazzato 22 consiglieri su 50; i comunisti ne hanno eletti 8, i socialisti 5, i socialdemocratici 1, i sardisti con gli alleati repubblicani 1; sulla destra i missini hanno eletto 6 consiglieri, i monarchici nazionali 3; i liberali hanno raccolto 5.110 voti (il 7,3%) ed eletto 4 consiglieri: Francesco Cocco Ortu, Raffaele Sanna Randaccio, Gustavo Carboni e Mario Tufani (ex Uomo Qualunque).
Antonio Romagnino è stato il primo dei non eletti, con 501 preferenze, appena 12 in meno dell’ultimo eletto. La cosa avrebbe pesato e non poco nei consuntivi del professore: perché le preferenze sul nome di un segretario provinciale, quale egli ancora era, generoso ed attivissimo, limitate ad un decimo appena del consenso certificato al partito costituivano una umiliazione obiettiva…
La segreteria provinciale del PLI e le dimissioni dal partito
Per quattro anni circa, come ho detto dal 1953 a tutto il 1957, Antonio Romagnino regge la segreteria provinciale di Cagliari del Partito Liberale Italiano. Prima ha assunto l’ufficio di presidente e anche di segretario della sezione cittadina di Cagliari.
Egli è in un’età ancora giovanile – ha meno di quarant’anni – e divide il suo tempo, al netto degli affetti domestici, nella casa di via Manzoni, fra la cattedra del Dettori e il partito, nella sede coccortiana del corso Vittorio Emanuele.
E’ un segretario dinamico, che riesce a portare a ben 5mila gli iscritti in provincia; è riconosciuto per abile organizzatore – un intellettuale con vivo senso pratico – e promuove o favorisce, infatti, gli insediamenti liberali nei territori anche lontani dalla città, rurali per lo più – nei Campidani o in Marmilla così come nell’hinterland del capoluogo –, preziosi anche per la ricerca del consenso elettorale nei puntuali turni amministrativi o politici, nazionali o regionali. Da professore quale è, per statuto personale, la sua opera non è mai, però, priva di un intento pedagogico, educativo e formativo della militanza che dalla estrema periferia della Repubblica deve poter comprendere e sintonizzarsi con i grandi del pensiero e della tradizione liberale, da Croce – scomparso nel 1952 – ad Einaudi, presidente della Repubblica in carica dal 1948 (sarà avvicendato da Giovanni Gronchi nel 1955).
Nella politica italiana di questi anni, dopo la liquidazione di De Gasperi e la fine della stagione propriamente detta del centrismo, si procede per maggioranze precarie e ministeri tutti di breve durata, per lo più monocolori democristiani appoggiati appunto dal PLI (e talvolta dalle destre); nei governi Scelba e 1° Segni (fra 1954 e 1957) i liberali recano una delegazione il cui esponente di maggior rango è Gaetano Martino, dapprima alla Pubblica Istruzione poi (con maggior continuità) agli Affari esteri: sarà lui a portare l’Italia alle Nazioni Unite nel 1955, a firmare i Trattati di Roma istituenti nel 1957 la Comunità Economica Europea e la Comunità dell’Energia atomica; sarà anche presidente del Parlamento europeo (allora eletto a suffragio indiretto).
A parte questi aspetti di nobiltà di una politica realizzata da statisti veri e propri, e che egli apprezza e condivide, Romagnino soffre da sempre della alleanza dei liberali, e in generale dei partiti laici, con la Democrazia Cristiana, che considera partito egemone, clientelare e confessionale. Sa però che deve fare di necessità virtù, pragmaticamente, finché il pragmatismo non venga a smentire le ragioni ideali di fondo.
Fin dagli anni ’40, dall’inizio della sua militanza nel PLI, pur vicinissimo a Francesco Cocco Ortu, ha tenuto ad evidenziare gli elementi di distinzione rispetto alla maggioranza degli iscritti e dei dirigenti liberali (ne ho già accennato): egli è repubblicano, per cultura maturata negli anni americani, mentre il Partito Liberale e lo stesso Cocco Ortu sono monarchici, o tiepidi o convinti; inoltre egli, da liberal, mal sopporta gli schemi mentali portati nella politica dai qualunquisti, mentre Cocco Ortu ha facilitato nel 1948 l’apparentamento elettorale fra il PLI e il Fronte dell’Uomo Qualunque, e successivamente ha patrocinato, per palesi e comprensibili ragioni elettorali, la confluenza i numerosi qualunquisti nei ranghi del partito (altri qualunquisti sono confluiti o nella DC o nelle destre monarchica e missina).
Le sintesi che trae, in processo, del senso della sua militanza e della fecondità del suo spazio di dirigente territoriale, restano comunque positive, non marcano evidenze di opposizione alla linea politica generale. Fianco a fianco di Francesco Cocco Ortu, segue e cogestisce anche le partite “di potere”, o di relativo potere regionale o locale, collocando gli uomini più rappresentativi del partito, quando possibile, in alcune delle posizioni di maggiore responsabilità pubblica: Carboni Boy al vertice della Provincia, Orrù ad un assessorato provinciale, Massacci al collegio di Serramanna (concesso dalla DC, o con la DC concordato per ottimizzare il risultato di comune interesse) e poi nella giunta provinciale a presidenza Meloni, ecc.
Nel 1957 qualcosa però si rompe e sono le elezioni regionali, la loro preparazione e la loro conclusione, a segnare e misurare i distanziamenti. Certamente lo scenario interno, anche nazionale, presentato dal suo partito, ormai privo della propria ala di sinistra andata a formare il Partito Radicale (presto alleato dei repubblicani in una prospettiva di centro-sinistra), ma ancor più le ripetute incomprensioni e difficoltà di convivenza nelle sezioni o nei direttivi locali, uniti appunto alle frustranti esperienze maturate sul fronte elettorale, che vedono ingessata (clientelarmente) la rappresentanza e non favorito il ricambio anche generazionale, inducono Antonio Romagnino, il 2 gennaio 1958, a rassegnare le sue dimissioni da segretario provinciale.
Lo fa con un promemoria dattiloscritto di 16 pagine, che segue ad altre note riservate da lui indirizzate a Cocco Ortu, e cui questi ha risposto con due manoscritti anche quantitativamente “pesanti”, l’uno – datato 22 aprile 1957, giorni di campagna elettorale per le regionali – di 8 pagine, l’altro – datato 4 agosto 1957, ad elezioni fatte – di ben 39 pagine. (Si tratta di inedito e prezioso materiale documentario che ho potuto acquisire in copia dalla liberalità di Enrico Lecis Cocco Ortu, cui lo stesso professor Romagnino consegnò, fiduciariamente, gli originali).
Sarebbe opportuno, oltre che giusto, recuperare interamente gli argomenti di entrambe le parti nel giudizio, complessivo ed insieme articolato, delle vicende interne del Partito Liberale sardo e cagliaritano in particolare: ciò anche in vista di ricostruire dall’interno i diversi aspetti della vita associativa di un partito di grande tradizione nella storia politica nazionale ed isolana. Non mancherà, nel prossimo futuro, una tale circostanza.
Un focus sul Partito Liberale sardo negli anni ‘50
Sembra comunque utile almeno qualificare e dimensionare la presenza liberale nell’Isola e nella provincia lungo gli anni ’50. Tutto ciò, naturalmente, nel maggior quadro nazionale.
E’ noto che, conclusasi con un monocolore dc rimasto in carica per un mese soltanto la lunga e fruttuosa stagione degasperiana, il centrismo – l’alleanza cioè dei democristiani con i partiti di democrazia laica – entrò in crisi. Chiamatisi fuori da qualsiasi concerto i repubblicani (la cui anima azionista guida una lenta ma progressiva strategia volta all’apertura a sinistra), si susseguirono per quasi dieci anni diversi esecutivi, tutti a presidenza democristiana con alterne composizioni, fra monocolori e coalizioni varie fra la DC e i socialdemocratici e i liberali. Saltuario l’appoggio esterno del PRI e piuttosto insistente invece quello delle destre (dei monarchici nazionali e di quelli popolari non meno dei missini), nella speranza forse più di politiche conservatrici, a difesa di interessi costituiti, che non di revanche ideologiche… Così di seguito i governi Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli.
In Sardegna – ne ho già accennato – la seconda legislatura, in partenza proprio dal 1953, vide nella prima parte giunte monocolore dc (a prolungata presidenza Crespellani) o di coalizione fra democristiani e sardisti (a presidenza Alfredo Corrias), mentre nella seconda parte un monocolore a presidenza Brotzu con l’appoggio delle destre missina e monarchica.
Con formula analoga – monocolore dc “sdraiato a destra” – s’aprì nel giugno 1957 la terza legislatura, che poi sarebbe evoluta, con la nuova presidenza Efisio Corrias, con un esecutivo nuovamente bicolore DC-PSd’A e prima apertura politica, come accennato, al disegno di centro-sinistra.
Quale fu, in un tale contesto, il giudizio liberale e la partecipazione del partito agli esecutivi anche amministrativi quanto meno della Provincia di Cagliari e del Comune capoluogo?….
Nell’Amministrazione Provinciale i liberali, volgendosi per vaste sintesi alle relazioni territoriali intrattenute con i democristiani, in una logica di blocco anticomunista, sono fin dall’inizio in maggioranza e perfino alla presidenza della giunta, per qualche tempo, con Gustavo Carboni Boy (subentrato al presidente Palmas, passato alla guida dell’Ente Autonomo del Flumendosa nel 1953). Al rinnovo del 1956 confermano l’alleanza, sia nel cruciale collegio serramannese con la vincente candidatura di Giuseppe Massacci, sia poi nell’allestimento della giunta affidata al democristiano Meloni (e appunto con Massacci assessore).
Anche la politica nel capoluogo segue, nelle linee generali e sostanziali, l’ispirazione e le modalità di quella nazionale e regionale, di un centrismo stanco e sfilacciato imperniato su una Democrazia Cristiana massiva e molto divisa al suo interno. Dal 1952 al 1956, nella seconda consigliatura civica cioè, la giunta Leo è tripartita, composta da democristiani, sardisti e liberali (quattro in consiglio, uno – Angelo Caredda – nell’esecutivo); nella terza la giunta presieduta da Mario Palomba è un monocolore dc e i quattro liberali – ancora Gustavo Carboni Boy, ancora Francesco Cocco Ortu, ancora Raffaele Sanna Randaccio e Mario Tufani già qualunquista e già assessore – si collocano rigorosamente all’opposizione, lasciando alle destre missina e monarchica l’appoggio dell’esecutivo.
Qui dovrò dar spazio soltanto agli argomenti di Antonio Romagnino, anzi – per brevità – soltanto ad alcuni.
I perché di un disagio e di una disaffezione
L’insuccesso personale registrato alle amministrative del 1956 e la sua replica (a leggerlo secondo speciali codici valutativi) alle regionali dell’anno successivo portano il professore a ripensare se quello del PLI sia davvero il luogo nel quale egli possa esprimere al meglio quanto sente politicamente. La rinuncia alla candidatura di esponenti come Sanna Randaccio (presidente della Carbosarda e in predicato di un seggio senatoriale concordato con i democristiani, dopo già essersi proposto in quel mix nel 1953) e Carboni Boy (consigliere comunale nel 1952 e nel 1956, consigliere e assessore provinciale e anche presidente della Provincia), forti anche involontariamente, avrebbe dovuto favorire l’emersione delle potenzialità finora troppo costrette di un segretario provinciale abile ma incapace – come potrebbe essere per un libero professionista o un funzionario pubblico – di creare o alimentare clientele e quindi consenso venale.
L’elezione scontata e per la terza volta, coprendo il solo quorum da mettere nei pronostici del collegio, del consigliere Felice Medda avrebbe però tarpato ogni speranza di successo di un qualsiasi altro candidato della lista; solo rimedio, l’accettazione da parte del rieletto – alla cui candidatura il PLI non avrebbe potuto rinunciare per la consistenza del seguito clientelare di quest’ultimo – di un avvicendamento, immediato o a metà legislatura, con il primo dei non eletti.
Con il supporto promesso di Cocco Ortu, dunque, Romagnino avrebbe potuto credibilmente piazzarsi nella posizione giusta per subentrare, magari nel 1958 o nel 1959, all’eletto certo. Ma quel supporto mancò.
Io credo che lo spirito di lealtà connaturato in Francesco Cocco Ortu, la perfetta disciplina morale che ne improntava ogni scelta e presiedeva alla parola data e sempre mantenuta, inducano a non credere possibile una voluta inadempienza. Dall’altra parte, sembrerebbe credibile che Romagnino avesse tratto, dalle conversazioni con il leader del partito, piena convinzione di una promessa da intendersi come riconoscimento non soltanto di un valore da spendere, da parte del PLI, nella rappresentanza elettorale regionale, peraltro anche favorendo un processo di ricambio generazionale necessario per il buon futuro della compagine, ma anche del lavoro svolto dal segretario provinciale nella migliore organizzazione territoriale, con l’apertura di sezioni, rinforzo delle preesistenti, alimento della discussione politica su questioni generali e d’interesse locale.
Si trattò dunque di un equivoco fra Cocco Ortu e Romagnino per il quale, peraltro, esistevano da tempo, e purtroppo in continuo accrescimento, tutte le condizioni.
Senonché Romagnino risultò sì, nonostante tutto, primo dei non eletti nel collegio cagliaritano, con quasi quattromila preferenze, ma Felice Medda mancò di affermare la propria disponibilità a lasciare il seggio. E dunque, dopo esser venuto meno al segretario provinciale (pur provvisoriamente, per la contingenza della gara, autosospeso) il sostegno preferenziale di Cocco Ortu, venne meno per lui anche la prospettiva di un balzo decisivo nel ruolo di rappresentanza istituzionale cui legittimamente ambiva. E di più: entrava in affannata rielaborazione la sequenza di incomprensioni e forse anche di… educate sgarberie subite nelle lunghe settimane di predisposizione della lista e ricerca del consenso elettorale nelle diverse zone della provincia.
Si sa, si presentano puntualmente, nelle campagne elettorali competitive, motivi e situazioni di concorrenza anche esasperata fra i candidati dello stesso partito, impegnati spesse volte più per se stessi, per il proprio successo, che non per quello della la lista, s’affacciano insomma quei traffici ineleganti destinati – perché infine di tutto si saprà – a scavare diffidenze, a costruire inimicizie perfino personali.
Fu quel che accadde anche in quella tarda primavera del 1957, e Romagnino – stanco per le energie profuse a pro della causa e, all’apparenza, neppure riconosciute – lo rilevò nella lunga lettera del 2 gennaio 1958 a Cocco Ortu: «Fui accusato – scrive – di fare pochi comizi. A parte il fatto che i comizi erano visibilmente passati di moda e che poteva essere legittima la mia riluttanza a parlare a piazze vuote, era vivo in me il ricordo dell’esperienza del 53, quando con oltre cinquanta comizi […] ero finito quarto nell’ordine delle preferenze. Dovendo esclusivamente contare sul partito, senza forti parentele, amicizie, associazioni, che mi sostenessero, insistetti sulle visite ai nostri associati, ed anche questo fu severamente giudicato, come se agli altri candidati non fosse stata offerta la stessa possibilità, fornendoli di tutti i dati sulla nostra organizzazione in Provincia».
Idealista, Romagnino era anche, l’ho detto, un pragmatico: quando serviva era un pragmatico, un concretista in quanto agli strumenti più utili a raggiungere l’obiettivo. Nel caso elettorale, ritenendo di portare alla causa liberale un soffio di cultura moderna e avanzata, progressista, e consapevole della esperienza maturata tanto più nella segreteria provinciale, a contatto con molte e differenziate realtà sociali diffuse sul territorio, considerò se stesso un potenziale che il Partito Liberale Italiano avrebbe dovuto, non soltanto accogliere, ma favorire nella sua traduzione effettiva: insomma nella conquista di un seggio della rappresentanza regionale. Per il che, dati i limiti strutturali circa il quorum di collegio che più di un eletto non concedevano, ritenne che la via del successo potesse essere nel tandem con il candidato più forte – e nello specifico il consigliere uscente Felice Medda – anche perché così era stato nel 1953: Medda primo, il suo associato Carboni Boy secondo (e cioè primo dei non eletti).
Questo era l’obiettivo e questo era il modo. In caso contrario, sarebbe riuscito primo dei non eletti (e potenziale subentrante all’eletto titolare del quorum) un esponente certamente di valore, ma anche prigioniero di una cultura liberale ritenuta non di piena limpidezza, dati i trascorsi qualunquisti e la fedeltà monarchica.
Ricordò il proprio impegno nella campagna elettorale: «Chiesi di parlare a Cagliari ed a Oristano e ne ebbi in un primo tempo un rifiuto. Quando infine mi fu concesso (e solo ad Oristano, a Cagliari nel frattempo non c’erano più piazze disponibili) l’atmosfera avvelenata che si era creata, mi aveva tolto ogni serenità perché potessi affrontare comizi così impegnativi. Fui anche aspramente giudicato perché avevo chiesto al Segretario Generale di far menzione della mia opera nel suo comizio di piazza Jenne. Anche qui un minimo di obiettività avrebbe potuto svuotare la cosa: infatti a parte il fatto che egli lo aveva già fatto spontaneamente nel discorso tenuto all’assemblea della sezione di Cagliari nella sede della LAUC, c’era un precedente recentissimo rappresentato dalla indicazione precisa data da Cocco Ortu all’elettorato cagliaritano nel comizio di Piazza Costituzione, ricordando i meriti e le capacità di Carboni, in occasione delle Amministrative del 56.
«Infine l’intervista al giornale (che ritenevo e ritengo dovesse essere affidata a me o a Medda e non a Cocco Ortu) poté essere pubblicata tra difficoltà e contrattempi di ogni genere, suscitando un nuovo coro di accuse e di risentimenti».
Le valutazioni postelettorali in sede di direzione provinciale, e le opinioni espresse da Cocco Ortu – eterno dominus riconosciuto per autorevolezza – in incontri privati con lui, indussero in Romagnino la convinzione che permanesse nei suoi propri confronti una ostilità inaccettabile, forse preconcetta. Un articolo de L’Unità – nella pagina sarda del quotidiano comunista molto diffuso nell’Isola – parve confermare tale sensazione. Rivelando lo stato effettivo del partito o la sua opinione prevalente, esso riferiva che il voto del consigliere liberale alla seconda giunta Brotzu di imminente presentazione, “sdraiata a destra” come la precedente (cioè monocolore democristiana appoggiata da monarchici e missini), rischiava di essere determinato da convenienze personali dell’on. Medda. Questi, infatti, funzionario dell’Istituto Agrario, già in passato aveva rischiato una rappresaglia democristiana (col trasferimento d’ufficio in Calabria, soltanto in extremis evitato), per il voto contrario dato nel 1955 al primo esecutivo presieduto dallo stesso Brotzu. Stavolta, riaffacciatasi la stessa situazione, l’ipotesi delle dimissioni di Medda dal seggio consiliare veniva valutata appunto ai fini di evitare che la conferma di ostilità a quell’inviso quadro politico si traducesse in ritorsioni professionali in suo danno. Senonché, ad opporsi a tale imbarazzata via d’uscita, si sarebbe pronunciata una parte rilevante del PLI, ostile al subentro del «secondo candidato più votato, ma non gradito». Romagnino cioè.
Alle dimissioni dalla segreteria provinciale successive alle risultanze elettorali aveva fatto seguito un iniziale ripensamento, con un’intenzione curativa di un PLI rivelatosi in grave crisi, ma poi nuovamente il desiderio di uscire da equivoci e imbarazzi s’era tradotto in una nuova lettera alla direzione provinciale – riunitasi apposta per discuterne il 28 dicembre – con la rinuncia definitiva a proseguire nel mandato. «Mi offendeva e mi offende – scrive ancora Romagnino – la pervicace ostinazione del partito a rifiutarmi un equanime giudizio, espressa una volta da Sanna Randaccio, che volle ricordarmi nella seduta della Direzione all’indomani delle elezioni, che il PLI non è il PCI che regola rigidamente le elezioni, e più volte da Cocco Ortu che considerò post rem inaccettabili “le mie pretese di aver il piatto servito”. Ebbene tutta la storia del nostro partito in Provincia è piena di “piatti serviti”, che non sollevarono nessun scalpore perché destinati ad uomini che tutti stimavano e che avevano servito con fedeltà il partito…».
Il secondo quoziente, che era comunque una illusione, fu lungi dall’esser raggiunto per questioni varie attinenti alla vita e alla vitalità del PLI provinciale. Tutto doveva giocarsi nell’avvicendamento fra l’eletto (ormai al terzo mandato) e il primo dei non eletti.
Riassumo, traendo dalle osservazioni critiche dello stesso Romagnino, che aiutano ad entrare nell’ordinario quotidiano, e anche nello straordinario, della vita del PLI provinciale (e danno altresì una idea delle dinamiche interne ad una qualsiasi formazione partitica, tanto più dello standing dei liberali): «La campagna elettorale non fu adeguatamente preparata». Male funzionò anche l’ufficio “assistenza” del partito di cui lo stesso professore s’era occupato: lavoro che «mi ha distratto dall’azione politica vera e propria, che è stata certamente debole e frammentaria».
Inadeguata apparve, in generale, l’attività del gruppo consiliare al Comune di Cagliari, per la scarsa presenza soprattutto di Sanna Randaccio e per le rare iniziative fra interrogazioni e proposte «che – scrive – interessassero l’elettorato anonimo che aspettava tante volte la nostra voce e sul quale era possibile una nostra espansione da realizzarsi gradatamente nel tempo, e non come ogni volta ingenuamente crediamo, con l’esagerata scorribanda dell’ultimo mese».
Piuttosto debole fu l’appoggio della segreteria nazionale, così per i mezzi finanziari come per «numero di oratori qualificati». «Sfuggì – scrive ancora – l’importanza della consultazione, che era una grande prova di assaggio prima delle elezioni politiche del 58. Malagodi fece una campagna di tre ore […] solo battuto da Sanna Randaccio che parlò per quaranta minuti a Villacidro e per dieci minuti a Cagliari».
Ancora, e più sostanzialmente sul piano politico: «Mancammo di una seria linea politica. Poteva avere una certa [?] la condizione nuova di oppositori anche se troppo fresca ed esautorata dai noti trascorsi, ma tutti i giornali in quei giorni riportavano le lamentazioni che Malagodi levava per le intenzioni della DC di lasciarci fuori del Governo,
«La nostra posizione rispetto all’Istituto autonomistico era d’altra parte equivoca (e tale è rimasta). Fummo facilmente allineati dai nostri avversari alle formazioni contrarie all’autonomia, la qualcosa ci danneggiò elettoralisticamente non solo perché l’autonomia è ormai un dato acquisito alla vita politica della Sardegna e vane riescono le nostre residue querimonie, ma anche perché, checché se ne dica, per la congiunta opera del PSI, del PCI, della DC e del PSd’Az, la convinzione della necessità per la rinascita della Sardegna di un’autonomia sempre più larga è entrata nella coscienza dei Sardi, a qualunque strato sociale appartengano, e le nostre riserve e perplessità non hanno quindi presa alcuna e risultano stonate. Questo era d’altronde un postumo effetto di quella sbagliata impostazione della campagna elettorale del 1949 […] quando con Cocco Ortu fummo (ed io fra i primi) fragorosamente in tutte le piazze dell’Isola contro l’istituto nascente laddove qualche mese prima alla Consulta con Sanna Randaccio avevamo contribuito (e non in piccola parte) alla stesura dello Statuto. Ed anche quello fu un penoso episodio delle divisioni e delle lotte di fazione che fin da allora travagliavano il nostro partito».
Aggiunge ulteriormente: «Facemmo un buon convegno di studi […] e, a parte il fatto che non lo propagandammo adeguatamente […], non ne sapemmo cavare un agile programma che potesse essere letto e capito nel caldo Giugno della stagione elettorale. Investimmo invece i Sardi (24% di analfabeti) di quintali di preziosa, dotta ed inutile carta stampata.
«Commettemmo l’errore […] di presentarci alle elezioni Comunali di Iglesias, il cui risultato disastroso accese una certa sfiducia nei nostri confronti, proprio alla vigilia delle elezioni Regionali. (Anche in questa occasione ci venne a mancare l’assistenza della Segreteria Generale, a cui sfuggì l’importanza di quelle elezioni che si tenevano in una città di 25.000 abitanti e nel centro industriale più importante dell’Isola e dove inutilmente avevo chiesto tempestivamente che venissero inviati oratori qualificati fra i quali avevo specificato dovesse essere compreso l’On. Cortese Ministro dell’Industria per l’importanza che avrebbe avuto un suo discorso alle maestranze e ai dirigenti delle più importanti Società Minerarie concentrate n quella zona).
«Non ricavammo nessun vantaggio elettorale dalla presenza di Sanna Randaccio alla Carbosarda, in quanto il suo atteggiamento, che fa onore all’uomo ma non al politico, nelle questioni lecite prospettategli fu quasi sempre negativo. Così prendemmo a Carbonia alle Regionali il più basso numero di voti che si sia ottenuto dal 1946 ad oggi.
«L’operazione agricoltori fu un fallimento. L’opuscolo di Cocco Ortu sui patti agrari, ottimo per l’Emilia e la Toscana, era arabo per i nostri agricoltori. Comunque fu sbagliata la tempestività della spedizione: mancò il tempo perché chi non capiva (ed erano i più) se lo facesse spiegare. Essa cadde inoltre nel vuoto, che noi avevamo creato con il nostro prolungato silenzio, non organizzando un convegno, non facendo sentire la nostra presenza nelle organizzazioni di categoria, non propagandando adeguatamente la legislazione regionale in materia di agricoltura che pur era in gran parte merito del nostro rappresentante».
Il j’accuse di Romagnino alla dirigenza del suo partito è molto articolato, investendo numerose materie e numerose circostanze di fatto, e non manca in esso neppure un riferimento sobriamente anticlericale, coerente al suo professato antidemocristianismo. Scrive fra l’altro:
«Certo non era e non è facile risalire dal fondo di sfiducia che nutrivano e nutrono nei nostri confronti gli agricoltori della Sardegna in cui è vivo il ricordo (e non solo in loro, ma in tutti coloro che furono dolorosamente commossi dall’offensivo sperpero del pubblico denaro di cui il soggetto in questione si fece artefice) dell’opera compiuta dal Dott. …, già Segretario Provinciale del PLI che, chiamato fortunosamente a guidare come Direttore Generale l’Ente di Riforma, fu (strano destino dei Liberali saliti in alto loco) non solo ferocemente fiscale nell’applicazione della legge regolamentante gli scorpori, ma dissipò, non offrendo certo di esemplare modello di severa amministrazione quale noi la intendiamo, milioni e milioni in una serie di pazzesche iniziative ed infine fece ridere tutti i liberali illuminati di Sardegna riempendo di madonnine votive tutta l’Isola e guidando zelantemente un pellegrinaggio di assegnatari e di Vescovi Sardi presso il Santo Padre».
L’abbandono delle strutture periferiche da parte della dirigenza nazionale (e dei parlamentari) fu uno degli elementi che con maggiore insistenza veniva rilevato da Romagnino fra le cause di frustrazione della militanza territoriale dove pure si erano allestite sedi forse sovradimensionate e comunque costose. «Semmai su di me ricade la responsabilità – egli soggiunge – la responsabilità dei rapporti mancati col Presidente Provinciale, attenuata peraltro dalla mancanza di quei collegamenti che sarebbero potuti essere assicurati dagli organi burocratici se questi fossero mai esistiti». Debole l’azione della Gioventù Liberale, in capo a Mattana, ma anche abbandonata da Mattana quando questi era stato assunto nella direzione provinciale. E più ancora, forse, mancò «un’opera di pacificazione interna e non si è compiuto il ricupero di tanti elementi preziosi che hanno lasciato in tempi diversi e che noi, con grande disinvoltura, quasi che abbondassimo di uomini, abbiam lasciato che se ne andassero». «Errori, incomprensioni e ingratitudini hanno fatto vittime e si sono così allontanate personalità come Rita Carboni, Guido Martis, Nunzio Massidda, Giuseppe Mazia, Angelo Abis, Angelo Caredda stesso, già vice sindaco, e ancora Vincenzo Caredda, Ugo Loi, Marco Trudu, Renato Piras, Pietro Boi, Antonietta Zorcolo, Enrico Zanda, gli avvocati Germanetti e Oliveti…».
E più oltre o in conclusione: «E’ mancata una costante denuncia delle sopraffazioni, dei favoritismi scandalosi, delle beneficenze a scopi elettorali, praticati, in sempre più larga misura, soprattutto nel campo dell’Amministrazione regionale, dal partito di maggioranza. Non solo si dovevano denunciare, come fu fatto al Convegno di Studi Sardi, le gravi dissipazioni del pubblico denaro, operate con le onerose operazioni di salvataggio compiute della Regione di organismi economici in fallimento, ma con un’opera instancabile di denuncie pubbliche e puntuali si doveva anche clamorosamente rivelare tutta quella serie di corruzioni minori attraverso premi, donativi, impieghi, contributi ecc. che hanno fatto della Regione una scandalosa macchina elettorale, a cui guardano con disgusto ed orrore i cittadini più seri. Questi hanno espresso il loro malcontento nei confronti della DC votando in massa per i partiti di estrema destra (pur non condividendone le istanze ideologiche), proprio per la mancanza di una nostra assidua azione moralizzatrice. Ed ancora oggi, mancando questa nostra libera voce che raccolga l’ondata di rivolta ideale a tanti soprusi, la postuma autonomia del nostro partito è destinata a non trovare alcun consenso in quei veti piccolo borghesi della città e della provincia, tra cui si agitano più vigorosi fermenti di ostilità nei confronti della DC. E così accadrà (ed è facile profezia) che della crisi che pure travaglia quei partiti nessun vantaggio verrà al PLI e nessun voto di quei partiti verrà a rialzare le nostre deboli forze, con buona pace di chi, condannando giustamente quella confluenza da realizzarsi ai vertici, la auspicava spontanea e naturale alla base».
Si capisce: la delusione personale per il post-elezioni esaspera le riflessioni critiche del segretario provinciale in partenza, marca la gravità soggettiva – come egli la sente – delle altrui inadempienze o non corrispondenze. La rinuncia agli incarichi direttivi, non ancora anche alla militanza, è annunciata dal Nostro, appunto con la lettera-dossier del 2 gennaio 1958, accompagnandola con una esplicita dichiarazione delle intenzioni che s’aggiungono e compendiano la severa analisi compiuta. Ecco l’intenzione: «giovare a coloro che reggeranno il partito nei prossimi anni, con un esame spregiudicato delle nostre vicende (che forse abbiamo evitato, confondendo spesso i rapporti di amicizia esistenti fra di noi, con i rapporti più liberi che dovrebbero stabilirsi fra gli appartenenti ad un partito politico), che incoraggi quella democrazia interna che ci è spesso mancata, e di giovare anche a me, a cui dodici anni di attività hanno pure offerto il dono prezioso di tanti contatti umani e di tante esperienze».
A questa lettera, data anche la risposta ritenuta dall’interessato non soddisfacente, il professore faceva seguito con un’altra il mese dopo, esattamente il 7 febbraio, annunciando le proprie dimissioni dal partito. Riunitasi il 14 febbraio sotto la presidenza di Gustavo Piga Carboni, la direzione provinciale alla unanimità accoglieva la decisione comunicata, contestandone peraltro la giustificazione là dove i riferimenti erano alla condotta politica del partito ritenuta tutt’altro che prona alla DC, come invece obiettato da Romagnino, così alla Regione come al Comune di Cagliari, essendo quello liberale un voto contrario agli esecutivi democristiani appoggiati dalle destre, e motivando la partecipazione alle giunte provinciali con «preoccupazioni di democratici, comuni agli altri partiti democratici».
Si chiudeva così, dopo dodici anni, la militanza liberale di Antonio Romagnino che in vario modo aveva manifestato, ed avrebbe ancora manifestato fuori della politica, una prossimità maggiore al liberalismo progressista, alternativo al potere o strapotere democristiano. Probabilmente le sue simpatie maggiori si orientarono all’area radicale – nata dalla scissione della sinistra liberale nel 1955 – e agli amici del Mondo, il settimanale diretto da Mario Pannunzio, che verso la fine degli anni ’50, in vista del centro-sinistra, cioè dell’alleanza riformatrice che avrebbe associato il Partito Socialista alla maggioranza di governo (e relegato il Partito Liberale all’opposizione), organizzarono – appunto come “amici del Mondo” – una serie di convegni tematici contro i monopoli, per la laicità dello Stato tanto più nella scuola, per una politica delle fonti energetiche e delle aree fabbricabili preservate dalla speculazione edilizia ecc. Oltre che al Mondo le sue letture e i suoi interessi si orientarono, in quanto alla politica, a riviste come Nord e Sud, fondata a Napoli da Francesco Compagna, meridionalista già esponente della sinistra liberale e poi radicale, che sarebbe passato in perfetta sequenza ideale ai repubblicani di Ugo La Malfa, e con loro eletto in parlamento e promosso più volte ministro e sottosegretario alla presidenza al tempo della premiership di Giovanni Spadolini.
Qui finisce la banda temporale concessami per biografare Antonio Romagnino giovane intellettuale e giovane esponente politico. Il resto sarà, in parte almeno, una conseguenza diretta della semina di quel primo decennio successivo al secondo conflitto mondiale ed alla prigionia americana. In parte – mi riferisco alla vicenda elettorale del 1979 – sarà un episodio sì nuovo o nuovissimo e inaspettato nella militanza civile del nostro professore, ma anche, per converso, l’espressione di una certa e matura e ammirevole coerenza del suo sé profondo per il come giustificò le premesse della scelta, o la scelta tout court di cui si assunse la responsabilità, e per il come spiegò gli effetti della ingenerosità incontrata, tanto imprevista quanto crudele.
La scomparsa di Cocco Ortu, nel 1969
Dai tempi della gara elettorale del 1957 e delle successive dimissioni dagli organi dirigenti e dalla stessa militanza nel PLI, per due lunghi decenni Antonio Romagnino non prende alcuna altra tessera di partito e manifesta apertamente una propensione civica nel giudizio politico, pur se sullo sfondo rimangono inalterate le opzioni liberaldemocratiche e progressiste segnate da un maturo europeismo che s’esprime anche nella adesione all’associazione dei professori europeisti. Associazione con la quale organizza, d’intesa con il ministero dell’Istruzione Pubblica, l’annuale giornata scolastica dell’Europa, sostenendo un’abile presidenza della commissione interscolastica.
Nel 1969 perde un amico come Francesco Cocco Ortu, al momento nuovamente deputato alla Camera. Da lui si è allontanato sul piano politico, ma di lui ha conservato intatta la stima. Ne scriverà molte volte, e ripensando alla sua scomparsa e alla sua storia politica ed ora anche al lutto cittadino osserverà:
«Aveva un sentimento forte dello Stato, dal quale doveva essere tenuto lontano qualsiasi spirito di fazione. Era convinto che lo Stato dovesse essere sostenuto dalla continua ricerca del generale e non del particolare, che esso non riuscisse a sopravvivere laddove si identificava con i partiti.
«Era sensibilissimo al costume morale del Paese e combatté tenacemente, prima che la guerra si concludesse e appena dopo, quando irruppero violenze di ogni sorta, contro il fanatismo e l’irrazionalismo. Così fu contrario alle richieste eccessive da parte del CNL e gli attribuiva soltanto, fino alle elezioni, una funzione di coordinamento e di consultazione. Anche se era poi difficile guadagnarsi la popolarità, esprimendo la sua approvazione a Bonomi che aveva presentato le dimissioni non al CNL ma al Luogotenente, che per Cocco Ortu rappresentava la continuità fino al referendum su repubblica o monarchia».
E ancora: «Lo sciagurato spirito di fazione, come egli lo chiamava, fu il bersaglio continuato dei suoi articoli: l’intolleranza per le altrui idee, la sopraffazione, il delitto politico, le violenze diffuse. Indubbiamente i comunisti erano i suoi avversari, ma la polemica più accesa non fu con Togliatti, ma soprattutto con Nenni. Gli sembrava che il socialismo, questo frutto delle grandi idee del secolo XIX, avesse tralignato, che Nenni accettando il blocco del popolo con i comunisti avesse tolto alla libertà e alla democrazia una forza importante, che avrebbe potuto essere di valida opposizione alla Democrazia Cristiana di quegli anni. D’altra parte il suo sentimento della libertà e l’occhio con cui guardava alle cose d’Italia degli anni ’45-60 risentivano della lunga meditazione sulla libertà del secolo XIX».
Concludendo, in Diario americano, annotava: «Francesco Cocco Ortu era passato nella vita di Stefano come una bandiera di ideali che non è stata mai ammainata. E proprio questo insegnamento, che ne ha fatto un maestro, ha avuto un’influenza in tutti coloro che hanno sperato nella politica sarda di quel periodo. Questo combattente, infine, quando era nel pieno della lotta politica fu morso in un giorno crudele da un drago. Dal drago che morse quel poeta, tra i più alti del suo tempo, che è stato il padre David Maria Turoldo […]. Stefano credette, quel giorno che tanti cittadini diversi, per ceto e per convinzioni si affollarono attorno a quel combattente che era caduto, lo sentissero soprattutto cristiano. Profondamente dentro quel cristianesimo che Croce ci aveva ricordato appartenente a tutti noi, perché sostanza della nostra storia giudaico-cristiana.
«Quella sera, appena si diffuse per tutta la città la notizia della sua morte, subito fino al colmo de sa ruga ‘e monti, per poi proseguire nei giorni successivi fino al salone del Comune dove la salma fu esposta, incominciò il pellegrinaggio sempre più folto dei suoi concittadini. Cadeva una pioggia minuta stillata pian piano, che non diventava mai scroscio e non dava fastidio, come quella senza peso di Primavera. Anche di questa pioggia, come di quella della Sera fiesolana, il poeta avrebbe potuto dire che bruiva “tiepida e fuggitiva”. Ma in realtà quella non era una pioggia ma un pianto; un commiato lacrimoso, quello che la sua città indifferente ed apatica, scossa soltanto dai suoi furiosi venti, riserva a rare creature in cui personalizza una virtù civica o morale, una bontà straordinaria o anche solo una generosità, una abnegazione, una dimensione insomma spirituale, che non si è appartata ed è diventata familiare e domestica».
Cocco Ortu fu una ricchezza morale, oltreché professionale e civica, di Cagliari forse non ancora del tutto esplorata dagli storici, ed ahimè una ricchezza totalmente ignota alle giovani generazioni della città. Sovviene qui una certa riflessione critica che, volta ai tempi che furono, il professore in più occasioni esternò, anche a me consegnandola in qualche intervista. Ne traggo, dalla memoria, soltanto un flash, una riga: «Fa pensare il dramma di questa città, dove un candidato cattolico praticante, antifascista, di posizioni liberali come Francesco Cocco Ortu viene battuto alle elezioni del 1953, del ’58, riesce in quelle del ’63 ma solo grazie al collegio nazionale, era riuscito pure nel ’48 ma non alla Costituente. Ecco, fallisce tante volte lui e riesce invece Enrico Endrich. Cioè la borghesia cagliaritana – perché era lo stesso elettorato – batteva Cocco Ortu e portava in Parlamento Enrico Endrich». Ovviamente con tutto il rispetto personale per l’esponente missino che fu gerarca di una dittatura pagana e guerrafondaia.
Alle regionali del 1979
Si dà disponibile, Romagnino, a partecipare a dibattiti anche in sedi politiche, ma le responsabilità fondative e poi di presidenza di Italia Nostra e quelle, a seguire e parallele, degli Amici del libro lo trattengono sempre dall’esprimere una pur legittima partigianeria.
Si contano a centinaia, in questi anni, le occasioni offertegli di pubblici interventi, in sedi associative come in televisione, e la politica – la politica alta, più alta di quella dei partiti – c’è sempre; di lato alla parola c’è la scrittura, perché questi sono anni in cui egli collabora stabilmente con L’Unione Sarda, con cui ha allacciato rapporti dall’ottobre 1970 consegnando ogni due settimane – e così sarà per qualche anno – la recensione di un libro per la pagina letteraria curata da Gianni Filippini.
Circostanze diverse – certe battaglie civili per il rispetto ambientale di Cagliari e dell’Isola o per la valorizzazione della pluralità presente nella sua cultura remota e moderna, materia presente nell’agenda amministrativa e riflessiva della sinistra negli anni ’70 –, lo avvicinano alla fine di quel decennio al Partito Comunista Italiano, non certamente né sul piano strettamente politico berlingueriano né, ancor meno, su quello ideologico o dottrinario, ma nello sforzo che vede compiersi da parte del PCI di aprirsi alle forze vive e vitali del civismo e dell’associazionismo, agli indipendenti di razza. Da lunghi anni, in sede nazionale, il PCI ha aperto le sue liste agli indipendenti, che poi sono andati a costituire un gruppo parlamentare autonomo (i cosiddetti “indipendenti di sinistra”). Così è stato, in anni relativamente recenti, anche in Sardegna: eletto alla Camera nel 1972 il sardista Michele Columbu, quattro anni dopo al Senato il sardista Mario Melis, nel 1979 (e dopo ancora) nuovamente al Senato il giornalista Peppino Fiori.
Nel 1979 i turni elettorali sono tre e si susseguono, a giugno, a distanza di una settimana l’uno dall’altro: prima – il 10 – le politiche per il rinnovo parlamentare, quindi – il 17 – le europee, infine – il 17 – le regionali.
Per queste ultime. La lista del collegio provinciale di Cagliari è presentata, unitamente al programma, giovedì 10 maggio nella sede della Federazione regionale in via Emilia. Sono presenti tutti i candidati, Romagnino incluso.
Chi lo ha avvicinato è da rinvenirsi fra diversi della dirigenza comunista: certamente Giovanni Lai, certamente Umberto Cardia, ma non solo loro. La promessa è quella dell’impegno pieno, da parte della organizzazione-partito, di favorire il suo nome nella presentazione della lista all’elettorato fedele che si muove attorno alle sezioni.
Nel corso di qualche settimana di campagna elettorale il professore si dà pronto a partecipare, al pari degli altri candidati, a manifestazioni e dibattiti organizzati qua e là dalle varie sezioni territoriali. Così, ad esempio, è a Sanluri il 31 maggio con Francesco Macis, a Serrenti il 1° giugno con Umberto Cardia, il 15 dello stesso mese a Serramanna con Mario Costenaro…
Il primo di questi incontri elettorali, promosso dalla Federazione Giovanile Comunista Italiana, avviene a Cagliari nel tardo pomeriggio di venerdì 18 maggio. Esso si svolge all’aperto, nella piazza Galilei del quartiere di San Benedetto. Apre, con la propria musica, il gruppo Nuova generazione; dopo un’oretta di ritmi ed applausi si discute di politica. Romagnino è accompagnato da un leader già di nome: Massimo D’Alema, segretario nazionale della FGCI.
L’indomani, presso la sezione Centro del PCI, replay, senza D’Alema però. Al centro della discussione che impegna militanti e libero pubblico sono le «proposte per una politica di rinnovamento culturale della città e della regione». Il comunicato-stampa reclamizza la partecipazione di Antonio Romagnino qualificandolo, oltreché come candidato indipendente della lista comunista, come «presidente regionale di Italia Nostra».
Certamente non un incidente, ma comunque un bisogno e forse un’urgenza di chiarimento si presenta, proprio riferita a tale circostanza, e non sarà – è più che chiaro – il professore ad opporsene. Un comunicato che viene pubblicato dalla stampa il 22 maggio dice infatti più di quel che viene dal testo nudo e crudo: «Antonio Romagnino, candidato indipendente nelle liste del Pci per le prossime regionali, ha chiesto la sospensione dalla carica di presidente di Italia Nostra per il periodo elettorale. Romagnino ha motivato la richiesta – accettata dal direttivo dell’associazione che ha dato atto della correttezza dell’iniziativa – affinché la sua posizione di rappresentante di Italia Nostra non possa interferire con la sua attuale candidatura».
Le incomprensioni che circonderanno il Nostro, tanto più negli ambienti da lui frequentati – quelli della democrazia liberale lato sensu – saranno impietose, fonte di amarezza nel presente e lo saranno ancora di più dopo il voto, che negherà a lui di poter dimostrare come, nell’agibilità politica concessagli dal PCI, egli non ha rinnegato nulla del suo passato: ha utilizzato uno strumento offertogli per lavorare, nella legislazione regionale dell’istruzione e dei beni culturali e ambientali soprattutto, in coerenza al sentimento di sempre. La scelta è stata pragmatica, ma è stato ed è, sempre, l’ideale, sempre l’ideale, e con l’ideale la cultura liberale e democratica, a manovrare il pragmatismo del professore.
Il risultato delle urne sarà infatti deludente, bruciante. I comunisti, gli stessi candidati, la stessa macchina organizzativa delle sezioni, hanno soffocato, nella materialità della proposta all’elettorato, il suo nome. Il PCI raccoglie nel collegio di Cagliari 122mila voti ed elegge 11 consiglieri; le preferenze al nome di Antonio Romagnino – finito terzo dei non eletti – sono 5.040.
Per testimonianza personale
Svincolato per alcuni anni da obbedienze di partito, pur non allontanandomi mai dal sentimento repubblicano, mazziniano ed azionista, riflettei su come spendere il mio voto allorché si avvicinarono i turni elettorali della tarda primavera 1979: e pensai di sostenere, per quel che poteva contare un solo segno sulla scheda elettorale, quella candidatura che molto subbuglio stava creando in città. Ne scrissi allo stesso professore, il quale ne avrebbe riferito (anni dopo la sfortunata esperienza) in un suo libro, e intanto però ringraziava con un biglietto del 26 maggio: «Caro Gianfranco, grazie di cuore per le belle parole, per aiuto generoso, per l’acuta comprensione. Con viva cordialità».
E così avrebbe annotato in La mano sul mento. Racconti, memorie, pensieri, Cagliari, Edizioni della Torre, 2001 alle pp. 107/108:
«Ma un’altra lettera è ancora più cara, anche se, quando me la rileggeva, fino a qualche anno fa, riaprisse in Stefano una vecchia ferita, per una bocciatura elettorale subita ingiustamente, e procuratagli dai grossolani maneggi dei funzionari di partito che lo aveva candidato. E’ di Gianfranco Murtas, il valoroso studioso della storia contemporanea della Sardegna ed è datata 18 maggio 1979, e indica un ventaglio di orientamenti nella scelta dei candidati da votare, che rivela uno spirito liberissimo. “Alle elezioni per il Consiglio Regionale voterò il suo nome, e perciò il partito che saggiamente le ha offerto la candidatura come indipendente. Mi sono convinto dell’onestà morale ed intellettuale alla base della sua decisione semplicemente rilevando che il suo articolo su Ciccio Cocco Ortu, apparso sull’Unione nel decimo anniversario della morte – articolo magnifico – era senz’altro successivo ai contatti avuto col PCI, relativi alla candidatura. Per il Senato voterò il dott. Peppino Fiori, alla Camera l’amico Lucio Lecis, candidato liberale; alle europee l’avv. Alberto Mario Saba, repubblicano. Spero naturalmente che i quattro votati siano anche eletti. Tutto questo per la stima che nutro nei loro confronti».
A causa proprio di quei «maneggi» di uomini senza ideali, militanti balordi ed inospitali, la candidatura cadde. E la cosa, per le particolari situazioni che l’avevano preceduta ed accompagnata, prese per molti mesi, nel diretto interessato, il colore del dramma personale. Perché si trattò, da parte del professore, di un errore di ingenuità, anzi di un doppio errore di ingenuità: credere che bastassero il riconosciuto galantomismo e la provata qualità delle idee a legittimare e meritare una promozione elettorale unicamente orientata al bene comune, e credere che il PCI sardo fosse immune dai travagli di miseria morale presenti nella generalità delle altre formazioni sulla piazza. Sicché qui soltanto l’elezione riuscita avrebbe dimostrato agli increduli, ai diffidenti del vasto e variegato fronte di provenienza del professore, amici od estimatori liberali o liberal i quali avevano considerato temeraria e scriteriata, e forse opportunistica, quella candidatura in partibus infidelium, che invece quell’affidamento era ragionato, morale e nel senso della storia. Perché facilitava l’alternativa al governo o malgoverno democristiano, equilibrando il portato e gli obiettivi propri della sinistra di classe con i contributi originali di personalità progressiste formatesi in altro ambiente ideale e valoriale. E la si sarebbe vista l’indipendenza fiera e sostanziale di Antonio Romagnino legislatore regionale, tanto più nei settori di sua maggior competenza, come la cultura o l’ambiente…
E invece quella bocciatura era intervenuta a impantanare tutto in un resistente equivoco, che confermava lui – il protagonista – in un apparente cedimento alle venali convenienze dell’ambizione e il PCI in una inaffidabilità tante volte certificata.
Qualche pur incidentale osservazione critica sull’episodio-candidatura, e anzi sul suo esito, l’avevo espressa in un articolo sul Cagliaritano (n. 6, luglio 1979) dal titolo “Sta nascendo un nuovo costume politico”. Così argomentando o proponendo: «Intanto un segno efficace della propria “diversità” (nel senso buono s’intende), il PCI potrebbe alla Regione darlo consentendo, nel corso della legislatura appena iniziata, un avvicendamento nel suo gruppo consiliare fra quei consiglieri che dovessero dimostrarsi inidonei al compito (e quanti ce n’erano nella vecchia assemblea!), con i primi candidati non eletti, fra i quali è un nome di assoluto prestigio, il prof. Antonio Romagnino, che non è stato compreso dall’elettorato e, segnatamente, dalla base comunista. Il prof. Romagnino è un liberaldemocratico che non tradisce il proprio impegno culturale e civile, e lodevole mi era sembrata l’iniziativa dei dirigenti locali comunisti di accoglierlo nelle proprie liste, assicurandogli il pieno rispetto della sua indipendenza».
Intanto, l’8 settembre dello stesso 1979 così rispondeva, il professore, ad una mia lettera che gli confermava stretta vicinanza ideale ed affettiva, dopo il voltafaccia dell’apparato comunista («Le furberie di bassa lega però hanno ormai straripato dai consueti alvei fino a contagiare un grande partito che – seppure ideologicamente ahimè ancora antioccidentale e politicamente incerto e contraddittorio – sembrava poter vantare dalla sua una grande riserva morale»):
«Caro Gianfranco, grazie ancora di cuore: non solo per quanto di lusinghiero mi hai voluto generosamente riservare, ma anche e soprattutto per l’intuizione che hai avuto della grande amarezza che ancora dolorosamente mi tormenta. E non per l’insuccesso personale (che è il prodotto di un clamoroso infortunio di un’efficienza evidentemente solo mitologica), ma per la melanconica conclusione cui l’episodio costringe: che cioè in questo disgraziato Paese non c’è posto se non per una militanza rigida e per le ideologie esasperate. Non c’è speranza alcuna invece per un liberal-democratico (come mi hai voluto gradevolmente definire) e cioè per la ricerca senza restrizioni e per la fedeltà alla ragione, che è la sola che meriti di essere considerata umana. In questa mia ora buia un po’ di consolazione mi procura il fatto che sia un giovane, che stimo molto, a suggerirmi tutto questo. Molto cordialmente».