Da Karel a Cagliari, recensione ed intervista di Michela Deriu
Paolo Fadda economista, pubblicista e scrittore nel libro da Karel a Cagliari ( ed. Carlo Delfino editore, pag. 342, anno 2013) si avventura e accompagna il lettore per i duemila anni di vita della citta’. La recensione del libro ed un’interessante intervista all’Autore della giornalista e scrittrice Michela Deriu.
La storia di Cagliari, come afferma Paolo Fadda,’ha più vuoti che pieni, dato che è rimasta per lunghi secoli socialmente e identitariamente misconosciuta, spesso mal interpretata…….ignorata dai più. E questo perché’ e ‘certo che essa abbia dovuto subire, una pluralità di fondazioni e rifondazioni che ne hanno, nel lungo succedersi dei secoli, modificato od addirittura alterato l’immagine, la forma, gli spazi, e quindi, anche l’identità.
E’ appunto una ricerca d’identicità’, vista soprattutto da una prospettiva socio economica, quella che ricerca Paolo Fadda in questa lunga storia.
Come un piacevole racconto, l’autore sorvola i diversi periodi storici di Cagliari.
Karel nasce, come afferma l’autore, come “autogrill” per i viaggiatori dell’antichità. Tappa di passaggio e non come luogo di residenza. Un luogo che rimane estraneo alla terra che lo ospitava. Sarà col tempo, che quel luogo si sarebbe trasformato in un agglomerato di case e poi, pian piano, in vera citta’ chiamata dai punici Karel.
Non mancano i riferimenti mitologici, come quella della leggenda di Karino, figlio di Aristeo che contribuiscono a rendere questa nascita della citta’ di Cagliari estremamente affascinante.
La fondazione fenicia costituisce, per l’autore, una ragione genetica nella vocazione mercantile della citta’.
Nel 238 a.C. Tiberio Gracco sbarca in Sardegna e con poco sforzo conquista l’isola.
Nel periodo romano la citta’ vive un grande splendore, come dimostrano i ritrovamenti che vanno da Bonaria in via Roma e viale Trieste.
Nel narrare la Cagliari Romana Paolo Fadda pone le basi del suo vero intento, quello di raccontare la storia della classe dirigente che ha plasmato nella forma e nella sostanza l’identità della citta.
Il pregio degli edifici romani attesta che l’establishment economico della Carales romana era formata da uomini d’affari, appaltatori, piccoli e grandi commercianti attratti dal grano e dall’argento, per lo più stranieri.
”Già’ da allora, quindi, era una città poco sarda, dato che divenne residenza di nuove comunità in gran parte di provenienza esterna.’‘ Il tema di Cagliari, estranea o quasi al resto della Sardegna, si ripropone costantemente per tutto il lungo scorrere dei secoli.
Col tramonto dell’impero romano cominciano i tempi bui: la discesa dei Vandali, il potere di Bisanzio non giovano al benessere dell’isola. Arrivano poi le scorrerie degli Arabi che rendono difficili i traffici marittimi. La citta’ si ritrae su se stessa, dobbiamo aspettare i pisani per vedere i risorgere i traffici nel porto. Questo rifiorire di attività dovuta ai pisani, conferma il destino coloniale di Cagliari, identità che viene ancor più accentuata poi dal governo spagnolo.
Cagliari, come afferma l’autore, diviene” un luogo di residenza dei dominatori esterni. Ha avuto quindi nel suo destino quello d’essere niente più che un centro di residenza per élite forestiere, atteggiandosi poi a dominatrice ed a parassita nei confronti degli altri sardi, come molti ancor oggi continuano a ricordare. Proprio perché’ sede del potere nelle diverse versioni: militare, politico, giudiziale, fiscale e religioso.
La classe dominante del periodo spagnolo, arroccata nel Castrum Karalis, era costituito prevalentemente da feudatari e cortigiani, uomini che dovevano le loro ricchezze al lavoro altrui.
Qualche piccolo mutamento avviene, lentamente, con l’arrivo dei Savoia. Il cambiamento è silenziosamente avversato dalla nobiltà feudale che preferisce lo sfarzo di Madrid alle rustiche e parche consuetudini dei Savoia.
A dire il vero i Savoia ce la misero tutta per rendersi invisi alla nobiltà sardo-sabauda escludendola dalla dignità di corte e dalla partecipazione all’esercito. I nuovi dominatori arrivarono a vietare i matrimoni misti tra sardi e piemontesi.
Mutamenti significativi nascono dopo l’unità d’Italia. Anche Cagliari è coinvolta nell’attività febbrile nel dare omogeneità al regno.
E’ proprio a questo periodo storiche che Paolo Fadda dedica maggior attenzione.
In citta’ comincia a costituirsi una società borghese”del fare” che sposta anche fisicamente il centro di potere portandola furi dalla citta’ murata. Questa classe dirigente con orgoglio sostituisce il titolo onorifico di-Don- a quella sempre più ascendente del”Dott.” e del” Comm.”.
”Si potrà quindi affermare che la citta’ moderna sia stata una invenzione della sua borghesia mercantile e che ad essa si debba la definitiva emancipazione della comunità urbana dalle costrizioni feudale’.
Il racconto prosegue tra dotte citazioni, profonde riflessioni e ricordi coloriti fino ai nostri giorni.
Un piacevolissimo e molto personale racconto dal quale emergono, a mio parere, nei diversi periodi storici, alcuni leit motiv ed interessanti riflessioni.
Cagliari viene definita spesso ”sanguisuga” rispetto al resto della Sardegna. Questo vale per tutti i periodi storici? In quale periodo questa ”caratteristica” si è più evidenziata e in quale si è attenuata?
Questa definizione, che ha secondo me una genesi più socio-politica che economica, la città se la porta dietro per aver dovuto condividere la sorte ingrata d’ogni città capitale: d’essere cioè odiata ed invidiata dagli altri sardi per via dei troppi favori e benefici di cui la si ritiene destinataria. Non diversa sorte hanno avuto, ad esempio, Roma, Parigi, Madrid o Mosca, che i russi definiscono essere la città in fondo alla discesa, nel senso che ogni ricchezza, ovunque prodotta, scivola inevitabilmente verso la loro capitale… Questa nomea – perché di questo si tratta – Cagliari se la porta dietro da cinque o sei secoli, pur con differenti accentuazioni, ed ancor oggi si parla, o si sparla, di “cagliaricentrismo” per definire la politica regionale, anche se poi i cagliaritani che siedono nei palazzi regionali siano un’esigua minoranza! Certo, per rafforzarne il senso, ha avuto un certo peso anche la vocazione “bottegaia” attribuita ai suoi abitanti, ritenuti più affaristi che filantropi, più amanti del denaro che della cultura. Lo dirà non molti anni fa, con acuta ironia, un raffinato intellettuale come il bittese Michelangelo Pira sostenendo che i cagliaritani riverissero e ossequiassero più il direttore di banca che il Rettore dell’Università o l’Arcivescovo… D’altra parte quella nomea è, per certi aspetti, figlia diretta di quell’invidia motivata dalla velocità con cui Cagliari avrebbe raggiunto uno sviluppo “europeo”. Ne avrebbe colto con efficacia le vere ragioni un politico sardo tutto d’un pezzo e di forte cultura internazionale come Velio Spano, sostenendo come Cagliari fosse «la sola grande finestra sarda spalancata sul resto del mondo; unica strada obbligata che collega la Sardegna con le grandi correnti mondiali della cultura e dell’economia; quindi la sua ‘funzione parassitaria’ è in gran parte derivante dalle stesse profonde esigenze di vita civile dell’intero popolo sardo». Cioè Cagliari, non diversamente da Mosca, si trova, più per ragioni geoportuali che politiche, in fondo alla discesa!
Dalla fine dell’Ottocento, ai primi decenni del Novecento, Cagliari vive un suo periodo magico. Dal suo racconto traspare una notevole ammirazione per quella borghesia ”del fare”, un sentimento nostalgico. Che caratteristiche aveva rispetto ad oggi quella classe dirigente?
Nel saggio sulla storia della mia città-patria ho dedicato molta attenzione a quel che avvenne nella seconda metà dell’Ottocento, con la fine dell’ancien régime aristocratico e l’avvento di una nuova élite sociale, la borghesia. Un gruppo sociale che non ha più una legittimazione ottenuta per via ereditaria o per gratificazione regale, ma la conquista attraverso la volontà di ciascuno di potersela costruire con le proprie autonome capacità. Parlo ovviamente di borghesia come classe dirigente, che va a ricoprire una funzione politica oltre che socio-economica, capace di creare movimento, mobilità sociale, sviluppo. Ed è proprio con il suo emergere che si forma la Cagliari moderna, quella che in pochi anni sopravanzerà per dimensione, per ricchezza economica prodotta e per disponibilità di servizi civili ogni altra città dell’isola, compresa la sua eterna rivale Sassari.
Ho scritto in quel mio saggio che con l’avvento della borghesia al comando della città si registrerà l’avvio di quello che mi è parso giusto definire “rinascimento cagliaritano”, e che avrà come segno distintivo la lunga sindacatura, tra il 1890 ed il 1921, di Ottone Bacaredda con i suoi amici di una “Nuova Cagliari”. Un rinascimento che avrebbe trovato nel profitto d’impresa, e non nella rendita fondiaria, nell’impegno di lavoro e non nell’ozio signorile, i suoi fundamentals per operare la modernizzazione ed il progresso della città. Mi è anche parso giusto ricercare quale fosse stato il codice comportamentale di questi emergenti borghesi, e l’ho ritrovato in quelle doti che Tocqueville indicava dovesse possedere il capitalista virtuoso: il coraggio nel rischiare, la fiducia in se stesso, la lungimiranza, la morigeratezza e, soprattutto, l’attenzione verso i problemi della società circostante. Quei borghesi avrebbero così costituito quella great generation che, lungo un secolo, più o meno dal 1850 al 1950, avrebbe fatto di Cagliari una città veramente europea. Oggi, purtroppo, mi è difficile rintracciare un’imprenditoria che abbia a cuore quei principi virtuosi, perché vedo prevalere l’interesse a poter sfruttare ogni possibile aiuto od utile provvidenza dalle diverse legislazioni, da quella regionale a quella comunitaria, anziché impegnarsi nel condurre, con coraggio e lungimiranza, imprese sane e competitive, orientate al profitto ed al mercato.
Nel saggio, Cagliari è estranea per caratteristiche sociali, economiche e culturali al resto dell’isola. È ancora molto netta la caratteristica di cagliaritanietà rispetto a quella della sarditudine?
Non mi è molto facile poter dare una risposta esaustiva a questa sua domanda. Da un punto di vista storico trovo che sia esistita molta differenza tra la cultura “urbana” e quella “paesana”, come inveratesi nelle vicende della Sardegna contemporanea. Due culture che si sarebbero a lungo divise ed anche contrapposte, provocando quel solco di disamore che divide Cagliari dagli “altri” sardi. Certo, Cagliari è stata fin dai tempi fenici un avamposto dei conquistatori d’oltremare, assai poco o niente “resistente” nei confronti di un’identità autoctona. Come molti altri centri portuali del Mediterraneo è divenuta un po’ meticcia, inserendo nella sua popolazione molte famiglie provenienti dal continente europeo. Anche la sua borghesia, per riprendere una precedente osservazione, ne conferma, con i cognomi di molti dei suoi componenti, le provenienze forestiere. Andrebbero infatti indicati come tali, ad esempio, i Devoto, i Pernis, i Thorel, i Tramer, i Signoriello, i Capra, gli Chapelle e i Doglio, che oggi fanno però parte, a buon diritto, della cagliaritanità DOC. Questo, mentre la cultura paesana alzava quello sbarramento che Giovanni Lilliu ha chiamato la “costante resistenziale” dei sardi dell’interno. Tutti rimasti in difesa dei propri cognomi con la “u” finale… Ora, per seguire la sua domanda, ritengo che questa diversità si sia molto attenuata. Nel senso che le due realtà si siano come fuse, con un’ immagine esterna caratterizzata da un imprinting molto cittadino e con una sostanza interna intrisa invece di principi molto legati alla tradizione paesana, cioè poco aperta all’innovazione. Così si diffondono ovunque, a Silì come a Tresnuraghes, gli stili di vita e i riti delle società d’oltremare e d’oltreoceano, mentre alla cultura del profitto d’impresa si è ormai sostituita quella della rendita passiva, introducendo al posto dei fondi rustici, quella delle assistenze e degli aiuti pubblici. D’altra parte Cagliari non ha più alla sua guida una borghesia produttiva, attiva ed intraprendente e va al rimorchio, ahimé!, di un’élite fatta perlopiù di mes’hominis, abbramidus e pastisseris. Dalla cultura molto paesana, cioè retrograda, fortemente chiusa e resistente al progresso.
Che qualità’ dovrebbe avere oggi la classe imprenditoriale, politica e culturale, affinché Cagliari divenga centro trainante dell’economia dell’isola?
Non è certo facile dare una risposta ad un problema di così vasta portata e che investe soprattutto la completa rifondazione dell’intera classe dirigente della città. Perché di questo si tratta. A mio parere il declino di cui oggi soffre la città, va ricondotto all’eclissi della sua borghesia. Cioè di quella che era stata, per circa un secolo, la sua élite sociale. Quella che ha avuto nei Bacaredda, negli Endrich, nei Crespellani e nei Brotzu i protagonisti emeriti di quella che è stata la fertile stagione della città. Si è trattato quindi di una grave perdita che ha colpito, con eguale intensità, la politica, l’economia, la cultura e l’intera società cittadina. In più, con il trasformarsi in “ceto medio”, come sostengono i sociologi del Censis, si è disunita, imbastardita ed infragilita, perdendo gran parte delle sue prerogative virtuose. Perché ha consentito il prevalere delle pulsioni individualistiche e dell’arrembaggio al guadagno facile e rapace. Così al gratificante “noi” del passato, si è sostituito il prevaricante “io” del presente: ed è stato un bel passo all’indietro. Non è quindi facile individuare una ricetta che possa ridare a Cagliari una classe dirigente efficiente ed efficace per il suo progresso. Anche perché sono venuti a mancare, o si sono interrotti, i canali attraverso cui, in passato, emergevano le élite: i partiti, l’università, le professioni liberali, l’imprenditoria. In particolare, si sono svuotati i vivai dove si formava la classe dirigente: le scuole di partito, le associazioni cattoliche, i sindacati datoriali, la pubblica amministrazione, ecc. ecc. In aggiunta, occorre valutare, come vincolo ancor più pesante, come alle valutazioni meritocratiche ed alle competenze maturate si siano sostituite, nei reclutamenti politici, le fedeltà da yesmen e le silenti sudditanze.
Credo quindi che occorra ritrovare, innanzitutto, il coraggio del cambiamento. Ponendo così fine ad una società politica tutta “carriera e potere” per reclutare un’élite politica che abbia invece come proprio motto “competenza e servizio”. Occorre quindi ritrovare e fare propri i valori culturali e morali che avevano fatto grandi le borghesie del passato. Comprendo che non sarà facile, ma con il coraggio della volontà si potrebbero infondere in molti dei nostri concittadini, con un adeguato bagno di cultura, quei valori perduti, come il prevalere del merito, il valore delle competenze, il primato dell’onestà. Sarà possibile? Nutro la speranza che si possa ritornare, in tempi non lunghi, a poter disporre di una classe dirigente capace di operare a favore della intera città per migliorarne la qualità della vita sociale, oltre che come luogo per esaltare le proprie capacità e competenze.