APOCALISSE E LIBERAZIONE DELLA SARDEGNA, di Federico Francioni

Placido Cherchi e la perdita della presenza – Dati e cifre sul collasso del Pianeta –  Catastrofismo o realismo? – Il contributo della rivista “Lancet” – Prendiamo in mano il nostro destino.

Placido Cherchi e la perdita della presenza. Pensare l’Apocalisse, la fine del mondo – e dunque anche della Sardegna – per l’infuriare della siccità e di molteplici emergenze ambientali, non significa necessariamente cadere nel catastrofismo, nella rassegnazione, nel fatalismo o, peggio, in un menefreghismo funzionale alle strutture dominanti dei combustibili fossili.

La fine del mondo è il titolo di un libro lasciato incompiuto dall’etnologo Ernesto De Martino che fu anche professore nell’Università di Cagliari. Sull’opera demartiniana si esercitò, com’è noto, l’acume del caro e compianto Placido Cherchi, docente, filosofo, studioso di temi filosofici, etnoantropologici ed artistico-estetici, autore, fra l’altro, di un’importante monografia su Paul Klee. Cherchi, scomparso nel 2013, è stato ricordato in un convegno molto stimolante, tenutosi a Cagliari il 26 settembre di quest’anno, promosso da un insieme di organismi (fra cui la Fondazione Sardinia, di cui Placido faceva parte) ed organizzato da  Antonello Zanda e da altri.

Il concetto demartiniano di perdita della presenza denota il rischio di un pressoché totale dissolvimento dell’identità, la prospettiva apocalittica che può incombere sulla singola persona, sui luoghi e sulle comunità tradizionali. Queste ultime rispondevano un tempo con l’attività salvifica dello sciamano, il Signore del limite (al riguardo è giusto rinviare al titolo di un altro volume di Placido): lo sciamano era incaricato di oltrepassare un varco, di affrontare gli spiriti maligni, quindi di ritornare da quella dimensione per fornire una risposta contro la minaccia che gravava sulle persone o su un’intera società. Ci sembra quasi superfluo ribadire che, nel contesto odierno, una replica alla squassante crisi economica ed ambientale, alla crescente disuguaglianza sociale non è pensabile o proponibile nei termini di una prassi dell’esorcismo. Ma, in ogni caso, quello che le culture popolari, tradizionali, compresa quella sarda, hanno il grande merito di insegnarci è che si rende indispensabile una nostra risposta sul piano innanzitutto spirituale e culturale. Occorre in primo luogo pensare  a nuove forme di coesione, di solidarietà, di sorellanza e fratellanza – fraternité è uno dei tre valori basilari della Rivoluzione francese – per approdare ad un progetto di rigenerazione morale e di liberazione.

Carestie, malattie, guerre e distruzioni hanno afflitto per secoli l’umanità; pensiamo solo, per fare qualche esempio, alla peste che nel Medioevo condusse alla tomba, fra gli altri, i giudici Mariano IV ed Eleonora d’Arborea; alla pestilenza del 1652-57 in Sardegna; alla poco conosciuta e studiata hambre y epidemia che nel 1681 fu in grado di falcidiare quasi un terzo della popolazione isolana; per non parlare dei 6.000 sassaresi, su 25.000 abitanti, scomparsi in seguito al colera del 1855, su cui Enrico Costa ci ha lasciato pagine vive, palpitanti, che ricordano almeno in parte quelle di manzoniana memoria. Nella sconfitta dell’Impero azteco giocò un ruolo essenziale  l’alterazione di rapporti ecologici determinata dai Conquistadores quali apportatori di malattie infettive (come ha sostenuto William H. McNeill in La peste nella storia). Di  fatto però non si delineava, oltre la percezione e la coscienza di allora, il rischio, che avvertiamo oggi, di un Pianeta dove ampie porzioni di continenti potrebbero diventare inabitabili nel giro di pochi decenni.

Dati e cifre sul collasso del Pianeta. Negli Stati Uniti ha suscitato un vivace dibattito l’articolo che David Wallace Wells ha pubblicato sul “New York Magazine” (riportato col titolo La fine del mondo su “Internazionale” del 29 settembre 2017). Dopo aver discusso con decine di esperti, Wallace Wells ha richiamato la nostra attenzione, in particolare, sullo scioglimento dei ghiacci che nel Mare Artico consentirebbe un’evaporazione del carbonio, sotto forma di metano, in misura 34 volte superiore all’anidride carbonica sprigionata dal riscaldamento globale. Inoltre gli scienziati sospettano che in Siberia siano intrappolati i batteri del vaiolo e della peste bubbonica: un concentrato di malattie potrebbe sciogliersi nel suolo con esiti devastanti. La crescita delle temperature permetterà alla zanzara che  provoca la malaria di riprodursi molto più rapidamente.

Inoltre l’acidificazione degli Oceani per l’assorbimento del carbonio è destinata ad uccidere intere popolazioni di pesci; per non parlare delle emergenze legate all’innalzamento del livello dei mari. Sono ben 600 milioni le persone che vivono in territori e centri abitati che sorgono a meno di 10 metri sopra il livello delle acque. Infine il World Meteorological Organization ha segnalato che la concentrazione di CO2 resterà sopra le 400 parti per milione e non subirà significativi ridimensionamenti per diverse generazioni.

Catastrofismo o realismo? Wallace Wells non può essere considerato, a ben vedere, catastrofista. Egli cita le temperature di El Salvador, del Barhein, della città di Karachi e conclude che certi paesi potrebbero ben presto diventare inabitabili nel giro di cento anni ed anche meno. Se riflettiamo però sui picchi già raggiunti dalle temperature nel 2017, dovremmo interrogarci su quante stagioni non solo estive saremo ancora in grado di sopportare a fronte di una previsione scientifica che indica un aumento costante ed implacabile delle temperature e dei connessi indici di umidità.

Il contributo della rivista “Lancet”. L’inquinamento atmosferico da smog e particolati presenti nell’aria, unitamente a quello derivante dall’uso domestico di combustibili fossili, è responsabile di 6,5 milioni di morti all’anno, dovuti in gran parte a malattie cardiovascolari e respiratorie. A sua volta l’inquinamento idrico provoca 1,8 milioni di decessi annui causati da infezioni gastrointestinali e da parassiti. A ciò si aggiungano 0,8 milioni di morti annui per tumori contratti da tossine e sostanze cancerogene presenti nei luoghi di lavoro. “Lancet” ha comunicato dati della Commission on Pollution and Health, progetto biennale che ha coinvolto 40 esperti di tutto il mondo. S’intende che non sono solo queste le cifre riportate  nell’articolo di Wallace Wells e su “Lancet”.

Prendiamo in mano il nostro destino. Da tutti questi elementi bisogna partire, non per arrenderci, ma per reagire e per lottare. Non dobbiamo supinamente inchinarci alla dimensione sovrastante della globalità, a quanto determinati scenari ci fanno intravvedere, alle cifre sopra riportate. Seguendo l’insegnamento di Antonio Simon Mossa, si rende invece indispensabile la capacità di coniugare una visione globale, cosmopolitica, con l’attenzione e la cura per i singoli luoghi. Ognuno di essi, come la singola persona umana, ha caratteri di irripetibilità, non è sostituibile, non è intercambiabile; in ultima analisi presenta un carattere che non è fuori luogo chiamare di sacralità: questo tema è emerso (con molti altri) nel seminario internazionale su “Perspectives on Environment, Social Justice and Mass-media in the Age of Anthropocene”, tenutosi nel giugno di quest’anno presso l’Università di Sassari ed organizzato anche con la collaborazione della Fondazione Sardinia. Affermare questa sacralità – secondo quanto hanno posto in risalto autorevoli studiosi, ben lontani da mitizzazioni e idolatrie – non significa assolutamente cadere nel fondamentalismo e nell’intolleranza.

Coltivare la cura dei luoghi, con il loro patrimonio di biodiversità, da considerare nell’interrelazione con la ricchezza costituita dalla pluralità di lingue e culture, rappresenta il primo, significativo, irrinunciabile passo per non cedere di fronte a problemi terrificanti. La Sardegna, in rapporto con le nazioni senza Stato dell’Europa (dalla Scozia all’Irlanda del Nord, dai Paesi Baschi alla Catalogna ed alla Corsica) può e deve impegnarsi per dare il suo contributo alla costruzione di un argine contro la deriva ed il baratro verso cui sta marciando il Pianeta. Occorre un New Deal capace di delineare una riconversione economica, produttiva, agroindustriale in chiave ecocompatibile, imperniata su un totale rigetto dei combustibili fossili, di gigantismi e monopoli, per approdare ad un sistema non “lineare”, bensì “circolare”, in grado cioè di restituire alla Terra quanto le viene tolto: è questa la prospettiva verso la quale è essenziale procedere. Ormai non si tratta più di nodi che riguardano solo scienziati, esperti, ambientalisti e “verdi”.  Come ci ha spiegato Naomi Klein in Una rivoluzione ci salverà, la vera posta in gioco è la sopravvivenza della vita sul Pianeta, su ogni territorio ormai minacciato, dunque anche sulla Sardegna. La lotta per l’autodeterminazione è inscindibile dai nodi epocali dell’ambiente. Il caro e compianto Vincenzo Migaleddu, medico radiologo ed ambientalista di cui avvertiamo acutamente la mancanza, ci aveva raccomandato una meditazione seria e profonda su Laudato si’, l’enciclica di Papa Francesco. Scienziati ed intellettuali del Terzo Mondo, come gli indiani Vandana Shiva e Amitav Ghosh (autore de La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile), per fare solo alcuni esempi, ci hanno illuminato e spronato: è giunto il momento di organizzarci, di prendere in mano il nostro destino.

 

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