A cena con Umberto Fabris e Pasquale Ceron. Due sardo-veneti emigrati, di Alberto Medda Costella
Pasquale Ceron Umberto Fabris
Umberto Fabris e Pasquale Ceron classe 1946 sono sardi. O meglio, amano definirsi sardo-veneti e non hanno alcun dubbio a rivendicarlo. Sono entrambi di Arborea. All’età di 16 anni sono partiti con la famiglia per il continente, rispettivamente per il Piemonte e la Lombardia. La loro storia può essere presa a esempio di un periodo dimenticato, poco noto. Nulla che ricordi quegli anni, una foto o una ricerca. Gran parte delle indagini storiche si sono concentrate nelle operazioni di bonifica con i suoi protagonisti, lo studio dell’architettura e, solo recentemente, qualche timido interesse per la riforma agraria. È più di un anno che cerco di incontrare qualcuno di quella diaspora. L’occasione mi è servita da una rimpatriata di leva. Oltre a noi ci sono anche Mario Bergamin e Giuseppe Costella (con la moglie Nora), che non hanno mai lasciato la Sardegna. Siamo a casa del primo. Pasquale racconta che con Bepi sono ventidue anni che sono tornati a incontrarsi, perché dall’anno in cui erano di comitato per la festa del Redentore sono riusciti a coinvolgere tutti gli arborensi, emigrati e no. E da allora hanno sempre organizzato una festa.
È il 1962 e già da qualche anno parte degli ex mezzadri della Società Bonifiche Sarde, diventati assegnatari ETFAS (l’Ente incaricato di portare avanti la riforma agraria in Sardegna), stanno abbandonando quelle terre per cui tanto hanno lottato, per emigrare nuovamente. È uno stillicidio. Solo tra il 1960 e il 1962 sono circa 80 su 264 le famiglie che fanno le valigie di cartone per le fabbriche del nordovest italiano. Con la numerosa forza lavoro che serve per mandare avanti il podere si possono ora ottenere vari stipendi mensili con ferie pagate. L’opinione più ricorrente al tempo è: “se trasferisci la forza lavoro dei campi nelle fabbriche puoi farti ricco”. Per alcuni sarà stato anche così, ma le motivazioni che portarono i Fabris e i Ceron a lasciare la Sardegna furono diverse.
La famiglia di Pasquale viveva alla strada 6 in un podere di 24 ettari, grande sì, ma argilloso e difficile da lavorare. Il suo veneto è ancora fluido, con quella tipica cadenza dei veneti di Arborea, diversa dal veneto propriamente detto. Ci confida infatti che a Cairate, il paese in provincia di Varese in cui è andato a vivere, ha continuato a parlare la lingua appresa in Sardegna. «Se ti te ciapi il dialetto che parlemo noialtri qua ad Arborea no l’è veneto veneto, perché dopo xè rivai vicentini, trevisani, veneziani, rovigotti e han fatto un dialetto unico. Infatti mi le prime volte che me xè capità de andar su io lo capivo lo stesso, ma è tutta un’altra pronuncia. Qua i ga fato un minestron». Lavorando trent’anni da saldatore per comunicare ha sempre utilizzato la lingua che conosceva, anche con i suoi colleghi di altre zone d’Italia. Ma i veneti nel Varesotto erano tantissimi. Lui stesso ha sposato una trevisana: Attilia. Il compianto Pietro Tamburin di Arborea, in un’intervista di qualche anno fa, mi raccontava che nella sola Cassano Magnago, sempre in provincia di Varese dove stanno i parenti della moglie, i veneti erano circa 10.000. Pasquale conferma e dice che anche gli arborensi non sono pochi. Ci fa persino i nomi delle famiglie di cui alcuni oramai esistono solamente nella mente dei più anziani: Andrello, Gaion, Andreotti, Atzeni…
I Ceron però arrivano a Mussolinia l’8 novembre 1939, da Falzé di Trevignano. «Là go ancora tanti parenti, ma anca qua in Sardegna, ad Arborea e Macomer». I coloni della provincia di Treviso sono arrivati tutti dopo il 1936. I Ceron peraltro non erano nuovi a spostamenti. Nei primi anni ’30 passano un periodo in Istria, a Visignano (in croato Višnjan), per poi fare nuovamente rientro in Veneto e ripartire per la Sardegna. Un incendio aveva distrutto il fienile e la loro casa costringendoli a cercare lavoro altrove. Ci spiega come ogni volta abbia dovuto, con qualche difficoltà, spiegare a chi gliene chiedeva conto come da sardo parlasse il veneto. Ora però Pasquale almeno una volta all’anno torna ad Arborea che considera casa sua.
Nel frattempo è arrivato anche Umberto che esordisce raccontandoci che ha appena incontrato Aurelio Milan, altra memoria storica di Arborea. Anche lui ha conservato la lingua dei genitori, ma con una leggera inflessione piemontese, come è normale che sia per uno che da anni vive a Valenza, in provincia di Alessandria, centro noto per la lavorazione artigianale di oggetti preziosi, oro in particolare. Lui stesso con la sua famiglia manda avanti un laboratorio. «Coi giovani parliamo in italiano, ma tra noi altri in fameja parlemo in veneto. De Arborea vissin de mi non sono tanti, più in Lombardia e intorno a Torino». Altri nomi di famiglie scomparse da Arborea, altri Gaion, Dal Lago, etc. «Mi ogni tanto ghe andavo a Varese, a Fagnano Olona, parché iero molto amico della famiglia Pin (altro casato della storia della bonifica scomparso). Solo nel ’62 sono andate via 40 famiglie da Arborea. «Iera i Zago, i Marzocchi, i Panetto, i Zaia, i Bonandin». Qualcuno è andato in avanscoperta e poi ha richiamato gli altri. «Come son rivà a Valenza, go fato subito l’orafo, son pasà dalla stalla ad adoperare l’oro». Pasquale integra raccontando che quelli andati a Torino hanno trovato occupazione alla FIAT.
Umberto è nato alla strada 20, «dove ghe sta Bepi Zago adesso», in un piccolo podere di 12 ettari. La sua famiglia è una delle prime a essere arrivate nella piana. Il 7 luglio 1929, da Campedello, frazione di Vicenza. Comprensibile come non sia stato facile lasciare la Sardegna. «Noialtri semo andai via contro volontà, parché me pare par tre volte ga provà ad aver un poder pi grando. Nel ’60 e ’61 ghi n’era za liberi. Noialtri con una fameja numerosa ghe serviva. E alora un ano fa domanda per uno e lo prende un altro. Secondo ano fa domanda e lo prende un altro. Terzo ano stessa cosa. Alora a quel punto lì a malincuore ga dito “è ora de andar”. L’ultimo xè stà la fregatura pi grossa e i lo ga dà a un con moglie e figlio. Noialtri se sistemavimo e invece i lo ga dà lì. Una scelta dall’alto». Quello che racconta Umberto era la prassi dell’epoca. La Democrazia Cristiana dei giovani turchi imperava. L’archivio ETFAS lo conferma e non è raro incontrare le raccomandazioni dell’allora semisconosciuto Francesco Cossiga che spesso si sostituiva alla parte tecnica. Gli agganci per lavorare al nord non mancavano per la famiglia Fabris. «Gavevo parenti a Milano, a Torino e nel Veneto». «Dipendea tutto da chi te gavevi già là. Te vol vegnir a Varese? Quell’altro te telefonava da Torino per dirte se volevi lavorar là. Proposte no i mancava» dice invece Pasquale.
«Mi son tornà ad Arborea solo dopo diese ani, perché gavevo desiderio e alora anca mi go fato le mie indagini. La gente me disea. Come mai Patrizio è anda vià? Mio padre era un personaggio conosciuto che era stato in comune, povero ma con dignità. Lui è andato via contro la volontà e nulla mi leva dalla testa che lu è morto de infarto per il dispiacere de lassar Arborea. No ga mai digerio il trasferimento. Lu l’ha fatto per noi altri, sacrificandosi per la famiglia e per darci un avvenire. La sua soddisfazione più grande prima di morire è stata vedere noi figli essere partiti con la nostra attività. Lu da giovane iera falegname e il lavoro artigianale ghe piasea». I Fabris infatti non arrivarono in Sardegna come agricoltori, ma come ex operai della Lanerossi. Dopo la crisi. «I nonni lavoravano lì. In fabbrica». Erano vicini di Giulio Dolcetta, primo presidente della SBS e artefice della bonifica, ed è stato lui a indicargli la Sardegna. «Pensa che i miei genitori sono la coppia che appare nel filmato dell’Istituto Luce di Raffaello Matarazzo. Venivano invitati spesso nella villa Dolcetta per la proiezione del filmato quando arrivavano ospiti importanti. Poi mangiavano con loro nei piatti di porcellana e posate d’argento. Loro erano poveri e a vedere tutto quel ben di Dio non erano abituati. Gli regalarono persino due orologi. Hanno permesso alla popolazione di rivederlo solo per il sessantesimo di fondazione. Mi informò Anna Bergamin, con cui siamo amici fraterni. Scendemmo in dieci da Torino per poterlo guardare la prima volta e portai anca me mare, mentre le mie sorelle erano state ricevute perfino in municipio per questa occasione».
Arrivati i contributi per fare stalle più grandi, anche i poderi meno redditizi hanno cominciato a far star meglio le famiglie. «Abbiamo cominciato a vedere qualche cambiamento, quando mi gavevo i bo e i Cecchetto i gaveva za i trattori. Con loro e i Mattiello spesso si lavorava insieme. Quindi quando tornavo qua andavo a salutare tutti per rispetto de me papà, che qui ga lassà un bel ricordo. Quando che andavo al baracchino di Pinna mi facevano tanta accoglienza. I Colusso, gli Spagnolli. Questo mi invogliava a tornare, tornare e tornare». Non possiamo che credergli, dato che già negli anni ottanta Umberto con la moglie Alessandra ha preso casa a Marceddì e a fine anni novanta al mare a Pistis, sempre a un tiro di schioppo da Arborea.
Finiamo la chiacchierata con Pasquale che torna con la mente al lavoro del padre con i 4 buoi maremmani e due vacche, «sensa redini, tutto a comandi con cui si arava co i voltaretti (aratro voltarecchio)… i lo ciamava. Con la doppia. Te dovevi tornare sempre sullo stesso solco. Sei bestie, fare tutto il giro e ritornare nel solco. Alora i lo girava a man. Adesso il trattore se lo gira da solo. Era dura allora. Me ricordo però anca i fattori delle vigne, Menicucci, Ferniani, parché andavimo a rubar l’uva, cussì per divertimento. Aspettavi e come il guardiano si distraeva…via!»». Mentre Umberto ci confida con un po’ di nostalgia come la notte sogna ancora i campi e il trattore. «Un podere più grande, una stalla più grande. Tutte le notti. Quando che me ndormenzo sono sempre qua ad Arborea».