Celebrato a Villacidro il centenario della morte di Bernardu de Linas, l’autore delle “Favolas”, di “Cosas de arriri” e di “Unu brutt’animali”, di Gianfranco Murtas
Nei locali di palazzo Brondo, l’antico e solenne edificio che ospitò per lungo tempo il seminario diocesano e fu anche residenza estiva dei vescovi di Ales, in Villacidro, si è svolto nei giorni scorsi – il 17 ottobre per la precisione – un incontro, organizzato dal Comune e dall’ODA, per celebrare il centenario della morte di Luigi Cadoni, poeta dialettale – ma oggi diciamo meglio poeta “in lingua sarda” – che si rivelò, nel primissimo Novecento quando uscirono a stampa i suoi lavori, il Fedro o l’Esopo sardo.
Si è trattato del decimo convegno a lui stesso dedicato nell’arco di un trentennio quasi, ultimo tributo d’onore a una memoria degna ancora di studio. Ricorderei, rapidamente, alcune delle personalità che nel tempo hanno partecipato, con propri originali interventi, all’approfondimento della conoscenza di un autore non sconosciuto certamente ma altrettanto certamente privato a lungo della meritata ribalta: Giovannino Porcu, Gianni Filippini, Salvator Angelo Spano, Neria De Giovanni, Antonio Romagnino, Giulio Cossu, Francesco Masala, Giulio Solinas, Salvatore Tola, Maria Cristina Lavinio, Nino Cannella, Francesco Casula, Giulio Angioni, Franco Fresi, Virginia Garau, Tito Orrù, Martino Contu ecc. Nel tanto, modestamente, anche io.
Nel 2009, presso il bellissimo salone parrocchiale di Santa Barbara – erano ancora i tempi del parrocato di don Giovannino Pinna – furono presentati gli atti dei primi sette convegni. Poi si è continuato. L’anno scorso è stato anche proiettato un documentario filmato, sulla Norbio dessiana e su Luigi Cadoni (Bernardu de Linas) vissuto nel breve arco di un trentaquattrennio appena, dal 1884 al 1917, pochi giorni prima di eventi storici epocali, dalla Caporetto della prima guerra mondiale alla rivoluzione bolscevica in Russia.
Dunque martedì 17 ottobre. I saluti di circostanza sono stati quelli dell’assessore Giovanni Spano e di don Angelo Pittau, padrone di casa in quanto promotore del centro culturale di “alta formazione”, che avrà sede proprio nel seminario. Da lui, con i saluti garbati e sorridenti come sempre, soprattutto gli ammonimenti o le amare considerazioni su un certo riflusso delle energie civiche che va registrandosi in Villacidro ormai da tempo, con l’invito pressante a un intervento delle buone volontà in chiave di rimedio, se possibile o per quanto possibile.
Un saluto e più d’un saluto, infine, di Efisio Cadoni. Egli è stato – bisogna dargliene atto – l’anima vera e nobile di gran parte delle manifestazioni culturali ed artistiche, comprese diverse mostre di pittura e scultura, che hanno avuto luogo, in questo ultimo mezzo secolo, a Villacidro (ed una, bellissima e… affollata, con ambizioni di permanenza, impreziosisce attualmente gli spazi bassi dei palazzo Brondo): anche di quest’ultima manifestazione egli è stato il suggeritore discreto ma tenace, non senza qualche incomprensione d’intorno.
Hanno tenuto le loro relazioni la professoressa Maria Cristina Lavinio, apprezzatissima filologa dell’università di Cagliari, il sottoscritto e il professor Giuseppe Marras, docente del liceo classico Piga e già presidente della Fondazione Dessì di Villacidro.
Da par suo, Ottavio Congiu ha intervallato le relazioni con alcune gustose letture di pagine firmate da Bernardu de Linas.
Ovviamente la relazione – in parte scritta in parte a braccio – della Lavinio ha puntato tutta sull’opera di Luigi – Gigino – Cadoni con un approccio originale, come lei stessa ha detto, facendo riferimento alla “rilettura” avvenuta ad oltre dieci anni dalla prima e pur già estesa ed approfondita “lettura” (di cui dette conto nel sesto convegno dei dieci, tenutosi in paese nel 2005), ed alla scoperta di elementi nuovi prima non colti: interessanti, da questo punto di vista, ad esempio i rimandi – nei confronti fra gli animali che popolano le pagine cadoniane (magari fra il porco sardo e il coccodrillo del Nilo) – alla realtà dell’Africa nera, rivelatori anche di una conoscenza di quei territori lontani acquisita dall’autore attraverso la corrispondenza con i familiari che lì combatterono le guerre coloniali (in particolare quella libica del 1911-1912).
Proprio attingendo anche alla corrispondenza familiare di Cadoni oltreché alla biografia del poeta, la Lavinio è entrata nel concreto delle composizioni in versi da lui stesso date alle stampe o portate in tipografia, quasi un secolo dopo!, dai suoi eredi (meglio, dal nipote e collega ideale, virtuale e più ancora virtuoso, Efisio, poeta pure egli oltre che pittore e scultore e giornalista e polemista ed altre cento cose). Ne ha trattato dal punto di vista strettamente linguistico, della scelta lessicale cioè e della costruzione metrica, e da quello delle intenzioni attribuibili a un Bernardu de Linas smanioso di affermare la sua creatività ben oltre il recinto, pur largo e dignitoso, del suo paese. Come quando ha posto in capo agli animali i caratteri degli uomini o, specularmente – nelle poesias diversas – quando ha voluto fossero proprio gli uomini, gli uomini (e le donne) dell’Eden cidrese, a mostrare, o impersonare, certe somiglianze alla natura delle bestie…
Lunga, articolata, profonda ed anche suggestiva la nuova lettura critica proposta dalla Lavinio, alcuni spunti della quale sono stati raccolti e sviluppati da Giuseppe Marras – in cattedra ormai da anni ma ancora giovanissimo, autentico enfant prodige della Villacidro moderna – che è partito da un accostamento di Cadoni alle tensioni ispirative (didascaliche, moraleggianti) dei “servi” o “servi liberati” Esopo e Fedro – l’uno, il greco, scrittore di favole in prosa, l’altro, il latino, traduttore in versi – per arrivare, con passaggi storici e sociali – quelli costituenti l’humus da cui germinò la produzione cadoniana – indovinati e paralleli fra la Norbio dessiana e paesi contermini, ma socialmente differentissimi, come Serramanna, a giudizi strettamente linguistici sulle Favolas e le altre opere. Il sardo utilizzato dal poeta – questa l’osservazione acuta di Marras – non riflette infatti la parlata popolare strettamente cidrese, ma un sardo campidanese più orientato ai maggiori territori del meridione isolano, così da far pensare che l’intento pedagogico (“una certa visione del mondo secondo le categorie della morale cattolica”) che muoveva Bernardu de Linas avesse ben altri obiettivi che non quelli limitati al paese.
Fascinosa l’ipotesi finale circa la derivazione, nella scelta dello pseudonimo con cui si firmava Gigino Cadoni, del “Bernardu” (de Linas, ma anche Mabìu), nome piuttosto raro in Sardegna. Esso potrebbe esser stato strappato nientemeno che dalla Commedia di Dante, dalla cantica del Paradiso, e da quei canti finali, in particolare, in cui San Bernardo accompagna, come in staffetta da Beatrice, il sommo poeta nelle ascensioni conclusive e più illuminanti, fra i beati dell’Empireo…
L’intervento di Giuseppe Marras è stato tutto a braccio – come una lezione in classe – e sarà forse faticoso adesso per lui metterlo su carta lasciando intatta la freschezza (deliziosa) del suo eloquio, ma gli atti del convegno sono stati promessi e quindi sarà bello tornare sul tema anche attraverso la lettura della pagina ch’egli dovrà scrivere per chi l’ha già ascoltato così come per gli assenti alla manifestazione.
La mia relazione, intermedia fra le due fondamentali, è stata accompagnata da un prospetto di oltre 130 nominativi dei titolari di attività di lavoro e produttive autonome della Villacidro di fine Ottocento e primo Novecento (dal 1878 al 1904 e flash sul 1921), con alcune rielaborazioni dai materiali acquisiti nella biblioteca della Camera di Commercio di Cagliari, sempre collaborativa. Si è voluto con esso dar conto della dimensione economico-sociale della Norbio dessiana – quella del Paese d’ombre, di Angelo Uras e delle “eccellenze” della politica e della vita comunitaria sulle rive della storica Fluminera, mostrando tutta la vivacità dell’ambiente nel quale pure crebbe e dette il meglio di sé Barnardu de Linas.
Ecco il mio testo.
Nel tempo che fu, la belle époque del Campidano
Oltre a cento altri, grande merito di Giuseppe Dessì – ché a lui sempre ritorniamo – è stato quello di aver donato a noi le suggestioni del passaggio fra Ottocento e Novecento – le suggestioni della nostra modesta ma effettiva belle époque modernizzatrice, giusto il tempo di vita di Gigino Cadoni – ponendo in capo ad alcune eccellenze nominative, che sempre richiamiamo, la rappresentazione di una eccellenza che è stata per davvero collettiva.
Vorrei con questa breve relazione, accompagnata (se possibile) da qualche proiezione, e con una premessa necessaria, dar conto, seppure soltanto d’insieme, di questa eccellenza nostra, o dei nostri avi, che anche così onoriamo.
Non manco mai, visitando il camposanto monumentale di Bonaria, di andare a trovare, e con loro corrispondere, il professore senatore Antioco Loru ed il professore Giuseppe Todde, l’uno nel riposo della (purtroppo decadente) cappella Carboni Boi, l’altro nel vano a terra del solenne monumento del Sartorio. (E a proposito del professor Todde, ho bisogno dell’aiuto dei cidresi e dell’Amministrazione per il successo di una vertenza che da dieci anni ho con il Municipio di Cagliari, il quale più di mezzo secolo fa intitolò a lui una strada –nelle prossimità di piazza Giovanni XXIII – attribuendo però al professore il nome di Francesco invece che di Giuseppe. Nonostante i dossier che pure ho prodotto e consegnato agli uffici e copiosa corrispondenza e insistenza, l’errore non è stato riparato, e lo si potrebbe senza nessun effetto avverso).
Dicevo: onoro quelle memorie un po’ cidresi un po’ cagliaritane, ché tali furono i due rettori dell’università e consiglieri provinciali – quando la Provincia contava molto –, come consigliere fu anche l’amato nostro Giuseppe Fulgheri, mentre il senatore Loru fu addirittura anche sindaco del capoluogo (prima dell’unità d’Italia) e il professor Todde cofondatore e presidente della cagliaritana Banca Popolare Cooperativa (sede nella via Manno);
e tale – un po’ cidrese un po’ cagliaritano – fu pure l’avvocato Antioco Cadoni, addirittura eletto (seppure non insediato) deputato a Montecitorio nel 1876 e membro della loggia Vittoria, la prima fra quelle impiantate nel capoluogo, lui “le frère terrible” della ritualità massonica nel Tempio di palazzo Villamarina, di fianco alla cattedrale di Santa Maria, e già redattore della “Gazzetta Popolare” e poi del “Corriere di Sardegna”, organo paramassonico appunto;
e anche – cidrese ma un po’ anche cagliaritano – fu l’Ignazio Cogotti dei gustosi sonetti di scene cittadine messi su carta negli anni della residenza di studio nel capoluogo, e il Cogotti della tesi di laurea su “Lo stato d’assedio” discussa con il professor Bacaredda sindaco per trent’anni di Cagliari.
Le eccellenze, ho detto: né naturalmente sarebbero soltanto queste, ma moltiplicate almeno per dieci. Lo stesso Dessì rappresentò egli una eccellenza che avrebbe costruito il futuro nell’inoltro del secolo nuovo: era nato a Cagliari nell’agosto del 1909 ed era cresciuto un po’ in paese a casa dei nonni e un po’ in città, nel palazzotto che avrebbe visto di lì a poco la bella cerimonia dello scoprimento del monumento a Giordano Bruno, abbrustolito vivo dall’Inquisizione romana, e davanti a cui, passando per raggiungere il seminario o il duomo, i monsignori tremavano per la cattiva coscienza della Chiesa e le vecchiette del popolo si segnavano, scambiando l’eretico per un santo.
E a proposito di ecclesiastici mi viene facile anche riproporre per flash altre due figure che proprio nel passaggio fra Ottocento e Novecento ebbero presenza nel territorio legandolo, per la parte d’ufficio e per il proprio vissuto personale, a Cagliari: i vescovi Palmerio Garau, già decano del capitolo metropolitano di Cagliari, in diocesi ad Ales dal 1893 al 1906, cioè fino alla sua morte; e Francesco Emanuelli, già preside del seminario tridentino di Cagliari – che aveva sede dove oggi è la Biblioteca universitaria –, in diocesi dal 1910; e si consideri che i quattro anni di vacanza furono coperti, in quanto amministratore apostolico, dallo stesso metropolita di Cagliari, il francescano conventuale monsignor Pietro Balestra.
I giornali giocavano da ponte, fra Cagliari e Villacidro: prima l’ “Avvenire di Sardegna” – diretto da quel Giovanni De Francesco che avrebbe dato alle stampe la monografia su Villacidro “Un comune di montagna” – poi l’ “Unione Sarda”; gran sacerdote officiante sul ponte quel Paolo Hardy, l’avvocato mazziniano/cocchiano Ranieri Ugo, che da giovane aveva fatto da guida-e-cronista al terzetto Scarfoglio-Pascarella-d’Annunzio, e aveva poi scritto, per la stampa di Cagliari, lenzuolate intere sulla Norbio tutta natura e lavoro.
E direi che da ponte morale e d’arte faceva anche Carmen Melis, celebrità del Politeama Margherita di Cagliari – dove alla vigilia della grande guerra portò la pucciniana “Fanciulla dell’West”, e invero celebrità mondiale – che nel 1915 era tornata a Norbio a rivedere la casa, ormai di proprietà del nostro caro dottor Alfonso Dessì, nella quale era nata quando Gigino Cadoni già sgambettava in casa e in piazza Zampillo. E sarebbe stato appunto Gigino Cadoni a riferire, in una corrispondenza giornalistica, di quel pellegrinaggio sentimentale.
Cagliaritana nata a Villacidro, forse perché della colonia borghese che da Cagliari si spostava qui a respirare le resine della pineta nelle mezze stagioni e anche d’estate – la Melis era nata di Ferragosto. Perché quelle villeggiature erano una delle ragioni e delle modalità di un gemellaggio di fatto fra Cagliari e Villacidro nella nostra belle époque provinciale: 60mila abitanti il capoluogo, 6mila il paese nostro.
A servire da primo step ai continentali che dovevano arrivare qui e sbarcavano al porto di Cagliari, quando non si era imprigionati nella tratta da Civitavecchia a Golfo Aranci, era la Scala di Ferro, che peraltro disponeva anche di sale e saloncini per i conversari d’affari come avvenne quella volta che, nella ricostruzione fantastica di Giuseppe Dessì, Angelo Uras incontrò quel tal Silvestri il quale gli offriva l’acquisto dei boschi degli eredi Sanguinetti – Fontana nera, Mazzanni e Mudegu. In calesse, Angelo Uras, fino ad Acquapiana, e poi in treno fin a Cagliari. (Questa pagina è bella quanto è bella quella della Deledda che, nel suo postumo e autobiografico “Cosima”, descrive il capoluogo al suo arrivo da Nuoro nel 1899).
In Angelo Uras vivevano – ormai tutti lo sappiamo – le vibrazioni morali e sociali di Giuseppe Fulgheri, più che quelle di Giuseppe Pinna, sicché l’ipotesi da lui considerata fu quella non di acquistare in proprio quelle foreste – nonostante le proteste di Filippo, il figlio grande di Margherita la seconda moglie –, ma di acquistarle per il Comune e metterle a disposizione dei pastori a tariffe più moderate che non prima. La Cassa Depositi e Prestiti avrebbe fornito le risorse, da rimborsare un po’ per volta.
Per gli affari personali – da tenere ben distinti da quelli del Municipio – dovevano funzionare altri istituti di credito. Così sapeva Angelo Uras, un Angelo Uras più giovane e non ancora sindaco di Norbio. Dopo la dolorosa vedovanza cui l’aveva costretto la morte immatura di Valentina – Maria Angela – Manno, bisognava scuoterlo dallo shock patito e sua madre Sofìa ci aveva messo del suo per indurlo a procurarsi il denaro necessario per partecipare all’asta dell’appalto della foresta di Aletzi: trentamila lire l’offerta della ditta Antola, trentacinquemila dai Sanguinetti, quarantacinquemila – il triplo della base d’asta – di nuovo Antola, poi cinquantamila: allora Angelo Uras offerse settantamila vincendo l’appalto.
Il denaro se l’era procurato attraverso negoziazioni fra la Società Mineraria Metallurgica Italiana e la succursale del Banco di Napoli, il cui gerente – scrive Dessì – era Egidio Costa, l’esattore comunale. “Angelo si trovò così ad avere un conto aperto presso la succursale del Banco di Napoli, un conto per una somma che […] pareva enorme. Dovette fare un viaggio a Cagliari in compagnia dell’ingegnere [Antonio Ferraris] perché alcune persone influenti volevano conoscerlo. Si incontrò con l’on. Ghiani Mameli, che aveva avuto tanta parte nelle clamorose vicende economiche degli ultimi tempi e aveva favorito con il peso della sua autorità, la concessione del prestito al “coraggioso” giovane. Il Ghiani Mameli conosceva Norbio e deprecava quanto Angelo la leggerezza con cui i piemontesi avevano sfruttato le sue foreste…”.
Chiudo questi passaggi dessiani, rivelando, del racconto romanzato, alcune linee sottostanti, che possono favorirne una lettura filologica, o critica: a Villacidro era assente, in quel tempo, lo sportello bancario, l’approvvigionamento di liquidità occorreva farlo a Cagliari; e giusto a cinquanta metri dalla casa in cui Dessì nacque, in via degli Argentari (poi Mazzini), oltre l’aiuola rotonda che avrebbe presto accolto l’erma di Giordano Bruno (1913), aveva sede dal 1890 il Banco di Napoli, che era venuto in Sardegna a coprire il vuoto lasciato tre anni prima dal fallimento delle banche locali facenti capo proprio al Ghiani-Mameli: il Credito Agricolo Industriale Sardo, la Cassa di Risparmio di Cagliari e il Credito Fondiario. Chiaro dunque l’impasto di ingredienti, ciascuno con un suo merito, da parte del romanziere.
E peraltro di un direttore di quella succursale cagliaritana che avrebbe avuto la titolarità dell’ufficio dall’anno stesso in cui nacque Giuseppe Dessì – tale cavaliere Gaetano Rao Torres – è certo frequentasse, con la numerosa famiglia, proprio Villacidro per le vacanze semiestive…
Chiaro poi individuare in quell’Egidio Costa esattore comunale di Norbio il Basilio Costa – un altro Artiere massone, della loggia cagliaritana Sigismondo Arquer – che fu operatore economico importante (e discusso) a Villacidro, ancora nel passaggio di secolo, e dal paese fu in intensissime relazioni creditizie proprio con il Banco di Napoli (come ho rilevato dall’archivio storico dell’Istituto censendo le molte proprietà locali del tempo in cui entrò in sofferenza).
Gigino Cadoni fra Norbio e Ruinalta, fino a Cuadu
Ora che ci ritroviamo a celebrare il centenario del passaggio al non-tempo di Gigino Cadoni – che fu, a differenza degli altri, tutto cidrese, se non per qualche edizione delle sue cose che poté legarlo al capoluogo (“Favolas” da Pietro Valdès nel 1909, “Cosas de arriri” ed anche “Unu brutt’animali” dalla Tipografia e Legatoria Industriale nel 1910 e l’anno dopo) o magari per la collaborazione che assicurò negli anni della grande guerra al settimanale cattolico “La Voce del Popolo” –, potremmo, e dovremmo, portare la nostra mente e il sentimento ad onorare quei tanti che hanno intessuto, con lui e con gli altri spiriti magni, la storia civile e amministrativa, religiosa e culturale, sociale e produttiva del paese d’ombre.
La mente e il sentimento nostri cioè vorrei si orientassero, nel tempo vissuto da Gigino Cadoni e dagli altri, alla massa soltanto apparentemente indistinta che dette sostanza di lavoro e di relazione alla Villacidro nostra, a Norbio e Ruinalta, a Pontario ed Olaspri, a Ordena e San Silvano, che con Cuadu – la Cuadu del “Disertore” – chiuse il ciclo storico, se mai chiusura possa esserci nella storia degli uomini.
Pensando di dover fare la mia parte su questo, m’era sembrato utile portare una speciale attenzione alle attività produttive e di lavoro autonomo che distinsero Villacidro in quei centrali due-tre lustri epocali. Il mio intento era anche quello di fornire elementi a chi volesse approfondire, magari a qualche studente cidrese impegnato con la tesi, dimensioni e natura, specificità della Villacidro economica del tempo che fu.
Qualcosa sappiamo da Salvatore Manno e dal suo “Iridescenze”, qualche altra da Giovanni De Francesco, che ne scrive dieci anni dopo. Dell’agricoltura paesana estesa su 18.322,78 fertili ettari, ma bisognosa di un di più di competenza agronomica, per il che si sperava in conferenze d’istruzione e corsi speciali promossi dal governo. Bene la viticoltura, e meglio le uve bianche che quelle nere. In calo purtroppo, per l’aumento della tassa sugli spiriti, la distillazione dell’acquavite (fino ai 50 gradi dell’alcoolometro): dalle centinaia di un tempo gli alambicchi sono ormai soltanto 17 a fine secolo, e fra essi quelli di Angelo Cadoni, Gennaro Murgia, Rafaele Sogno e Francesco Curreli: “questa derrata cidrese continua anche oggidì a godere il suo primato sulle altre e […] nei caffè la si vende sotto il nome antonomastico di Villacidro”. Gli agrumenti ricordano il giardino dell’Eden, Eden a S’Isca de bidda, Eden a Leni: “Gli speculatori di Milis [i frutti] li esportano ogni anno per venderli nel mercato di Cagliari, dando così al Comune una risorsa non indifferente”.
Primati isolani anche nei verzieri: al Partenone di Cagliari, che sarà visitato da Lawrence, le forme e i colori di pesche e ciliegie cidresi vincono su tutto, così le ortaglie. Meraviglie anche dagli uliveti di Bassella e Aletzi: sei i frantoi attivi alla conta di fine Ottocento.
Nell’Eden cidrese, fra Montimannu e Villascema, Narti, Cucina e Aletzi, è tutto un tripudio di elci e sòveri, di pioppi ed olmi e frassini, di corbezzoli e lentischio, di piante medicinali d’ogni genere…
Relativamente modesti i numeri di greggi, branchi di porci e mandrie di vacche, forse per penuria di pascoli o per ragioni climatiche; svernano qui, però, le greggi barbaricine… Il Comune quantifica, all’ultimo censimento, in 3.000 i capi bovini, in 2.400 le vacche e i tori, in 2.700 le pecore e in 1.970 le capre, in 1.690 i porci, in 970 i cavalli.
Abbondante la selvaggina: mufloni, cervi e cinghiali, lepri e conigli, ma la pressione dei fucili va depauperando un patrimonio invidiabile; resiste il primato delle pernici.
Secondo Salvatore Manno “Villacidro è un paese poco commerciale”, produttivo più per il “consumo locale” che per l’export limitato all’acquavite, al vino bianco, alle frutta, all’olio, al formaggio e alla lana. Sembra più attività di donne – di “donnicciuole” scrive Manno – la produzione e lo smercio di orbace e tele di lino, ma anche la vendita di vin cotto ed uva passa, talvolta in baratto di legumi.
Una ventina sono le botteghe alimentari generali e si combinano bene al mercato di Frontera. Più che soddisfacente il mercato della carne e il giro che s’implementa alle feste di Santa Barbara e San Sisinnio.
Se i due terzi della popolazione attiva è occupata nell’agricoltura, sono circa 500 i cidresi che lavorano fra messi e miniere, una cinquantina quelli occupati nell’industria armentizia, una quarantina i mestieranti.
Le donne, sbrigate le faccende domestiche, lavorano in campagna, filano e tessono, cuciono e maciullano il lino, “accompagnando il lavoro – scrive Manno – col canto allegro di briose canzoni. Così si riesce a dar un qualche aiuto all’uomo nel provvedere al mantenimento della famiglia”.
L’industria in quanto tale è attività marginale, a Villacidro: merito di Battista Fois Farci l’attivazione nel 1887, sulla riva del Leni, nei pressi dell’antica fonderia, di uno stabilimento idraulico, per “la fòndita e fabbrica del rame”: gli utensili prodotti sono per il più venduti a Cagliari, nel negozio del corso Vittorio Emanuele di proprietà dello stesso signor Fois Farci…
Rifà qualche conto e rettifica qualche tendenza, dieci anni dopo, Giovanni De Francesco nelle pagine conclusive del suo “Un comune di montagna”. Sono anche queste pagine assolutamente gustose per il racconto dell’economia localizzata nei territori che compongono “il territorio” cidrese, fra i maggiori della provincia di Cagliari e della Sardegna, non soltanto del circondario di Iglesias nel quale il comune è amministrativamente ricompreso (gli altri circondari sono quelli di Oristano e Lanusei, restando il basso Campidano nella competenza diretta del prefetto).
Diffusi, nelle pagine di De Francesco, anche i riferimenti alle infrastrutture più progettate che realizzate, alla ferrovia, ai canali d’irrigazione, agli stessi nuovi rimboschimenti…
Le evidenze statistiche della Camera di Commercio
I rinnovi biennali del Consiglio di governo della Camera di Commercio di Cagliari – al tempo e fino al 1910: “di Commercio ed Arti” (non ancora “di Commercio e Industria”, per dire della centralità produttiva dell’artigianato in fase preindustriale) – aiutano a definire la composizione del lavoro autonomo di Villacidro nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Gli elenchi degli elettori sono infatti dettagliatamente riportati nei libri custoditi presso la Biblioteca camerale.
Ecco dunque, segnatamente per gli otto bienni dal 1890 al 1904 – l’anno di Buggerru – e, per supplemento al 1921, le risultanze villacidresi che appaiono di speciale interesse se si considera il rilievo che l’ultimo decennio del XIX secolo ed il primo decennio del secolo successivo hanno avuto nel lungo corso della vicenda del paese d’ombre, proprio anche per la sua… immortalazione nell’opera letteraria di Giuseppe Dessì.
Le tabelle nominative a parte dettaglieranno le tipologie delle attività commerciali od artigianali o professionali degli iscritti all’albo camerale.
Qui di seguito esporrò, ma in sintesi estrema e quasi soltanto per dare un’idea di quel di cui si trattava, qualche numero e qualche nome.
E soltanto per curiosità accennerò in un minuto soltanto al pregresso, a quanto documentato negli anni precedenti al 1890, a quel dodicennio che parte dal 1878 – l’anno della morte di re Vittorio e di papa Pio IX – dacché abbiamo le schede camerali.
Era ancora in vita ed attivo, allora, l’avvocato Fulgheri, che da poco aveva lanciato la contrastata sua Associazione Agricolo-Industriale per l’acquisto e coltivazione di terreni boschivi in Villacidro, era il tempo in cui pareva che in municipio si alternassero il partito dei proprietari – fra cui il professor Todde – e quello dei non proprietari – il professor Loru in testa –,
e il tempo della sindacatura di Luigi Cogotti, nonno materno del nostro Gigino,
era il tempo dei parrocati a Santa Barbara del teologo Vincenzo Usai, dell’avvocato Francesco Luigi Sardu, vedovo e papà di due creature, dell’alerese don Emanuele Sanna,
era il tempo della visita di d’Annunzio ventenne e dei suoi amici,
era il tempo del rimboschimento di Su Cramu e di Mont’e Omu, nonché della bonifica della Fluminera, di un certo riordino di piazza Zampillo – lo zampillo dell’acqua di Castangias – con l’abbattimento di varie case malconce proprio dei Cadoni…
presto sarebbero venuti il Lavatorio e gli abbeveratoi…
Nei registri camerali si appuntavano i nomi. Allora gli elettori camerali cidresi erano, nella sequenza dei bienni, fra i 21 ed i 42, e fra essi ricorderei, nel mezzo dei cognomi tipici di qui degli Anni e dei Cadoni o Cogotti, dei Collu e dei Furcas, dei Giorri e dei Manno, dei Pittau e dei Saiu, o Sanna, o Sanneris, o Spano, o Steri, o Sulcis, ecc., Giuseppe Pinna Curreli dal 1880 – qualificato “commerciante”, Agostino Acquenza fu Clemente – qualificato “farmacista”, i fabbri Cannas Lorai, Cogotti Saba, Collu Saiu, Concas, Curreli Cuccu…
A volo d’uccello direi adesso degli otto bienni dal 1890, lasciando alle tabelle in diapositiva ogni approfondimento nominativo:
- Anno 1890 – elettori iscritti 60, di cui 20 fra i commercianti o negozianti (generici o qualificati per settore merceologico: grano, cereali bestiame, coloniali, tessuti e commestibili), inclusi bottegai e merciai; 6 operatori nel settore vinicolo (distillatori, fabbricanti alcool, venditori forse al dettaglio, un bottaio, un trabucante); 9 artigiani leggeri (tolai, scarpari e calzolai, sarti o sartori); 23 artigiani pesanti (muratori, falegnami, carpentieri, fabbri); un macellaio (Giuseppe Pischedda Conti) ed un farmacista (Agostino Acquenza);
- Anno 1892 – elettori iscritti 57, di cui, nella medesima sequenza tipologica, 20, 5, 9, 22, un macellaio (ancora Pischedda Conti); non figura il farmacista.
- Anno 1894 – elettori iscritti 60, di cui, ancora nella stessa successione, 25, 3, 8, 19, 2 (per il raddoppio dei macellai: c’è anche Raimondo Pes Sanna) e un pescivendolo (Efisio Luigi Floris Campus), un farmacista (Gennaro Murgia di Luigi) ed un gabelliere o gabellottiere (vale a dire un affittuario di fondi agricoli: qui Raimondo Collu Saiu).
- Anno 1896 – elettori iscritti 41, di cui, in sequenza sempre d’unità, 12, 7, 3, 14, 2, 2, un rivenditore di pesce (ancora Floris Campus), un farmacista (ancora Gennaro Murgia) ed un panettiere (Francesco Mocci Piras).
- Anno 1898 – elettori iscritti 41, di cui, pure in sequenza, 12, 7, 3, 14, 2, 1, un farmacista (stavolta qualificato anche come “distillatore”, ancora Gennaro Murgia) e sempre un panettiere (ancora Mocci Piras).
- Anno 1900 – elettori iscritti ancora 41, e in sequenza tipologica 21, 3, 2, 13, un macellaio (il Pischedda Conti di anni addietro) e un gabelliere (stavolta Francesco Curreli Cuccu).
- Anno 1902 – elettori iscritti 62, e in sequenza tipologica 26, 4,7, 18, 4 esercenti un frantoio (sono Salvatore Piras Gambula, Efisio Piras, Salvatore Serra Carta e Salvatorangelo Serra Cannas), 2 macellai (già citati), un gabelliere (ancora Curreli Cuccu).
- Anno 1904 – elettori iscritti 68, e in sequenza tipologica 27, 3, 19, 10, 5 esercenti un frantoio (ai quattro precedenti si è aggiunto l’ex sindaco Giuseppe Pinna Curreli), 2 macellai (i soliti), un panettiere (Battista Mocci Crobu) e un industriale (proprio Gennaro Murgia già classificato “farmacista”).
E’ naturalmente possibile che la classificazione per attività lavorativa – che utilizza espressioni diverse quasi da biennio a biennio – in parte giustifichi le variazioni. E infatti una più mirata analisi ai sottosettori può spiegare le dinamiche evidenziate, assorbendole in una interpretazione più generale. E comunque non può non rilevarsi che, sui numeri totali, gli scostamenti ci sono e sono notevoli, fra il picco dei 68 (anni 1904) ed il basso dei 41 (anni 1896 e 1898): si tratta di un differenziale di ben un terzo degli iscritti, le cui cause non ho indagato.
Circa la tabella in proiezione 1890/1904 direi che, per quanto è sembrato possibile, in ragione soprattutto degli incastri cronologici (cessava una sequenza di iscrizioni, si riprendeva magari già nel biennio successivo ma con nominativo diversamente declinato: per l’aggiunta spesso della paternità oppure di un secondo cognome inteso come materno), ho proceduto a conglobare in capo ad uno stesso soggetto la serie storica prima distribuita in più nominativi. Tale operazione, pur condotta con ogni cautela e moderazione, garantisce l’attendibilità delle risultanze ma non la riuscita al cento per cento. Quindi andrebbe verificata, tanto meglio se da chi di quel ceppo familiare è oggi discendente e fors’anche continuatore dell’attività.
Da tali aggiustamenti progressivi sono rimasti fuori due (o forse tre) nominativi che potrebbero essere non soltanto omonimi, ma anche coevi: mi riferisco a Spano Cadoni Salvatore che si presenta anche in denuncia di paternità come fu Cosimo (anni 1894, 1900-1904) e come fu Tomaso (anni 1896-1898). A quale dei due riferire il nominativo privo di paternità denunciatosi dal 1878 al 1892? E complicazione ulteriore: il giusto incastro temporale fra i due segnalati con diversa paternità farebbe pensare a uno stesso nominativo, con deduzione improbabile però di un errore nella declinazione della paternità (una volta Cosimo, una volta Tommaso). Questo anche per dare pratica dimostrazione, talvolta, delle precise e inequivocabili identità.
Dubbie omonimie presentano anche Cadoni Puddu Antioco Angelo fu Agostino, che hanno un corso lavorativo assolutamente parallelo; o Leo Melis Raimondo, declinato anche, all’inizio del Novecento, con la paternità fu Giuseppe. Idem Ecca Aru Giovanni, figurando nelle liste anche un Ecca Aru Giovanni fu Salvatore (i mestieri distinti e coerenza lavorativa autorizzano però a propendere per persone diverse). Pani Ferrau Giuseppe Antonio fu Pietro potrebbe essere Pani Serrau. Dubbi permangono su Cannas Lorai (Lorrai?) Giuseppe, fabbri coevi di paternità uno fu Sisinnio ed uno fu Francesco (il dubbio nasce dall’incastro temporale che potrebbe far pensare alla stessa persona).
Interessante è rilevare come nell’elenco di 131 nominativi sia presente soltanto una donna – Serra Defraia Efisia fu Giovanni, censita come “commerciante” nei due bienni elettorali 1900 e 1902.
Diversa sarà la situazione del 1921, anno nel quale – dopo l’emergenza bellica – si riprende, anche da parte della Camera di Commercio, la pratica elettorale. Allora saranno 32 gli elettori villacidresi e di essi ben quattro sono le donne: Caddia Maria Grazia fu Giov. Battista registrata alla voce “Terraglia e vino”, Caddia Rosa in Lilliu alla voce “Vinaia”, Pittau Giulia fu Raimondo alla voce “Mercantessa”, e Cuccu Steri Vincenza fu Efisio alla voce “Merciaia”.
Soltanto per completezza d’informazione, trattandosi di evidenze che escono dal periodo considerato, dirò che nel 1921 gli elettori camerali villacidresi sono così classificati in dettaglio:
3 industriali (Francesco Fadda fu Antonio, Salvatore Piras Gambula fu Francesco, Agostino Spano fu Salvatore);
un appaltatore (Fedele Collu fu Pietro);
un fabbro (Giuseppe Trudu di Alberto);
un carpentiere (Antonio Sanna Pani fu Priamo);
un fabbricante di alcool e uno di acquavite (rispettivamente cav, Gennaro Murgia fu Luigi e Antonio Cadoni fu Agostino – il padre del nostro Gigino Cadoni);
un commerciante di cereali (lo stesso Antonio Cadoni);
un titolare di mulino (Giovanni Anni Sessini fu Antonio);
un titolare di frantoio (Antonio Aru Aru fu Francesco);
un farmacista (stavolta è Luigi Mancosu fu Federico);
un commerciante di bestiame (Giovanni Zirano fu Salvatore);
un commerciante di vino e cereali (Giuseppe Saba Curridori fu Salvatore);
due bottegai (Giovanni Maxia Marras fu Antonio e Lucifero Spada fu Sisinnio);
un commerciante di coloniali (Pietro Adamo fu Pasquale);
un commerciante di agrumi e mandorle (Antonio Pinna Pitzalis fu Daniele);
un merciaio (Francesco Aru Trastu);
due commercianti di generi diversi (Venanzio Pilleri fu Pasquale e – ipotizzo il figlio – Giuseppe Pilleri Scano di Venanzio);
sette commercianti non meglio censiti (Francesco Alagna fu Antonio, Giuseppe Antonio Anni Casti fu Vincenzo, Antonio Follesa Nonnis fu Sisinnio, Raimondo Leo Melis fu Antonio, Efisio Mocci Piras fu Salvatore, Giuseppe Sanna Pinna fu Antioco, Fortunato Sessini fu Antonio);
e le quattro donne prima citate nei commerci di terraglie e vino e merci varie.
Ecco le conclusioni. Noi leggiamo il “Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì, noi ci accostiamo ai versi e alle prose di Gigino Cadoni Bernardu de Linas. Possiamo immaginare sullo sfondo di quelle pagine la vita sociale, che è vita di lavoro e di relazioni, di Villacidro che lentamente ma progressivamente si affaccia alla modernità. Con tutte le contraddizioni possibili, ma certa di avere in sé le risorse morali e professionali per affermarsi nei tempi nuovi.