Monsignor Antonio Tedde fra Marmilla e medio Campidano, avvocato dei poveri e promotore delle scuole dell’obbligo e superiori, padre conciliare negli anni ‘60, di Gianfranco Murtas

 

Ritorno a monsignor Antonio Tedde, vescovo di Ales-Terralba, giunto in diocesi nel 1948, deceduto, ormai anziano e malato, nell’agosto 1982, dopo tanta semina di virtù personali e sociali.

Nuovo Cammino – il quindicinale della Chiesa alerese – ha pubblicato nelle scorse settimane due altri miei brevi articoli, a completamento di quello uscito il 23 luglio us (e riproposto nel sito di Fondazione Sardinia il 31 luglio successivo). Questi nuovi sono stati pubblicati nei numeri 14 e 15, rispettivamente del 10 e 24 settembre 2017. I titoli redazionali: “Il Vescovo del lavoro e della Scuola cattolica: l’opera pastorale di mons. Antonio Tedde nella diocesi di Ales-Terralba” e “Tensione ecumenica e carità pastorale: ricordo di mons. Antonio Tedde al Vaticano II”.

Eccoli di seguito. E l’occasione mi è propizia per confermare, fuori testo, la devozione ad una memoria magna della Chiesa sarda del Novecento. Per molte ragioni io sono piuttosto distante dai dati culturali orientativi dell’azione del vescovo indimenticato. Ciò non di meno, per la conoscenza derivatami dalle ripetute (ancorché non frequenti) occasioni di incontro e dalla lettura dei suoi documenti pastorali, e più ancora per l’opera indefessa da lui spiegata nel suo territorio diocesano al fine di promuovere una società davvero inclusiva – che è anche il mio stesso obiettivo di impegno pubblico –, l’ho sempre avvertito un savio maestro, umile e deciso, e testimone coerente ed esemplare dei valori che predicava, necessari alla società tutt’intera, quella civile cioè, non soltanto religiosa.

Tratti di biografia ecclesiale

Don Tedde, sorsese di nascita (1906) aveva vissuto in proprio tutta l’austerità di vita, ad un tempo morale e materiale, dei suoi comprovinciali, nel capoluogo o nel suo hinterland o nelle maggiori distanze logudoresi o del Goceano, del Monteacuto o della Gallura; egli contava appena una decina d’anni al tempo della grande guerra, quando anche entrò nel seminario minore, e frequentò il seminario regionale di Cuglieri al tempo della dittatura. Fu ordinato prete nel 1929, pochi mesi dopo la firma della Conciliazione fra lo Stato, nella rappresentazione che ne dava (in contraddizione con i fuochi del risorgimento liberale e separatista) il fascismo, e la Chiesa che aveva atteso per mezzo secolo la risoluzione della cd. “questione romana”.

Venne influenzato, così come gran parte dell’episcopato e del clero sardo e italiano del tempo, da talune impostazioni del regime. E superata la crisi del 1931, quella dell’attentato e della “stretta” sull’Azione Cattolica da parte del fascismo, parve condividere, soddisfatto degli spazi concessigli nella sua missione, le regole di quegli anni. D’altronde, il clero nelle scuole, il clero negli ospedali, il clero nelle caserme, il matrimonio celebrato in chiesa con effetti civili, l’esclusione dagli uffici civili degli apostati, parevano cosa concreta, dimostrativa di una effettiva partnership della Chiesa, di lato al Partito Nazionale Fascista e a tutte le sue gerarchie spalmate nelle organizzazioni più o meno marziali, nel governo sociale.

Nel 1938-1939 parve addirittura, don Tedde, legittimamente combinare l’atavico (e sgradevole, rimontante alla mitologia del deicidio) antisemitismo della Chiesa con quello espresso dalle leggi razziali appena approvate, seppure a lungo covate. Ne scrisse ripetutamente su Libertà, il giornale diocesano di Sassari nel quale ricopriva, dal 1935, il ruolo di caporedattore (direttore era monsignor Francesco Spanedda), e la materia da sola meriterebbe un utile approfondimento, senza mai l’intenzione, comunque, di giungere a conclusioni semplificate e tranchant. (Qui importa piuttosto sottolineare quanto don Tedde fosse figlio del suo tempo, con le virtù ed anche i limiti culturali e politici della Chiesa sarda e italiana di quella prima metà del Novecento).

Virtù ci furono, e riflesso diretto di opzioni radicali e basiche, nella sobrietà assoluta ed esemplare del suo sacerdozio vissuto in una età in cui l’efficienza fisica e mentale avrebbe anche potuto distrarre dalla oblazione gentile e genuina, e totale, della sua persona a favore dei poveri. Quel che fu nei lunghi anni del suo parrocato di San Donato, il quartiere più marginale – nonostante la centralità del sito nel range urbanistico – di Sassari egli lo trasportò pari pari ad Ales e anzi lo accentò ed espanse facendone partecipi i suoi sacerdoti: e fu In Dilectione e soprattutto In Paupertate, fu la rinuncia a quelle entrate “supplementari” che aiutavano un clero povero, non ricco certamente, tutto rurale, a campare dignitosamente.

Ci furono infatti riserve, dentro e fuori la diocesi. Da molte parti dell’Isola si temette… il contagio di troppo vangelo, e non è che lui, il vescovo, non avesse cognizione delle ragioni contrarie al suo provvedimento che ebbe natura, ad un tempo, pastorale e canonica. Ma fu coraggioso e si pose in linea con la profezia, che avvertiva essere necessità ed obbligo spirituale primario. Ci sarebbero voluti quindici anni perché un vescovo francese potesse lanciare, nella solennità conciliare, la proposta di abolizione delle tariffe, forse, anzi senz’altro, ignorando che un minimo grande vescovo di periferia l’aveva anticipato non soltanto con la proposta ma con la pratica.

Storicizzare il vescovo Antonio Tedde significa anche cogliere questa pulsione anticipatrice, chiamala pure profetica, che egli calò nel regime ecclesiastico esistente, senza volerlo abbattere né riformare nel grosso. Aumentò le quantità del sale sparso nella terra alerese, non fece rivoluzioni. Come non le fecero, anch’essi divenendo sale nuovo e necessario, i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld che presto sarebbero venuti in Sardegna, piazzandosi a Bindua e vivendo la vita dei minatori. Carlo Carretto già aveva seminato a Bono ed Isili, Arturo Paoli avrebbe cominciato nel 1957.

Un profeta vestito di panni prelatizi

Sono numerose le occasioni di distinzione di monsignor Tedde lungo gli anni ’50: così sul fronte della solidarietà alle lotte dei lavoratori sia della campagna che delle miniere, come sul fronte della promozione culturale e scolastica. Davanti alle sinistre politiche e sindacali particolarmente accese sul territorio del Villacidrese-Guspinese egli mostrò nel concreto che il cattolicesimo – non soltanto quello politico della DC ma quello piuttosto religioso ispirativo dell’azione di partiti e sindacati bianchi – non temeva i confronti di radicalità valoriale. Un buon aiuto alla comprensione delle coordinate ideali in cui egli collocava l’impegno dei cattolici a favore della giustizia produttiva e distributiva è in Problemi sociali nella luce del Vangelo, il libro edito da Gallizzi nel 1954 e confezionato dalla diocesi – uffici di curia e giunta diocesana di Azione Cattolica – per celebrare il XXV di sacerdozio del vescovo. Si tratta della raccolta di scritti e discorsi di monsignor Tedde censiti dall’agosto 1949 al luglio 1954: trentanove interventi collocabili, per l’occasione della pubblicazione o diffusione, in pressoché tutti i centri diocesani, da Guspini a Gonnosfanadiga, da Ales ad Arbus, da Uras a Simala, da San Gavino a Mogoro, a Sardara, a Tuili, a Terralba, a Lunamatrona…

Vi fu, ripetuta, l’esperienza del microfono di Radio Sardegna, quella dei grandi pellegrinaggi nell’Isola e fuori, dei congressi eucaristici; vi fu l’esperienza ciclica delle notificazioni elettorali, costassero pure polemiche e accuse di intrusione nella politica. Monsignor Tedde spese ogni energia che l’età ancora giovane gli consentiva per supplire o coordinarsi con i confratelli dell’episcopato regionale nelle grandi assemblee di spiritualità e devozione, così come nelle riservate riunioni di vertice (e dove pure scontava, a suo danno, qualche punta di diffidenza per tanto protagonismo). Egli resta infatti – è importante ribadirlo – dentro il quadro della sensibilità ecclesiale e della cultura ecclesiologica del decennio che avrebbe preparato, per certi aspetti, ma anche temuto la svolta giovannea ed il programma del Concilio. L’associazionismo e la galassia di unioni e gruppi furono la prova provata della cura prestata ai diversi segmenti sociali e anagrafici (Donne, Gioventù maschile e femminile…) in termini di formazione ed attiva e responsabile partecipazione: anche in quelle modalità organizzative si realizzava la dottrina dei corpi intermedi, da sempre presente nell’insegnamento sociale della Chiesa.

Importa poi dire, quasi per chiosare il suo impegno sociale, delle scuole che egli promosse ed inaugurò, seppure con difetto amministrativo che al vescovo avrebbe creato difficoltà giudiziarie: si pensi alla media vescovile “B.V. della Speranza” di San Gavino, alla “San Giovanni Bosco” di Ales, alla “Contardo Ferrini” di Guspini , ai corsi delle Magistrali… Certo è che a lui venne, nel 1954, dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, la medaglia d’oro di benemerito della cultura, e fu benemerenza certa.

Dentro il Concilio. I legami alla solida tradizione e insieme lo slancio verso una pratica ordinaria della testimonianza evangelica derivante dalla nettezza delle indicazioni dottrinali emergono dai “Consilia et vota” che il vescovo sottoscrisse nella fase antepreparatoria del Vaticano II: degli otto punti che egli, indirizzando al segretario di Stato Domenico Tardini, evidenziò fra quelli che avrebbe voluto fossero trattati dall’assemblea episcopale riunita in San Pietro, quelli strettamente riferibili alle materie canoniche (o di casta clericale) erano pressoché marginali – dal celibato da confermare alla inamovibilità dei parroci da riformare – mentre avanti si ponevano le questioni di dottrina, di giudizio sulle fonti ideologiche moderne e la loro ricezione sociale, dal materialismo al relativismo cioè, per arrivare alla preservazione dell’autorità della Chiesa nella formazione familiare e nella educazione dei minori, ecc.

Al Concilio Vaticano II, padre fra padri

Avrebbe firmato, il vescovo Antonio, tutti gli atti conciliari (le costituzioni, le dichiarazioni, i decreti) passati a larghissima maggioranza, avrebbe presentato un proprio intervento orale in aula ed otto scritti, aderendo anche a due testi stesi e depositati da altri Exc.mi Patres Conciliares.

Si distinse per la insistenza sulla devozione a San Giuseppe, vissuto come icona della virtù domestiche, ed anche per il riguardo da conservare alla lingua latina nella formazione dei chierici, i quali avrebbero dovuto intenderne la valenza universale, strumento di relazione non prigione di tradizione superata. Magnificamente ha sintetizzato i motivi che guidavano «l’essere e l’agire» dell’umile presule di Ales nella solennità della basilica di San Pietro, Tonino Cabizzosu in I vescovi sardi al Concilio Vaticano II. Protagonisti, Cagliari, arkadia, 2014: «a) chiarezza della verità; b) verità nella carità; c) carità pastorale». La tensione ecumenica doveva combinarsi con la indefettibile tutela del patrimonio dottrinale ricevuto dai secoli. Intuiva, monsignor Tedde, quel che un giorno si sarebbe detto da autorità massime come papa Benedetto XVI e papa Francesco: l’andar la Chiesa per attrazione e non per proselitismo, collocando nell’energia simpatetica ed attrattiva la carta vincente della personale santità.

Certo ancora mancava nella sua riflessione od elaborazione quanto l’ecumenismo più maturo come si è andato strutturando o definendo in quest’ultimo mezzo secolo porta oggi al tavolo degli incontri fra i rappresentanti delle varie Chiese cristiane: che cioè non tanto il «ritorno, nella carità di Cristo, nell’ovile dei fratelli separati nella Chiesa cattolica» potesse o dovesse soprattutto attendersi, quanto invece la conversione di tutti a una centralità altra, tutta da costruire ma ipotizzabile nel mosaico prezioso delle diversità storiche, culturali e perfino teologiche, tutte legittime, unite dalla tensione alla fraternità e alla giustizia.

Nella storicizzazione di monsignor Tedde si tratta di mettere comunque anche questo: l’attraversamento di sé che egli volle – così come lo volle un grande come dom Helder Camara, che ne lasciò ampia testimonianza scritta – dallo spirito conciliare, l’attraversamento della sua vita e della sua cultura anche teologica oltreché del suo costume clericale. Cambiò l’asse ecclesiologico, cambiò la liturgia, cambiò il programma di studio e l’ordinamento dei seminari, cambiò – dovette cominciare a cambiare – la vita sacramentale di una entità ora definita non più massa dei fedeli, ma “popolo di Dio” convocato in assemblea, per la partecipazione.

Così procedette il vescovo Antonio dopo il ritorno definitivo ad Ales nel dicembre 1965. La sua fortuna fu che la propria figura mostrava tali e tante virtù che, anche quando non si condivideva pienamente una certa sua deliberazione, ci si allineava. Piccola diocesi in quanto a territorio ed a popolazione, quella di Ales-Terralba aveva mostrato d’essere in nuce una Chiesa conciliare già da prima della convocazione giovannea in quell’ottobre 1962: Chiesa povera e aperta, con le sue suore diffuse in molti ordini religiosi, con i suoi missionari, con i suoi presbiteri fidei donum all’estero e in patria, anche nelle periferie di Lione e Torino.

Quasi diciassette anni separano la conclusione del Concilio dalla morte del vescovo amato come pochi, che vegliò sulla società alerese, sulle sue dinamiche naturali ordinarie e straordinarie, sulla successione generazionale che in essa poté registrarsi creando nuova storia: chi egli battezzò poi lo vide nelle file che cresimandi e nelle assemblee parrocchiali e scolastiche e magari nelle gare sportive, lo incontrò quindi nell’atto di farsi famiglia e di accompagnare i primi figli al fonte, e di conquistarsi, dopo gli studi, un posto di lavoro e combattere per questo, e combattere per le migliori cause nell’interesse pubblico, a Villacidro, ad Arcidano, a Tuili…

Il Concilio si realizzò ad Ales forse più e meglio che altrove. Le sensibilità sociali, ma anche l’inventiva e la competenza organizzativa che i diocesani – anche e soprattutto i preti diocesani – erano andati maturando fra meridiani e paralleli, dal Brasile o dal Messico fino all’Indocina, o nel porto di Marsiglia o nelle periferie operaie del nord Italia, entrarono e corroborarono le intuizioni pastorali del vescovo Antonio in tempi di trasformazioni, nel bene e nel male, profondamente incisive sugli assetti e i costumi locali. Si pensi al crollo dei sogni industriali, si pensi al crescente e devastante (e già profilato nei primi anni ’80, che furono anche gli ultimi di vita di monsignore) travaglio giovanile fra droga e sbandamento criminoso.

Il Concilio come in quei tre lustri e passa dopo il 1965 poté essere tradotto in atto nella Chiesa alerese non fu soltanto questione di Chiesa, ma direi di società. E, pur fra tante permanenti ombre presenti sulla scena, ad esso sarebbero infine da ricondurre le luci di virtù e provvidenza che non mancano, anzi sono abbondanti, in diocesi ancora nell’A.D. 2017.

 

 

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