Sulla “lìngua mama” dei sardi, di Enrico Lobina

L’EDITORIALE DELLE DOMENICA,  della  FONDAZIONE.


Ognuno degli attivisti del movimento linguistico ha le proprie predilezioni, le proprie priorità, le proprie convinzioni dominanti. Bachisio Bandinu ed Oreste Pili, per ragioni diverse, quando si discute di lingua sarda si soffermano, tra le altre cose, sulla “lìngua de barzolu” (o “lìngua de lati”) per indicare la “lìngua mama”, la lingua delle emozioni, la lingua che dà gusto all’esistenza, la lingua che dà un gusto unico alla stessa pronuncia. Si concentrano sulla “lìngua de barzolu” per rammentare la necessità di trasmettere la variante del posto nelle scuole materne e, in modo diverso, anche negli altri livello scolastici.

Bandinu si concentra spesso sulla “lingua madre” e sul significante delle parole, non solamente sul significato, e molto spesso confuta sciocchezze come “dobbiamo imparare l’inglese, altro che il sardo! Perché spendere soldi col sardo?”.

 

La Sardegna non è Israele. In quel mondo culturale e politico, che poi si è fatto nazione, l’ebraico è rinato quale lingua nazionale opposta allo yiddish, considerata la lingua dell’esilio, a partire da alcuni precursori di fine ottocento.

L’ebraico era parlato nei luoghi sacri, nelle sinagoghe, ed aveva mantenuto, nel corso dei secoli, una “superiorità” o, comunque, una fortissima autorevolezza.

Così non è per il sardo. Il sardo può scomparire. Chi è impegnato nel movimento linguistico se ne rende conto, sia che abiti in città sia che abiti in un paese. Se nel 1947 la grande maggioranza dei nati in Sardegna erano madrelingua sardi, oggi la maggioranza dei nati in Sardegna sono madrelingua italiani.

Dall’esperienza storica di Israele dobbiamo recuperare la soggettività, la forza soggettiva di ricostruire una lingua dell’oggi, partendo da una posizione estremamente debole. La lingua ha costruito l’economia e l’immaginario in Israele. In Sardegna l’economia e l’immaginario devono essere costruiti con la lingua dei sardi. Pensare di farlo con l’italiano è un’utopia più irrealizzabile che pensare di far rinascere il sardo.

 

Per alcuni aspetti la situazione oggi è radicalmente diversa rispetto a 30 anni fa. Il rapporto tra italiano e sardo non è più quello della diglossia[1].

Nella situazione attuale sono numerosissimi i casi di bambini che nascono da genitori che hanno solamente l’italiano come lingua, e poi crescono in ambienti ove si parla solamente italiano.

Contemporaneamente, non esiste più lo stigma sociale che ha avvolto il sardo dal secondo dopoguerra ai primi anni novanta.

Ciò non toglie che la situazione, per chi pensa che se sparisce una lingua sparisce un popolo, sia gravissima.

 

I movimenti indipendentisti e sovranisti hanno deciso, in generale, di non affrontare il tema della lingua.  Scrivono e parlano in italiano. Che credibilità possono avere coloro i quali si dichiarano indipendentisti da decenni se continuano a parlare e scrivere, sempre ed in ogni caso, in italiano?

 

Questi atteggiamenti sono un errore storico imperdonabile, ed infatti la Sardegna sta vivendo una nuova fusione perfetta, seppur strisciante ed informale. Cosa è, se non questo, la “battaglia campale” per far inserire il concetto di insularità in Costituzione?

 

Le donne e gli uomini di buona volontà che hanno a cuore la Sardegna devono cogliere l’unicità e la strategicità della lingua, e contemporaneamente, l’enorme tragedia che stiamo vivendo.

La fine del sardo come “lingua madre” va affrontata e rielaborata, nella sua specificità, perché la lingua sarda, anche se non è prima lingua, non è lingua straniera. Il sardo è nella semiotica generale della Sardegna, è presente nei luoghi e nel vissuto storico. Il sardo non è una lingua estranea e, anzi, il bambino ed il ragazzo che deve riscoprire il sardo deve tuffarsi nella lingua del luogo, nel rapporto tra lingua e luogo. Il reinsediamento della lingua deve avvenire con l’occhio e la pratica della realtà effettuale, non con tipologie ideologiche.

 

Per realizzare tutto ciò mettiamo in campo una nuova strategia di reinsediamento a livello di massa del sardo, agendo dal basso e dall’alto.

In modo dialettico, da una parte è necessario agire dal basso e sostenere la lingua che si parla, la “lìngua de barzolu” e “de lati”, usando i fenomenali strumenti delle nuove tecnologie, ma soprattutto promuovendo un incessante lavoro di alfabetizzazione al sardo e di utilizzo quotidiano del sardo.

Dall’altra le polemiche sullo standard e le leggi andrebbero valorizzate come elemento di crescita e confronto del movimento linguistico, che si rafforza mediante un mutuo riconoscimento.

A chi concentra la propria attività sulla riproposizione di uno standard, raccomandiamo di immaginare una lunga fase in cui la lingua ufficiale in uscita del popolo sardo sia provvisoria, bilanciata, arricchita dalle varietà locali e dalla ricchezza del lessico. Una lunga fase in cui si costruisca il consenso dal basso, con il coinvolgimento ed il confronto pacato.

A chi pone l’accento sulle varietà locali, fino all’accusa di apartheid linguistico di una varietà a discapito di un’altra, esprimiamo la volontà culturale e politica di lavorare ad un avvicinamento delle varietà, senza che questo significhi prevaricazione.

Con questa postura il movimento linguistico sarebbe più forte ed autorevole, e potrebbe ottenere  quei cambiamenti epocali che, giustamente, si prefigge.

Le scomuniche lasciamole alla Chiesa di una volta.


[1] La diglossia è la distinzione di ruoli e funzioni, associata a una compartimentazione gerarchica delle lingue. La diglossia prevede che la varietà alta e la varietà cosiddetta bassa non si sovrappongano funzionalmente: mentre la prima è standardizzata, viene trasmessa dalla scuola ed è usata nello scritto e nei contesti formali, la varietà bassa viene acquisita spontaneamente come lingua prima ed è usata nella conversazione ordinaria e nei contesti informali

 

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