Carlo Rizzo ed i pionieri veneti di Arborea. Riflettendo su una vita e su un “unicum” permanente, di Alberto Medda Costella
L’intervista fa parte di un lavoro di ricerca sulla memoria che Medda Costella sta portando avanti da qualche anno nell’agro di Arborea, per rendere merito e dare voce a tutti i pionieri di questa terra che col sacrificio hanno contribuito a dare un’impronta a questa zona della Sardegna nota per i verdi campi e le sue geometrie.
Carlo Rizzo ha appena compiuto 90 anni. A vederlo ne dimostra almeno venti di meno. I lavori che continua a portare avanti nel suo podere sembrano confermare l’età del suo attivismo, non solo nel fisico, ma anche nello spirito. Affabile e sempre con la battuta pronta. Ci ritroviamo a casa sua in un pomeriggio umido di novembre, davanti al fuoco del camino che crea l’atmosfera giusta per andare con la memoria negli anni di gioventù. C’è anche la moglie Bruna Betteghella ad accompagnarci in questa conversazione. Lei è originaria di Villimpenta in provincia di Mantova, una delle zone che ha fornito anch’essa un contributo notevole alla colonizzazione di Arborea quando l’agro bonificato era ancora una terra vergine.
Carlo è arrivato in Sardegna nell’aprile del 1936 da Cessalto, insieme a tante altre famiglie del Trevisano, per prendere possesso, in quella che allora era ancora Mussolinia, del podere della strada 2, con «quattro vacche scarse, che no fasea gnanca latte». Per poi trasferirsi due anni più tardi nel podere della 14, dove vive ancora oggi: «prima de noantri iera la famiglia Tresoldi, de Bergamo. Gavemo sofferto anni, prima de scuminsar a star ben. Qua avemo dormio otto giorni in stalla dai pedoci e cimici che iera su a casa. El vecio Colusso e el vecio Stoppa i ga chiuso tutto ermeticamente e i ga tutto biancà. E dopo oto dorni ga ‘verto». Dopo è arrivata la guerra e i campi sono stati sgomberati per far spazio ai militari che avevano posizionato il filo spinato in gran parte del podere, e che davano anche una mano nei lavori di campagna. L’accesso e la permanenza erano consentiti solo a chi doveva stare accanto alle bestie. Il resto della famiglia era ospitato in un podere più interno alla bonifica. «A la diese de sera passava un battaglione de militari. Controllava tutta la fascia». Egli intende la fascia dei frangivento.
La storia di Carlo Rizzo è simile a quella di altri pionieri, che hanno vissuto gli stessi calvari e sofferenze. Prima di raccogliere i frutti del proprio lavoro hanno dovuto attendere anni. Vent’anni perfino, per beneficiare della riforma agraria del ’54. Anche lui era tra quei mezzadri che avevano richiesto a gran voce il passaggio dei poderi in proprietà, lavorati fino a quel momento per conto della Società Bonifiche Sarde. Era anche tra coloro – veneti di Arborea – che, ansiosi di ricevere dal Ministro dell’Agricoltura Amintore Fanfani l’annuncio del passaggio delle terre, fischiarono l’esponente democristiano: «Xè vignuo una volta e lo gavemo fiscià. Meglio fischiato oggi che pianto domani disse. Iero anca mi quel giorno. [...] Ierimo tutti i contenti perché vignea a darci i poderi. E questo xè vignuo a dirghe a noantri che semo fidanzati. E allora giù fischi». L’anno successivo sarebbe stato l’on. Giuseppe Medici, succeduto nel frattempo a Fanfani, ad ufficializzare il trasferimento di proprietà delle terre.
Per moltissimi anni Carlo è stato anche consigliere comunale. Si era allora nel periodo in cui ad Arborea i campi, la cui coltivazione era costata tanta fatica la mattina e la sera di ogni giorno, venivano abbandonati uno dopo l’altro e gli agricoltori si trasformavano in operai delle industrie della Lombardia e del Piemonte: otto ore in fabbrica, protezione sanitaria in caso di malattia, stipendio sicuro a fine mese, magari anche la Befana aziendale per i figli.
Oggi, Carlo Rizzo, insieme a sua moglie Bruna, rivede come in un film la sua vita operosa, quella di un veneto trapiantato in Sardegna: rimasto orgogliosamente veneto anche nella parlata oltre che nei sentimenti, ma anche, inevitabilmente, fattosi sardo sia per la terra isolana che ha lavorato che per le relazioni che ha intrecciato, soprattutto per la famiglia cui ha dato vita con la sua Bruna: tre figli (con altrettanti generi e nuore), otto nipoti e tre pronipoti.
Carlo Rizzo io l’ho capito così, quasi prototipo dei numerosi pionieri che con lui hanno condiviso l’avventura della nascita e dello sviluppo di Arborea lungo questi ultimi tre quarti di secolo e più: l’identità è una dinamica dello spirito, della nostra umanità profonda. Non avviene mai che una dimensione sopravvenuta cancelli la precedente; al contrario, se ne arricchisce, assorbendone gli umori migliori, quelli più creativi, e nel contempo offrendo ad essa il tanto che è nel suo patrimonio. Così il meticciato che ne deriva è un avanzamento insieme culturale, sociale e civile dei singoli e delle comunità, mai una omologazione banale e al ribasso, uno svilimento delle origini; esso costituisce semmai una universalizzazione dei linguaggi morali – quelli del lavoro e della cittadinanza –, una modalità per meglio intendersi e fraternizzare.
I veneti di Arborea sono rimasti tali, genuini e fieri della loro provenienza sociale e culturale, ed hanno arricchito la Sardegna con i loro talenti ed il loro esempio di lavoro e di vita; radicandosi nella piana terralbese fra la prima e la seconda guerra mondiale, essi dalla Sardegna hanno accolto le sante provocazioni dell’accoglienza e della semplicità rurale, e dai loro poderi – finalmente entrati nella proprietà familiare –, allargando lo sguardo, hanno registrato le trasformazioni epocali dell’Isola un tempo marginale. Hanno visto la grande industria venuta qui (spesso con le sue illusioni e le sue cadute anche rovinose) e sviluppatasi in parallelo al turismo costiero, i più alti standing di vivibilità (sia edilizia che igienico-sanitaria) dei centri anche di campagna, l’accresciuto livello scolastico della popolazione nella sequenza delle generazioni, purtroppo anche i flussi migratori che sembrano oggi replicare – pur con modalità tutte diverse ma non meno amare – quelli degli anni ’50.
In questo senso i nostri veneti si sono sardizzati, senza smettere di essere quel che la natura li aveva fatti. E per questa umanità raddoppiata sono apprezzati e anzi ammirati: conosciuti ed amati per l’unicum che continuano a rappresentare e che le loro cooperative agricolo-zootecniche ed i marchi commerciali delle loro produzioni sanno ancora proporre, con inalterato successo, in tutta l’Isola ed anche sul continente.