Monsignor Antonio Tedde, il vescovo della lettera “In paupertate”, nel 35° della scomparsa, di Gianfranco Murtas
Debbo alla cortesia dell’amico don Petronio Floris, direttore di Nuovo Cammino, periodico diocesano di Ales-Terralba, un diretto coinvolgimento nelle celebrazioni del 35° della morte del vescovo indimenticato Antonio Tedde. Un anniversario giubilare che si accompagna all’invito rivolto dal vescovo oggi in cattedra, padre Roberto Carboni, a chiunque abbia da recare particolari testimonianze di vita sul presule, di farne rapporto riservato in curia. Ho così consegnato alla redazione due articoli il primo dei quali è uscito sul numero ora in distribuzione, il 13 del 23 luglio 2017; il secondo è in programma alla ripresa autunnale delle pubblicazioni.
Ecco di seguito il testo (nella sua stesura integrale) apparso su Nuovo Cammino, con titolo e occhiello rispettivamente “Mons. Tedde a 35 anni dalla morte” e “Anniversario. La personalità del Vescovo morto il 5 agosto del 1982, nel contesto politico, economico e socio religioso dell’Isola nel dopoguerra”.
Un presule nel suo tempo, nella sua comunità
Bisogna storicizzare monsignor Antonio Tedde, inquadrandolo nel suo tempo. Si tratta cioè di compiere una operazione che non è facile per chi, come me e come molti, i più della diocesi di Ales-Terralba, non soltanto hanno vissuto lui, ma hanno vissuto il suo stesso tempo. Perché questo significherebbe storicizzare noi stessi… e leggere con distacco critico la propria presenza sociale sarebbe, forse, un vero e proprio azzardo.
L’amore che abbiamo voluto a questo piccolo grande vescovo, però, ci impegna oggi, a trentacinque anni dalla morte che fu dolorosa e infine liberatoria per lui, soltanto dolorosa per noi, in questo sforzo ed a filtrare il tanto che potrebbe venirci dall’affetto, o da un certo idem sentire ideale, condizionandoci nel giudizio.
Peraltro, debbo altresì premettere ed ammettere, circa quanto specificamente possa riguardarmi nella relazione con lui, che le ragioni o l’intensità della testimonianza ben possono, nel concreto, tenere quella distanza: perché del vescovo Antonio io non sono stato diocesano se non di complemento, nella mia infanzia e adolescenza in occasione delle permanenze estive ad Arbus, il paese d’origine dei miei, frequentatore domenicale, con nonni, zii e cugini della parrocchia di San Sebastiano – erano i tempi del parrocato di don Mario Meloni prima e don Eliseo Corona poi (proveniente da Tuili e da precedenti esperienze missionarie in sud America); nella giovinezza poi, lungo la stagione protrattasi svariati anni della residenza (per lavoro e anche per vita) a Villacidro, assiduo della compagine comunitaria della Madonna del Rosario, parroco pioniere don Angelo Pittau, e rapsodico frequentatore della chiesa madre di Santa Barbara: quando a Villacidro, dopo lo storico parrocato di don Giuseppe Diana, la responsabilità comunitaria era passata a don Modesto Floris e in paese don Giovanni Pinna – altro ex fidei donum come don Floris e come don Pittau! – aveva lanciato, con i giovani del suo gruppo di discussione, il periodico Noi e… Sarebbe venuto, di lì a poco, Confronto, nuova testata di area ecclesiale ma aperta ad ogni altra istanza culturale e civile, dovuta – per ricondurre i venti nomi degli iniziatori a due soltanto – al tandem (sincronizzato fin dagli anni del seminario cuglieritano) Angelo Pittau – Petronio Floris.
Mancava allora il giornale diocesano – quel Nuovo Cammino che per tanti motivi si lega fin quasi dall’inizio all’episcopato di monsignor Antonio Tedde – e qualche numero unico di Testimoniare oggi non poteva coprire, per tante ragioni, lo spazio che quel periodico aveva presidiato e soddisfatto per così lungo tempo (ed avrebbe felicemente ripreso più oltre). Pur senza eccessi od enfasi, il vescovo di Ales (allora di Ales e Terralba, questa la dizione ufficiale del tempo che della diocesi anticipava, da sola e parzialmente, la policentricità) intuiva, anzi conosceva l’importanza di un giornale di informazione e insieme di formazione ecclesiale, pur scontando infiniti limiti sia materiali, di organizzazione e di bilancio, sia sul piano delle collaborazioni continuative: il giornale doveva diffondere la voce del vescovo, doveva riferire l’agenda delle parrocchie territoriali e dell’associazionismo attivissimo allora, doveva riproporre – con firme d’eccellenza come fu quella di monsignor Severino Tomasi – la storia delle comunità d’una Chiesa locale antica e dire delle sue preziosità architettoniche ed artistiche oltreché delle sue molte pagine di santità. Doveva seguire anche, quel giornale, i passaggi sociali, e/o economici, di quella parte di Sardegna, fra medio Campidano, Marmilla e basso Oristanese costiero che, dopo secolari povertà subite quasi con rassegnazione, rivelava un potenziale di sviluppo tanto nell’agricoltura quanto nell’industria e nei servizi (il turismo soprattutto) che una classe dirigente all’altezza avrebbe dovuto cogliere e tradurre in realtà effettiva.
S’aggiungono, nelle mie occasioni d’incontro e colloquio con monsignor Tedde – e contribuiscono anch’esse a un quadro di conoscenza utile, almeno per certi aspetti, alla sua storicizzazione –, le circostanze che si situano giusto nel crepuscolo della sua esistenza: intanto per il giudizio ch’ebbe ad esprimermi sul… giudizio che lo riguardava, espresso in un certo mio reportage televisivo da un laico come il dottor Armando Corona, uomo politico di grande notorietà che fu medico condotto ad Ales dal 1955 e per dieci anni e più (e genericamente nella Marmilla fin dal 1947), medico curante anche del vescovo, in un rapporto biunivoco sempre cordiale e talvolta perfino irreverentemente complice (contro le piccinerie democristiane del paese). Poi nell’ospedale SS. Trinità di Cagliari, divisione Urologia, dove lo visitai sofferente, pochi giorni prima della morte.
Ma oltre che sulla sua umanità, o su taluni tratti di una umanità che indubbiamente fu ricca tanto quanto povera furono e restarono la sua tasca, il suo abito, la sua casa, è sulla pastorale pubblica del presule che deve formarsi e formularsi una valutazione compiuta da porsi in termini, dicevo all’inizio, di storicizzazione della sua figura.
Perché monsignor Tedde appartiene a quella certa generazione di vescovi sardi – segnatamente Melas di Nuoro, Fraghì di Oristano, Botto di Cagliari, e metterei parzialmente nel conto anche Spanedda di Bosa – cui è toccato guidare le comunità diocesane dell’Isola a partire dal secondo dopoguerra, arrivando agli anni ’70 e perfino ’80 dopo aver vissuto, con la propria Chiesa particolare, la stagione rivoluzionaria del Concilio Vaticano II. Allora cambiò, per rielaborazione convinta nei suoi fondamentali, la visione ecclesiologica anche dei presuli sardi e italiani – culturalmente e teologicamente meno provveduti dei loro colleghi soprattutto mittleeuropei (francesi e tedeschi, per non dire anche belgi ed olandesi) – e la direzione nuova fu allora duplice, richiedendo una obiettiva grande fatica di riconversione: nel passaggio dalla ecclesiocentricità alla cristocentricità, che metteva in campo quindi la scoperta feconda e godibile dell’ecumenismo (si pensi soltanto, come conseguenza, alle riformulazioni dell’Ottavario per l’unità della Chiesa o alla liturgia del Venerdì santo! oltreché al recupero “pubblico” dell’Antico Testamento); e nella tendenziale (all’inizio timida e soltanto accennata) sinodicità anche delle Chiese locali, almeno in quelle formule di apertura ai consigli presbiterale e pastorale, con tutte le possibili declinazioni operative, che andavano insieme a supporto delle decisioni vescovili ed a responsabilizzare, ciascuno con il proprio carisma, gli appartenenti al “popolo di Dio”.
Ricordo a questo proposito proprio monsignor Tedde a Villacidro, doveva essere il 1980 o press’ a poco. In una stagione di cresime amministrate nella chiesa madre di Santa Barbara. Ammoniva il vescovo i due-trecento presenti, tutti stretti lì nella grande navata o presso le cappelle laterali: non si assiste alla messa come ad uno spettacolo celebrato dal ministro consacrato, si partecipa alla messa, la si concelebra da parte del popolo con il presidente, presbitero – anziano di comunità – o vescovo.
Episodio forse minimo ma indicativo – ormai a tre lustri dalla chiusura del Concilio che da giovanneo s’era fatto espansivamente paolino – dell’ansia di pedagogia pastorale ancora presente nel piccolo ed ormai anziano, sempre generoso, vescovo di Ales.
La Chiesa sarda negli anni ‘50
Storicizzare monsignor Antonio Tedde. Gli elementi che vorrei mettere in questi rapidi appunti – non saranno più di questo – per una analisi della sua figura di pastore e della sua opera sono riconducibili a quattro alinea: alla sua formazione ed esperienza nel clero sassarese fino alla promozione episcopale; alle sue scelte programmatiche prioritarie (nel segno della profezia vera e propria) dichiarate già dal 1948-1949, cioè al suo arrivo in diocesi; alle complesse dinamiche che marcarono il suo coinvolgimento nella stagione conciliare; alla lealtà realizzativa dei deliberati conciliari nel territorio, che ho definito policentrico, della Chiesa locale.
Intanto merita collocare monsignor Tedde all’interno degli assetti della Conferenza Episcopale Sarda dalla fine degli anni ’40 e per tre decenni abbondanti. Quando egli fu promosso da Pio XII alla cattedra vescovile i presuli delle maggiori diocesi vivevano tutti quanti dell’angoscia di come pilotare, dopo la caduta della dittatura e i disastri materiali e morali della guerra, la riconquista guelfa della società isolana. Per questo, assicurato dal voto del 18 aprile 1948 il ruolo di leadership politica nazionale al partito della Democrazia Cristiana, e fissata in termini di collateralismo la missione del maggior associazionismo cattolico (Azione Cattolica ed ACLI in testa), si sarebbe presto potuto far conto sulla preminenza del Biancofiore anche nella Regione autonoma oltreché nel vasto raggio delle amministrazioni comunali e provinciali e così degli enti strumentali o di settore. La connotazione agricolo-pastorale dell’economia sarda aggiungeva, al bacino del consenso politico ispirato da vescovi e parroci, il grande movimento dei Coltivatori diretti e quello delle “pie unioni” che associavano i lavoratori di categorie contermini, da quelle del bracciantato a quelle della pastorizia, ecc.
Tutti gli anni ’50 furono spesi dal cattolicesimo politico, con diretta intrusione del clero, nella realizzazione – all’interno ovviamente di nuovi assetti sociali ed economici ancora ampiamente insufflati da un certo, e pur necessario, assistenzialismo (teso sempre fra paternalismo e sussidiarietà) – di presìdi capaci di raccogliere e coordinare bisogni ed aspettative e favorire, così nell’occupazione come nella previdenza, le risposte possibili: di lato naturalmente alla costruzione di chiese nuove o nuovi oratori, asili, ricoveri, scuole. Se nelle priorità della Chiesa, dei suoi vescovi e del suo clero, entrava il progetto pedagogico finalizzato alla formazione delle giovani generazioni, non potevano ovviamente mancare le attenzioni al plenum anagrafico della società: ai lavoratori delle campagne e delle officine – in qualche area anche delle miniere – così come (protetti e protettori) degli uffici pubblici –, ma anche alla grande massa delle casalinghe, alle zitine, fino alla popolazione anziana verso cui confluivano, coincidendo, pietà e riconoscenza per l’indubbio merito sociale, tanto più nelle comunità rurali indebolite dai flussi migratori della forza lavoro giovane. In tempi ancora di polarizzazione urbana temperata, non era granché diversa la Sardegna del nord da quella del sud, la Sardegna delle zone interne e quella più prossima alle cose.
La visione ecclesiologica ed il sentimento pastorale degli uomini di Chiesa in quel passaggio di decennio dopo la guerra, e successivamente ancora, furono quelli del protettorato sociale e di una autoreferenzialità istituzionale, tanto più nella docenza regolamentatrice anche dei costumi e non solo circa le verità della fede. Nel 1948, quando il nuovo presule arrivò ad Ales – dopo l’amministrazione apostolica di monsignor Pirastru, seguita a quella del compianto arcivescovo di Oristano Giuseppe Cogoni –, i vescovi sardi erano per i due terzi anziani (sfiorando come media i 70) ed i nuovi che con lui avrebbero da allora ricoperto le caselle scoperte portavano con sé imprinting non granché diversi, pur se accompagnati da un dinamismo operativo che lo scarto anagrafico consentiva. Dal 1931 reggeva il bacolo nell’archidiocesi di Sassari il minore osservante fra Arcangelo Mazzotti, bresciano classe 1880, presidente della Conferenza sarda in entrata (per la scomparsa, di lì a pochi mesi, di monsignor Piovella); dallo stesso anno e da quello precedente guidavano la propria Chiesa, rispettivamente quella bosana e quella iglesiente, monsignor Nicolò Frazioli, sassarese classe 1880, e monsignor Giovanni Pirastru, ploaghese classe 1883; a Lanusei il carico era, dal 1936, su monsignor Lorenzo Basoli, ozierese classe 1895; ad Alghero ed Ozieri le fatiche gravavano, dal 1939, sulle spalle del mercedario fra Adolfo Ciuchini, viterbese classe 1881, e del quartese Francesco Cogoni, classe 1894; a Cagliari era prossimo a chiudere il suo ciclo il più che ottuagenario monsignor Ernesto Maria Piovella, oblato di Rho originario di Milano.
Doveva, il giovane don Antonio Tedde, con i colleghi Melas e Fraghì, pressoché coetanei, ed anche con Botto, destinato alla maggior archidiocesi, segnare con i crismi della Chiesa la società che si temeva, con la modernità alle porte e la democrazia politica ormai recuperata e rilanciata, esposta ai rischi della incontrollata autonomia e della secolarizzazione. E di crisma egli segnò, bisogna dire, da subito e nella concretezza del bacino sociale, il medio Campidano, la Marmilla ed il basso Oristanese con una scommessa evangelica assai più che clericale, proprio sviluppando la pratica da lui attivata nella comunità aperta di San Donato a Sassari: con la testimonianza della povertà – e dunque con la condivisione anche materiale della condizione di vita dei più – e con la promozione delle scuole medie e magistrali, così da superare i ritardi dello Stato e favorire le condizioni di base del decollo culturale-sociale-economico dei territori.