Quella omelia politica del 2000, nel tempo della amistade con monsignor Ottorino Pietro Alberti, di Gianfranco Murtas
Ormai in diverse occasioni ho portato una testimonianza sulla personalità, indubbiamente di spicco sotto molti profili, di don Ottorino Pietro Alberti, arcivescovo di Cagliari dal 1987 al 2003, quindici anni e qualche mese: un periodo di poco più lungo di quello che lo vide presule delle Chiese unite di Spoleto e Norcia in Umbria (1973-1987).
Ora che ci avviciniamo al quinto anniversario della sua dolorosa scomparsa, avvenuta nella Nuoro che amò intensamente come madre di cultura morale e civile, mi sembra giusto tornare in argomento e nuovamente riferire a lui gli onori meritati. E, aggiungo, tanto più questo ha senso pensando che proprio l’attuale vescovo di Nuoro – don Mosè Marcia – è stato, negli anni cagliaritani, uno dei maggiori collaboratori di don Ottorino, sia come parroco (ai SS. Pietro e Paolo, nel quartiere di Is Mirrionis), sia prima come rettore del seminario diocesano, sia infine come amministratore ed economo. Un ruolo, quest’ultimo, che lo portò – con la sobrietà e la signorilità che gli sono note – all’interno di una vicenda di contrasto che mi vide attore contro l’arcivescovo. Si trattava delle rendicontazioni dei cospicui impieghi dell’8 per mille – denaro pubblico e dunque doppiamente da rispettare – che mancavano allora nella archidiocesi, lacuna che vanamente avevo ripetutamente chiesto all’ordinario di sanare.
Fu un contenzioso che durò a lungo e che qui non dettaglierò, allargandosi esso poi a diversi altri aspetti del governo canonico locale. Il vescovo Marcia, allora – come detto – economo dell’archidiocesi, ed il vicario generale di Cagliari, don Gianni Spiga, si spesero in una spontanea e generosa opera di mediazione che, se non valse a risolvere il… casus belli nel suo merito, propiziò però, con lenta ma opportuna gradualità, una maggiore distensione e positività nel nostro interfacciarci. La cosa – intendo la relazione fattasi amica – si sviluppò poi intensamente e durò fino alla fine, protraendosi per molti e molti anni, gli ultimi cagliaritani e tutti quelli del riposo nuorese di don Ottorino, dopo l’arrivo a Cagliari del suo (non rimpianto) successore. La relazione con l’arcivescovo Alberti comprese allora pagine chiamale culturali, nello scambio ripetuto di libri a cui non potevano mancare le… recensioni d’accompagno, estemporanee ma puntate magnificamente all’oggetto, ora sulle Sette fontane di Santulussurgiu (di remota titolarità dell’ordine di San Giovanni di Gerusalemme), ora sul profilo ecclesiale e politico del vescovo Demartis ed il suo tempo (sullo sfondo Pio IX e Giorgio Asproni, i moti di su connottu e l’antivigilia di Porta Pia), ora ancora sul Novecento nuorese con le perle civili dei Mannironi e dei Mastino, degli Oggiano e Pinna e Melis, delle rispettive biblioteche e dei rispettivi archivi. Ancora, dei Giacobbe e del vescovo Cogoni l’antifascista che arretrò però davanti agli umori ideologici e anticlericali della guerra di Spagna, e prima di lui del vescovo Luca Canepa, dei Canepa che avevo biografato ed era rimasto rappresentato addirittura ne Il giorno del giudizio di Salvatore Satta. Entravano anche, ed erano gran cosa, le pagine sociali, tese magari fra carcere e comunità ed ospedale, fra Buoncammino e La Collina e la divisione del SS. Trinità…
Fu nel quadro appunto di una confidenza reciproca che, nonostante le distanze, era andata prendendo corpo in quell’inizio di autunno del 2000 – anno giubilare –, che don Ottorino mi chiese di collaborare alla sua omelia per la solennità liturgica di San Saturnino patrono di Cagliari.
Ormai da un decennio egli aveva introdotto la prassi di non sprecare l’occasione del convegno, nella cattedrale di Santa Maria, a Castello, delle maggiori autorità del territorio – politiche e militari, accademiche e pubbliche lato sensu – per rappresentare loro, con un’efficacia accresciuta dal rimbalzo che la stampa prontamente forniva, la lettura critica della Chiesa locale circa la condizione sociale della cittadinanza, e circa, più propriamente, la precarietà dello stato di vita dei ceti più deboli.
Il travaglio di una relazione
Le esperienze mie maturate lungo gli anni, i decenni anzi, ed emerse senza forzature o accelerazioni nella scioltezza e nella autenticità delle belle conversazioni – dai brefo frequentati nell’adolescenza alle comunità di recupero dei tossicodipendenti di don Angelo Pittau e padre Salvatore Morittu frequentate negli anni ’80 e ’90, per non dire della “tenda” piantata per sette anni pieni fra i malati di Aids (fino ad un glorioso epilogo… antidemocristiano in tribunale) – lo avevano incuriosito e tutto era andato meglio definendosi nei nostri incontri personali così come nelle chilometriche telefonate.
S’era specialmente interessato alle modalità della mia presenza “autopromossa” ed “autogestita” nelle corsie del reparto Infettivi, fra quei ragazzi “di strada” quotidianamente incontrati e “accompagnati” anche oltre le flebo e le terapie, nei periodi di bonaccia invece, fra ricovero e ricovero, con espansioni anche verso le necessità familiari, di madri e padri, di mogli o mariti e figli. Così anche alle intensissime relazioni – inizialmente soltanto epistolari per il divieto impostomi da un certo ostile direttore di stabilimento – con i detenuti di Buoncammino, e poi anche di Iglesias, di Oristano, di Mamone, di Is Arenas –, ai contatti variamente modulati (e fin dal giorno del debutto, signore della buona causa il giovanissimo e indimenticato Antonio Zinzula) con la comunità La Collina in Serdiana o, già prima, con gli anticipatori rivoluzionari, i valentissimi artigiani-artisti di Sestu, ed ancora all’allestimento di una casa-alloggio, completamente gratuita, dapprima per i familiari (non residenti in città) dei bambini degenti all’Oncologico o al Microcitemico, poi dei ragazzi comunitari a completato programma riformativo di Mondo X. Interessava monsignore, questo gran faticare, che aveva poi una sola motivazione in chi ha sempre creduto al dovere inclusivo della società: che se si vuole, anche con pochi mezzi materiali, si può; e se si può, si deve.
Aveva anche visto come queste varie esperienze potessero avere una ribalta nella scrittura, nell’editing a guadagno zero ma a forte impatto testimoniale e dunque a ricompensa sociale. Alle presentazioni dei volumi della collana di Partenia – la città della sofferenza giovanile – erano intervenute complessivamente mille persone! Al tavolo l’autorevolezza di don Cannavera, di padre Morittu, del professor Manconi, del dottor Congia e del dottor Oliverio – amico memorabile ed ammirato, poi celebrato anche con un libro nell’aula magna del Brotzu, e patrono ideale di una cospicua donazione sociale alla comunità sulcitana di via Marconi –, alla tribuna del dibattito i ragazzi dell’ospedale in ripresa e qualche volontario, qualche ex detenuto e don Usai, e don Morfino oggi vescovo ad Alghero… Con i libri i documentari filmati, gli articoli di giornale, perfino quella certa querela ricevuta e otto udienze in tribunale, con il mal di pancia ma nessuna finale condanna. In almeno uno dei volumi di Partenia monsignore era stato, lui personalmente, criticato con durezza per la sua parte, ma egli signorilmente non mi contestò mai i giudizi lealmente espressi. Così come non si lamentò mai della rappresentazione che di lui, ancora con piena lealtà e abbondantemente all’interno della stagione delle reciproche affettuosità, mi sarei sentito di proporre in Lo specchio del vescovo, il libro riferito al caso tremendo di don Tonio Pittau e all’inconfessabile mondo che gli rubò la vita, senza che dall’episcopio tanto prossimo ci si fosse accorti di nulla.
Era questo l’humus umanitario, laico e cristiano ad un tempo, nel quale maturavano, in concretezza (e pur nella loro obiettiva modestia), le esperienze alternative verso cui don Ottorino aveva in ultimo, e in crescendo, orientato interessi e domande, sviluppando un’ansia di conoscenza – adopero forse espressioni forti, ma capaci di rendere l’idea – che la formazione clericale aveva come stroncato sul nascere e la pratica pre/anticonciliare della Lateranense aveva anch’essa mollemente impedito. Fu così – propongo questo caso fra gli altri – per “il giovedì” della comunità La Collina, sia nel tempo meditativo del programma che in quello conviviale, tutto orizzontale, tutto all’insegna dell’incontro fra i diversi e del trionfo del meticciato creativo. Perché andava rimediata l’onta di una sospensione disciplinare, breve ma comunque imbecille, al ministero di don Cannavera.
Dunque si avvicinava, nell’ottobre 2000, la data della messa solenne in cattedrale e dell’omelia impostata come una lettura dello stato della città, dei suoi poveri antichi e dei suoi poveri nuovi, degli spazi crescenti di marginalità, delle risposte generose ma inadeguate del volontariato sparso ed organizzato, delle non-politiche o delle toppe offerte dalle istituzioni, fra Regione e Comune o Provincia. Aveva steso un testo di base, il presule, mi aveva chiesto – molto gratificandomi per la fiducia, che ovviamente toccava a me dimostrare ben riposta, non pretendendo da lui quanto avrei detto io con personale responsabilità – un contributo tematico e problematico, sulle questioni, cioè sulle analisi, e sulle domande di risoluzione pertinente.
Mostrò da questo punto di vista un’apertura piena, convinta e scopertamente evangelica, avanzata nel tratto dialogico e collaborativo, umile nel dare e umile nel prendere. Sì, soprattutto umile nel dare e umile nel prendere. Caro don Ottorino. Come anche confermò quella volta che insieme andammo alla Collina – ci portava in macchina un ragazzo già della comunità di padre Morittu ed attendato allora a casa mia, oggi anche lui in benedizione – , e scoperse un mondo nuovo che lo incantò, accettando anche la provocazione («hai ragione!») che gli avevo affacciato circa la prepotenza antiapostolica dei vescovi di potere contro gli anticipatori evangelici. (Egli era biografo di Pio IX, che peraltro lo aveva preceduto sul seggio episcopale di Spoleto, e lo ammirava, ma pur non poteva negare le ghigliottinate che egli autorizzò fin quasi alla vigilia di Porta Pia! E povero Rosmini, e povero Muzzetto, e poveri dopo Turoldo o Balducci o Bello, o Mazzolari o Milani: quell’«hai ragione» era riferito alla più elementare delle osservazioni con cui avevo ribattuto alla sua petizione di… pazienza rispetto ai tempi di presa di consapevolezza piena da parte dell’autorità: «sì, ma nel frattempo ci sono le vittime, nella Chiesa le vittime dei vescovi con autorità ma senza autorevolezza»…).
La collaborazione offertami in proposta e restituitagli in “cosa” non poteva naturalmente significare che la sua pastorale e anche il suo governo canonico io li condividessi. Neppure in quella fase di amistade. Egli lo sapeva, e non ne era contento, ma capiva le ragioni. Comprendeva bene, peraltro, che a costruire ponti non convenzionali potevano bastare la benevolenza da parte sua – obbligo di coscienza per un vescovo – e la convinzione della mia buona fede. Bastavano però a coprire le distanze, quei ponti che non avrei praticato con i due successori (rimasti, per motivi diversi, estranei al range della mia stima). Valevano, quei ponti, per andare e per venire, pensando soltanto alla missione che entrambi ci coinvolgeva – raccogliere mattoni per la società inclusiva cioè –, lui regista monsignore, io azionista e liberale di strada.
Quella omelia per la festività di San Saturnino, letta alla messa solenne delle 19 in Santa Maria, lunedì 30 ottobre 2000, la pronunciò con piena convinzione, e i nomi di San Romero d’America, martire del vangelo di giustizia, e di padre Ernesto Balducci, profeta dell’uomo planetario – e così, da sempre, amico della nostra Sardegna – uscirono dalla sua bocca vivi e caldi come quelli dei Padri della Chiesa o degli stessi apostoli e martiri della prim’ora.
Mi vien da pensare adesso alla visita recente di papa Bergoglio alle tombe di don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. Mi vien di pensare alla promozione recentissima al cardinalato di uno dei più cari collaboratori di monsignor Romero, il vescovo Gregorio Rosa Chàvez, ausiliare di San Salvador. A monsignor Romero il nostro cardinale Baggio, prefetto della congregazione dei Vescovi, e lo stesso papa Giovanni Paolo II oggi santo, fecero fare anticamera di giorni prima d’essere ricevuto e rimproverato per troppo vangelo nel suo bacolo; don Rosa Chàvez recupererà per lui, adesso, in attesa della proclamazione canonica di una esemplarità (chiamala pure santità) troppo a lungo misconosciuta dalle infelici burocrazie curiali.
Ecco dunque, il testo della omelia pronunciata dall’arcivescovo Alberti nella solennità liturgica di San Saturnino martire del 2000. Esso è stato pubblicato anche in Notiziario Diocesano n.4/Ottobre-Novembre-Dicembre 2000 pp. 900-904 ed in Miscellanea ieri e oggi del Notiziario Diocesano, a cura di Gianfranco Zuncheddu, vol. I – “Omelie nelle feste di San Saturnino (1990-2000)”, nella specifica pp. 61-65 con titolo “Carità e politica unite nello spirito di servizio” .
Le regole d’una società inclusiva, fra benessere e benavere
«Il giusto, come il legno di sandalo, profuma l’ascia che lo colpisce».
E’ un verso orientale che mi piace molto. Esso diventa emblematico soprattutto oggi nella solennità di San Saturnino, martire cristiano.
E lo è un po’ per tutte le vittime della storia, il cui sangue non è mai versato invano. Non solo perché questo è “seme”, ma anche perché lascia una striatura di luce nel fondo tenebroso del cuore del persecutore e dell’oppressore. La potenza del giusto che cade ed è schiacciato è, in realtà, più alta del carnefice che può solo spezzare, uccidere, finire: il giusto crea, feconda la storia, sfida i secoli. Chi sta dalla parte della morte può solo concludere; chi crede nei valori apre orizzonti eterni. La spada uccide i corpi; le idee e l’amore sono indistruttibili.
Un martirio non può lasciare del tutto identico il boia. La sua lama odorerà di sandalo, la mano omicida porterà con sé una stimmata che il santo vi ha lasciato. Nella storia non è raro il caso d’un carnefice che si converte dopo aver eliminato un giusto. E’ questa la forza del perdono cristiano. E’ su questo che scommette chi porge l’altra guancia e si lascia strappare anche il mantello dal suo oppressore, secondo le celebri immagini della non-violenza evangelica.
Malraux, noto scrittore e uomo politico francese, aveva scritto che «l’uomo non vale nulla, ma nulla vale quanto un uomo». La fragilità della vittima è evidente, la sua debolezza è persino umiliante. Eppure nulla è così grande come la sua morte, nulla è così potente come la sua debolezza. La croce di Cristo piantata nella storia ne è la più luminosa dimostrazione.
A tutti e a ciascuno dello sterminato popolo dei martiri che hanno onorato, lungo i secoli, la storia della Chiesa, quando essa più intimamente si è confusa con la storia della umanità e della libertà, si volge oggi il nostro pensiero: il vostro e quello del vescovo che oggi vi parla. Il quale osa qui richiamare, anche per la spinta della attualità, emblematicamente, soltanto due campioni, due modelli di eroicità nella testimonianza: uno laico, Tommaso Moro, che sarà fra breve, giustamente, proclamato patrono dei politici, degli uomini cioè chiamati a servire sempre il bene comune nel suo divenire; uno religioso, Oscar Arnulfo Romero, mio confratello nell’episcopato, servitore del suo e nostro Signore nell’accompagnamento fedele al popolo offeso dalla prepotenza di generali violenti ed avidi magnati.
Il nome benedetto del martire Saturnino, che rimonta ad altre epoche della storia e che oggi onoriamo ed invochiamo, è ormai indissolubilmente legato a quello della nostra splendida Cagliari, di cui è amatissimo patrono.
Tutto qui, adesso, riaffiora. Credo che sia forte per tutti noi l’appello che ci viene dalla “situazione” della città e del mondo. La situazione è anche, è soprattutto un appello, una richiesta di intervento, un’occasione che la Provvidenza ci offre per un’assunzione più consapevole e più responsabile dei nostri compiti. Il segno dei tempi ci interpella come Chiesa e sollecita la nostra opera di discernimento e di presenza ed attività nell’oggi e nel qui, perché il bene venga potenziato e portato possibilmente al suo compimento e il male sia contrastato e possibilmente eliminato.
Importa, intanto, la matura consapevolezza del contesto nel quale noi viviamo e siamo chiamati a rispondere alla chiamata.
Città-cuore del Mediterraneo per grazia di natura, Cagliari condivide, con la sua storia e la sua attualità, e anche con le sue attese di futuro, la vicenda dei popoli di altre etnie e religioni, di altri costumi ed assetti sociali. Figli di quei popoli, in prevalenza poveri e sofferenti, sempre più numerosi entrano in rapporto con le terre del benessere, anche con noi avamposto dell’Europa nel mare delle più antiche civiltà.
Questa semplice constatazione induce a ripensare criticamente ai nostri stessi modi di essere come uomini e come cristiani: se e quanto aperti all’accoglienza e al dialogo, alla progettazione del futuro “insieme”, senza rinunce dell’irrinunciabile – né sul piano ideale e dei valori né su quello spirituale -, ma anche col gusto autentico dell’amicizia e dell’integrazione. Un’integrazione che significa capacità e forza di far morire il pregiudizio di ostilità per paura ed ogni immotivata eccessiva autoconsiderazione.
Mi piace a tal riguardo riproporre, in estrema sintesi, una riflessione “profetica” del compianto padre Ernesto Balducci sulla «religione che assume come valore sommo la salvezza dell’uomo mediante il dono della propria vita».
Egli ricordava il volontario sacrificio di quattro uomini di fede, di quattro cappellani militari, durante l’ultima guerra: un rabbino, un sacerdote cattolico, due pastori protestanti, che avevano funzionato su una nave alleata, ora colpita da un siluro nazista nelle acque della Groenlandia: «Tutti e quattro avevano avuto la loro cintura di salvataggio, ma ciascuno aveva offerto la propria cintura ad un uomo dell’equipaggio. Stavano ritti e immobili tenendosi per mano, addossati contro il parapetto: pregavano».
«Si stanno consumando le pareti di separazione tra le molte etnie», è il commento finale, in chiave di attualità, del teologo che scruta i segni dei tempi e vede nel “martirio” – cioè, etimologicamente, nella “testimonianza” – il varco della nuova età, l’età della giustizia e della solidarietà che è fatto etico e politico ad un tempo.
Così è sulla scena internazionale che ben si combina con quella conosciuta e, direi, domestica. Sì, un terzo abbondante dell’umanità rimane escluso dal banchetto del benessere che, invece, in una società equa e solidale – la sola che rifletta il modello evangelico di carità e fraternità – dovrebbe essere aperto a tutti.
L’attento lettore della Parola di Dio non può esserne che salutarmente scosso. Questa forza esterna, capace di rimettere in gioco la folla degli esclusi, non potrebbe, anzi non dovrebbe essere la comunità cristiana?
Guardiamo alla nostra realtà locale. Le nuove povertà si aggiungono e cumulano alle vecchie. Le nuove sono quelle che la società moderna spontaneamente crea e coltiva e magari elabora e classifica come categorie per gli studi sociologici: sono gli anziani privati della vita di relazione; i minorenni derubati delle condizioni necessarie ad una crescita serena, se non addirittura abbandonati al pascolo della malavita soprattutto nei quartieri delle periferie urbane; gli handicappati fisici e mentali esclusi dalle opportunità agli altri offerte; i tossici ed alcooldipendenti – quanti anche fra i giovani di venti e trent’anni ne incrociamo nelle nostre strade di Cagliari! -; i carcerati stipati come topi in celle anguste ed impediti nell’accesso a validi programmi di rieducazione civica; gli ex detenuti non sostenuti nel loro effettivo reinserimento produttivo e sociale, il che li porta a frequentissime recidive; i dimessi dagli ospedali psichiatrici che ancora vediamo sbandati o gravanti sulle fragili compagini familiari; i ragazzi e le ragazze che, sovente provenienti dalle aree più deboli del mondo, sono preda dei racket nelle strade… Né può mancare qui un pensiero ai bambini che la cronaca recente ci ha drammaticamente proposto, violati nelle stesse case nelle quali dovevano trovare maggiore protezione, vittime dei peggiori guasti che, forse anche alimentati da edonismi senza freni, possono imbarbarire le coscienze e le menti.
Le vecchie povertà sono quelle che paiono legate a un certo modello di sviluppo volto a dare persone alle cose, piuttosto che cose – ed evidentemente non solo cose – alle persone. Sono le contraddizioni di una società che usiamo definire “del benessere”, ma che potremmo meglio chiamare del “beneavere” per molti, appunto non per tutti. Perché una quota della popolazione non gode del “beneavere” né può consolarsi con la speranza di un futuro che sia già in cantiere… Quanti sono, anche nella nostra città, quelli che mancano della salute, o della casa, del lavoro, del salario familiare, dei livelli minimi d’istruzione, della possibilità concreta di partecipazione. Il mondo degli emarginati è vario, complesso, affollato. Si voglia o no, una vergogna per tutti.
«Contro la fame cambia la vita»: gli slogan da tempo ricorrenti nella pubblicistica e nella pastorale hanno trovato una conferma nell’insegnamento di Giovanni Paolo II.
E’ evidente che l’indicazione mantiene tutto il suo valore se rivolgiamo la nostra attenzione al sistema dei rapporti sociali: cambiare gli stili e i comportamenti è un programma di vita anche e prima di tutto per gli individui, un impegno comune richiesto in ogni latitudine, nella nostra città come sulla scena internazionale.
Una via aperta, dunque. C’è sempre molto, troppo superfluo nella vita degli uomini e delle famiglie di oggi. Anche in coloro che non appartengono formalmente alle fasce della ricchezza e dell’abbondanza. E la rinuncia, il distacco costruiscono le forti personalità, mentre permettono di dare un aiuto a coloro che hanno bisogno o che hanno più bisogno di noi.
E’ un’offerta di cose, ma può essere, dovrebbe essere, anche una offerta di tempo, di energie, di intelligenza, di creatività, di cultura, di allegria del cuore. In fondo, la grande lezione che dal variegato movimento del volontariato, cattolico e non, sorto e sviluppatosi negli ultimi anni, ci è venuta è proprio questa: «noi attraverso gli altri scopriamo e costruiamo la nostra identità, attraverso gli altri diamo un senso alla nostra esistenza». Perché siamo votati ad essere famiglia.
Insomma: dalla esperienza concreta del volontariato – e noi lo possiamo incontrare tutti i giorni anche a Cagliari – è possibile, è bello trarre il suggerimento ad un modo diverso di essere e uomini e cittadini. Ad essere “martiri”, cioè testimoni di quel che sentiamo essere il senso vero ed alto della vita, come lo furono – volontari nella suprema delle prove, volontari nel martirio, volontari nella lealtà al Signore venuto nel mondo senza essere accolto dal mondo – Saturnino, Tommaso Moro, Oscar Arnulfo Romero e quanti altri della sequela, nelle diverse circostanze della storia.
Come in un’operazione chirurgica, il male si elimina estirpandolo alla radice. Fuor di metafora, agendo sulle strutture di peccato che, per essere rimosse, hanno bisogno di un vero e proprio trattamento chirurgico. Il cambiamento delle strutture è un fatto eminentemente politico, in qualche modo il fatto politico per eccellenza. E’ così che da tempo si parla nella Chiesa di “carità politica”.
Per essere oggi fedeli al vangelo, è necessario anche prendere parte attiva alla politica. E’ quanto il Concilio Vaticano II e gli ultimi papi hanno più volte e solennemente ripetuto. Così Paolo VI, nella “Octogesima adveniens” dice che i cristiani sono «sollecitati a entrare in questo campo d’azione» (n. 46) e Giovanni Paolo 11 nella “Christfideles laici” afferma che gli stessi «non possono affatto abdicare alla partecipazione politica» (n. 42). C’è, è vero, un diverso livello di partecipazione; ma, in qualche modo, la politica è un dovere per tutti. Il politico cristiano prende parte attiva al processo di evangelizzazione: oggi, con più chiarezza di sempre, rimane confermato che la dottrina sociale della Chiesa è parte integrante dell’evangelizzazione (cfr. CA 5).
E’ anche per questo suo intimo rapporto con la carità che la politica è stata considerata da sempre la più nobile attività dello spirito umano, perché implica la missione del servire. Giorgio La Pira— professore e politico senza conto in banca ma con lo spirito del profeta – ne era pienamente convinto e su questa sua convinzione ha intessuto una meravigliosa vita di cristiano e di evangelizzatore.
Il vangelo, la Chiesa non dicono altro, non possono andare oltre. Ma queste indicazioni sono già sufficienti per dare spazio alla riflessione e impulso all’azione. La sfida è aperta dinanzi a noi.