L’opera di Giovanni Ugas sugli Shardana: una svolta che non riguarda solo l’archeologia, di Federico Francioni
Sommario: un libro che è frutto di oltre trent’anni di lavoro – La tradizione degli studi – Le fonti – Shardana dentro e fuori dell’isola – Un nuovo scenario storico – Conclusioni.
Un libro che è frutto di oltre trent’anni di lavoro. Siamo giunti a una svolta, che non riguarda solo il mondo degli archeologi, grazie alle ricerche di Giovanni Ugas, allievo di Giovanni Lilliu e già docente di Preistoria e Protostoria nell’Università di Cagliari. Nel 2016 egli ha pubblicato Shardana e Sardegna, i Popoli del Mare, gli alleati del Nordafrica e la fine dei Grandi Regni (XV-XII secolo a. C.): un volume di circa 1000 pagine (la sola bibliografia è di una settantina), edito da Della Torre di Cagliari. L’opera presenta i risultati di indagini intraprese da questo studioso fin dagli anni Ottanta; dopo essere stato lungamente al centro di investigazioni, il tema, in generale, era stato sostanzialmente lasciato cadere anche durante gli anni Settanta. La rilevanza delle tesi messe a punto da Ugas consiste non solo nell’approccio “storicistico”, che egli riconosce di avere in comune col suo maestro, ma anche nella novità, anzi, nella rottura che introduce delineando il rapporto fra la Sardegna ed il mare: lungi dal rappresentare un elemento di divisione, di ripulsa – in grado di ricacciare indietro, verso l’interno, le popolazioni – le grandi distese d’acqua hanno svolto, al contrario, un ruolo connettivo, di proiezione verso l’esterno ed anche di espansione.
A ben vedere, quanto è stato dichiarato da Ugas costituisce un duro colpo al determinismo geografico insularità-isolamento che per secoli è stato appiccicato a immagini negative della Sardegna, vista non solo come luogo “arretrato” da un punto di vista socioeconomico, ma anche, con relativa caduta sul piano antropologico, come territorio lontano, irraggiungibile, tetragono a flussi e cambiamenti provenienti dall’esterno. Insomma, una storia statica, anzi, “immobile” quella dell’isola, secondo un ossimoro adottato anche da studiosi di grande prestigio. La Sardegna è staccata dal resto del mondo, qui non succede nulla, le novità arrivano con grande ritardo: ecco la traduzione, sul piano forse banale (e banalizzato), di un comune sentire, precipitato di una concezione in apparenza più organica ed attrezzata. La svolta che riusciamo ad intravedere, grazie alle scoperte di Monte Prama ed alle tesi di Ugas, consiste in una radicale rottura non solo col paradigma dell’isolamento, ma anche con quello imperniato sul binomio arretratezza/modernizzazione, sostenuto da intellettuali teracos, cioè embedded (efficacemente criticati dal sociologo Alessandro Mongili): si cherimus pònnere sa chistione in inglesu, si è fatto riferimento con questo termine a quei giornalisti che soggiornano e dormono nel letto (bed) degli accampamenti americani.
La tradizione degli studi. Uno dei meriti principali di Ugas consiste nel riferimento ad una ricchissima tradizione di studi, dall’indubbia rilevanza scientifica internazionale, che ha inizio dopo la spedizione in Egitto di Napoleone Bonaparte, la scoperta della stele di Rosetta, la decifrazione della scrittura geroglifica ad opera dello Champollion. Nelle indagini sui Popoli del Mare, anche in rapporto alla Sardegna, una svolta determinante e duratura venne impressa da Emanuel de Rougé e da François Chabas che studiarono Shardana, Shekelesh, Eqwesh, Leku, Tursha, Peleset, Sikel, Dayniu e Weshesh. Peraltro Chabas sostenne che gli Shardana, provenienti dall’Egitto, si stabilirono nell’isola solo in seguito. Dunque il loro insediamento nel Delta del Nilo altro non sarebbe stato che un nostos, cioè un ritorno alla patria originaria. Giovanni Spano – archeologo, senatore, docente ed anche rettore dell’Università di Cagliari – ebbe Chabas tra i corrispondenti del suo ricchissimo epistolario che viene pubblicato in vari volumi con il rigore critico indisgiungibile da tutte le ricerche di Luciano Carta. A differenza di Chabas, Edward Meyer sostenne l’identificazione degli Shardana con la Sardegna, pienamente riconosciuta da questo autore come la loro terra d’origine.
Nelle indagini sugli Shardana, un nuovo, decisivo passaggio fu segnato nei primi decenni del Novecento da Antonio Taramelli. Egli attribuì ai Sardi/Shardana, esponenti a pieno titolo di una talassocrazia mediterranea, la leadership dei Popoli del Mare. Anche nel 1937, ormai anziano, egli si mantenne fedele a questa tesi.
Nell’ultimo sessantennio l’identificazione tra Sardegna e Shardana è stata confermata da un altro studioso, Giovanni Pugliese Carratelli. Anche Michael Gras si è attestato su questa posizione, accettata inoltre, sia pure con molta prudenza, da Gabriella Scandone Matthiae. “Barbari”, “guerriglieri”, esperti nei combattimenti corpo a corpo: così vengono definiti gli Shardana da Robert Drews, cui tuttavia si deve la precisazione secondo la quale essi provenivano non solo dalla Sardegna, ma anche dalla Sicilia e dall’Italia centrale. Nel 1994 Mario Liverani criticava siffatta chiave interpretativa, così accentuatamente “militarista”. Di grande rilievo è l’assunto di Adam Zertal che ha visto i segni della cultura nuragica negli scavi da lui stesso effettuati (vi ha preso parte anche Ugas) presso El Ahwat, cittadella posta nelle propaggini del Monte Carmelo, in Palestina. L’origine sarda degli Shardana viene così autorevolmente riproposta. Nel 2013 Vassos e Jacqueline Karagheorghis, esaminando la ceramica sarda e manufatti dell’Italia meridionale, hanno riconosciuto nei Shekelesh i Siculi e negli Shardana i Sardi nuragici. Ugas dunque fa preciso riferimento a studiosi di indubbia rilevanza scientifica internazionale, contro le interpretazioni dei quali, certo, si sono espressi autori di non minore caratura intellettuale.
L’etruscologo Massimo Pallottino – autore fra l’altro di una monografia sulla civiltà nuragica (che rimane comunque un classico nonostante l’inevitabile usura del tempo) – scriveva che gli Shardana venivano dall’Egeo e dalle coste asiatiche. Il Barnett ha visto invece nell’isola di Cipro la terra d’origine degli Shardana. Massimo Pittau, filosofo, filologo, linguista (è stato docente ed anche preside nella Facoltà di Magistero dell’Università di Sassari) ha ricostruito un percorso che conduce da Sardi, città della Lidia, prima in Sardegna, successivamente in Etruria, dove si insediò ed operò la popolazione denominata dei Tyrsenoi, cioè dei Tirreni, i costruttori di torri (i nuraghi, per l’appunto). In seguito Shardana e Tursha/Etruschi si sarebbero recati in Egitto. Da linguista Pittau sostiene la stretta relazione fra le lingue lidia/sardo-nuragica ed etrusca, riprendendo e sviluppando una tradizione di studi archeologici, storici e linguistici in cui vanno collocate le personalità del Maspero e di Pedro Bosch Gimpera. Egli ha sostenuto una sorta di simbiosi fra Sardi nuragici ed Etruschi: una tesi che ha trovato ricezione senza che l’apporto di Pittau sia stato sempre debitamente riconosciuto. Ci riferiamo in generale non solo al mondo degli archeologi, ma anche al giornalista Sergio Frau e ad altri autori.
Negli anni Ottanta ed in seguito Sergio Donadoni, Robert Tykot, Lucia Vagnetti, Yasur Lendau, Issam K. H. Halayqa ed Alfonso Stiglitz si sono espressi contro l’identificazione Sardi nuragici/Shardana. Su di essa si è invece favorevolmente espresso Ignazio Didu (si vedano le intense pagine 15-29 del monumentale testo di Ugas che, fra l’altro, ha il merito di non lanciare strali o condanne contro questo o quello studioso). Viene infine ricordato che nell’opera La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei nuraghi (Torino, 1988) un archeologo insigne come Lilliu non escluse la possibile identità Sardi/Shardana.
Le fonti. Al volume di Ugas gli altri accademici non potranno rispondere con un’alzata di spalle o con quella sufficienza che assumono nel replicare agli “amatori”, agli “alternativi” o ai dilettanti. Colpisce infatti nelle pagine di Ugas l’ampia ed approfondita disamina delle fonti, poste in relazione l’una con l’altra, viste nella loro estrema articolazione: stele II di Tanis, con testo riprodotto nel libro, che si riferisce fra l’altro agli Shardana “dal cuore risoluto”; papiri egizi (di Amiens, Harris, Wilbour); rilievi dei templi di Abu Simbel, Abido e Luxor; raffigurazioni nel tempio di Ramesse III a Medinet Habu; affreschi nella necropoli del visir Useramon, per non parlare di fonti riferibili ad altri visir come Senemut e Rekhmira; tavoletta d’argilla in accadico cuneiforme, per citarne solo alcune. Serrato è l’esame condotto da Ugas sulle fonti della letteratura classica: Pausania, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, Simonide di Ceo, Pseudo Aristotele. Tabelle con elenchi ed articolati quadri teorici, cronologici e riassuntivi contribuiscono a facilitare la lettura delle mille pagine del libro, di sicuro impegnativa e pur tuttavia non ardua o troppo complicata. Infine, è indispensabile precisare, con Ugas, che «le testimonianze archeologiche dell’Età del Bronzo […] sino a 50 anni fa l’anello debole nella prospettiva dell’identificazione dei Sardi con gli Shardana, sono ormai anch’esse tra i punti di forza di questo riconoscimento» (p. 665). L’autore si riferisce a manufatti importati dai Sardi, a loro prodotti esportati o imitati, ad analogie tra forme e tecniche architettoniche in ambito mediterraneo, ad abbigliamento, armi ed altro, testimonianze di intrecci fitti tra Shardana ed il Mediterraneo.
Shardana dentro e fuori dell’isola. Ma perché gli Shardana, da identificare con la Sardegna e con la civiltà nuragica, lasciarono l’isola? Ugas spiega che qui vigeva un modello di società che «accoglie in retaggio la successione regale matrilineare nell’ambito di un’articolata gerarchia di capi appartenenti a famiglie dominanti, discendenti dai primi fondatori dei nuraghi. In effetti si deve supporre che nei principati nuragici il potere fosse nelle mani della famiglia della regina e il re venisse ritualmente sacrificato allo scadere del ciclo temporale a lui assegnato per regnare (tempo prolungabile con vittime sostitutive), al fine di consentire il ricambio generazionale con l’avvento di un giovane re, capace di procreare e di guidare l’esercito in battaglia. L’atto del sacrificio del re da parte del figlio-successore (in origine da parte del promesso genero) è ampiamente attestato nella letteratura antica e nell’etnografia sarda» (p. 634). L’uccisione dei padri ormai inabili deriva dall’archetipo dell’eliminazione dei vecchi sovrani, legata al rituale del riso sardonico da parte degli accompagnatori: si poteva fare ricorso all’avvelenamento con l’erba sardonica – forse la cicuta – all’uso di arco e frecce, alla spinta del malcapitato da una rupe o verso una voragine (si pensi in particolare a determinati racconti popolari dell’Ogliastra). Rispetto alla discendenza matrilineare, sembra un paradosso ma non lo è: la donna nuragica, per quanto disponesse di una sua relativa autonomia, non era in una posizione di vero e proprio potere sul piano politico-militare, perché il monopolio della forza era pur sempre esercitato dai maschi (si veda comunque al riguardo il libro di Elisabetta Alba edito dalla Carocci).
Certo, in rapporto alla successione, il potere era nelle mani di una regina; soprattutto i fratelli di lei (ma non solo) potevano diventare rivali del re e venivano dunque esortati, indotti o costretti a lasciare la loro residenza per cercare nuove aree da colonizzare, dove costruire altre torri nuragiche. Una volta colonizzati pressoché tutti i territori isolani, essi decidevano infine di emigrare, avvalendosi di notevoli capacità militari. Con gli abitanti della Corsica e delle Baleari costituivano una popolazione, ragguardevole di numero, che poteva consentire loro di organizzare un esercito temibile. Gli Shardana erano dotati inoltre di una flottiglia da guerra: tra le altre fonti, la navicella in bronzo di Orroli, sottolinea Ugas, costituisce una delle varie conferme di una sviluppata carpenteria navale. Sulla base dell’ampia messe di testimonianze scrutate, Ugas dimostra e ribadisce che non sussistono dubbi ragionevoli sulle “Isole in mezzo al Verde Grande” (il Mediterraneo), intese come Sicilia, Sardegna, Corsica e Baleari.
Sul piano metodologico Ugas procede dapprima con una disamina ad excludendum, successivamente dimostra che è fondata l’identificazione Sardi nuragici/Shardana. Il suo libro inoltre ripensa e riscrive, non solo alla luce dei testi dell’autore, ma anche di un’imponente bibliografia, le vicende, la struttura e la cultura di questa civiltà sarda, collocata fra il 1600 ed il 1000 a C., periodo dopo il quale comincia una lenta decadenza: al di là della cartografia esistente, si può supporre che erano quasi certamente molto più di 7.000 i nuraghi, intorno ai quali viveva una popolazione che andava dai 400.000 ai 700.000 individui, sparsi in circa 3.000 villaggi. Ugas ipotizza che in Corsica, Baleari e Sardegna vivessero complessivamente dai 680 ai 900.000 abitanti: una cifra di tutto rispetto. Nell’Età del Bronzo Recente e Finale, dei circa 85.000 uomini armati che la nostra isola poteva allineare, oltre 40.000 erano in grado di combattere all’esterno. Si può facilmente immaginare la battuta (che del resto è stata già lanciata in altra occasione) di qualche accademico o giornalista teracu al riguardo: e che? Vogliamo esaltare a dismisura questa civiltà di guerrieri in vista di proiezioni politiche in salsa sardista, indipendentista e magari epico-eroico-militarizzante? Ora, non dobbiamo farci considerare fessi, idioti, da tutti coloro i quali pensano di essere i soli ad aver letto Claude Lévi-Strauss o Fernand Braudel. Il problema, chiaramente, non è quello delineato dai teracos. Piuttosto si tratta, in primo luogo, di studiare, conoscere, meditare, per cogliere nel passato, nella tradizione – come ha scritto Braudel in L’identité de la France – quegli elementi che possono contribuire a costruire un’identità in positivo, un progetto ed un futuro, fatto anche di dialogo e di fratellanza con i popoli, innanzitutto del Terzo Mondo.
Ma torniamo agli Shardana. Lasciata la loro terra, essi operarono dapprima come mercenari al servizio del faraone Ramesse II. Anche a Biblo (Libano), ad Arzawa (Anatolia) e ad Ugarit (Siria) vennero stanziate guarnigioni degli Shardana che però non furono solo guerrieri e mercenari. Con i sovrani egizi, in particolare con Ramesse II (1290-1224 a. C., della XIX dinastia), essi instaurarono intense relazioni, traffici derivanti dalla notevolissima disponibilità di risorse minerarie come piombo argentifero, rame, ossidiana, calamina azzurra (per cui si è parlato di lapislazzuli provenienti dall’isola). Nel Delta del Nilo, dove si stanziarono con altri gruppi umani, portarono tradizioni e consuetudini del mondo agropastorale isolano. Nel 1286 parteciparono alla battaglia di Kadesh (presso il fiume Oronte, allo sbocco della valle della Bekaa), che vide gli Egizi prevalere sugli Ittiti. Lo scontro è illustrato nel tempio egiziano di Abido.
Una componente degli Shardana si mantenne lealista e continuò a combattere per i faraoni. Successivamente, insieme a determinati popoli – appartenenti sia ai “Paesi del Mare”, sia alle suddette “Isole nel cuore del Verde Grande” – altri Shardana organizzarono, con un ruolo decisivo, centrale, da protagonisti, le coalizioni militari che si abbatterono in particolare contro Ramesse III (1182-1151, appartenente alla XX dinastia). Ugas sottolinea che i due schieramenti Shardana – quello mantenutosi fedele al faraone e quello che invece lo aveva aggredito – evitarono lo scontro diretto, fratricida. L’avanzata dei Nordafricani e dei Popoli delle isole contro gli Egizi fu bloccata? Più che altro fu parzialmente contenuta.
Nelle pagine del testo e nel ricchissimo apparato di note che l’accompagna, Ugas – senza lanciare anatemi (il che va apprezzato) – accenna a vari nodi: Atlantide è un parto della fantasia fertile e straordinaria di Platone. Lo studioso inoltre si dichiara convinto che i Popoli del Mare solcassero tutto il Mediterraneo e che dunque nel Canale di Sicilia non ci fossero Colonne d’Ercole (come prospettato da Frau che tuttavia non viene citato). Del resto Lilliu, pur con una cauta apertura alle ipotesi dello stesso Frau, aveva fatto però preciso riferimento alla battaglia del Mare Sardonio (540 a.C.) con la quale l’imperialismo cartaginese, alleato degli Etruschi e vincitore dei Greci, verso qualsiasi velleità espansiva di questi ultimi, aveva stabilito in quel Canale una sorta di “cortina di ferro” dell’antichità. Come aveva sostenuto in precedenza Sabatino Moscati, non si trattava dunque di “Colonne” (che tali poi propriamente non erano). Prima del 540 dunque questa “cortina” non doveva esistere.
Un nuovo scenario storico. I Sardi nuragici/Shardana, secondo Ugas, esercitarono a lungo fitti scambi commerciali con genti di cui conoscevano unità metriche lineari e di peso. Si ambientarono in altre terre, si adeguarono ad altre costumanze ed in tal modo persero visibilità. Tuttavia, con l’assalto all’Egitto, contribuirono in misura decisiva al crollo dei grandi Imperi e quindi a creare un nuovo scenario storico-politico del Mediterraneo antico. Venute meno le potenti costruzioni istituzionali degli Ittiti e degli Egizi, rimasero quelle degli Assiri e dei Persiani. Gli Shardana ed altri popoli alleati non diedero vita a nuove, grandi entità politiche, bensì a distretti formati da città dove prese corpo un nuovo tipo di economia, imperniata su un largo spettro di scambi, su commerci più liberi, sullo sviluppo della proprietà privata. Crollarono dunque le corti palatine degli Ittiti e degli Egizi, vennero meno traffici incardinati prevalentemente sugli oggetti di lusso. Il potere degli Imperi dovette fare spazio a coalizioni di città che, se non erano propriamente più democratiche, come sostiene l’autore, dovevano essere quasi certamente più inclusive, comunque meno escludenti rispetto alle logiche dei faraoni.
Si tratta di una svolta radicale della storia antica, nella quale gli Shardana giocarono un ruolo tutt’altro che secondario. Nel mettere fine alla sua fatica Ugas respinge dunque legittimamente le definizioni di Esiodo e della letteratura greca che hanno visto nell’epoca successiva al crollo dei grandi Imperi di Ittiti ed Egizi una Dark Age, una sorta di oscuro Medioevo dell’antichità.
Conclusioni. Chi scrive non ha le competenze specifiche degli archeologi e degli antichisti; ritiene però che il ponderoso e poderoso testo di Ugas non riguardi solo il mondo degli specialisti – dei quali peraltro non possiamo fare assolutamente a meno – ma la ricerca storica ed il dibattito storiografico più generale, la critica, come si è detto in premessa, all’insopportabile determinismo geografico insularità-isolamento, nonché al paradigma arretratezza-modernizzazione, funzionale al mantenimento della società sarda in una condizione subalterna. Ancora una volta dobbiamo diventare pienamente avvertiti che quanto sta succedendo e si va annunciando in campo archeologico non riguarda solo la preistoria e la protostoria, ma investe la lotta implacabile per il controllo della memoria, per la costruzione di una nuova immagine della Sardegna, per superare complessi di inferiorità, meccanismi di auto-disistima, per il riconoscimento pieno di un patrimonio accumulatosi nei secoli, di quanto abbiamo effettivamente prodotto, senza cadere in mitizzazioni. Di queste, fra l’altro, non abbiamo assolutamente bisogno come occorre chiarire ribattendo agli intellettuali teracos i quali, mossi dalla logica del “mettere le mani avanti”, concitati, di fronte ad ogni novità, urlano sempre: attenzione a non mitizzare! In realtà, come si è già detto, il problema che grava sulla Sardegna è piuttosto quello di non essere pervenuta ad un’adeguata autocoscienza. Il volume di Ugas costituisce un rilevante, decisivo contributo in questa direzione.