La Sardegna come il lontano ovest americano centocinquant’anni fa. La saga dei Magnini, venuti dal Varesotto e pionieri fra Iglesias, Cagliari e l’Orientale, di Gianfranco Murtas

Tornano centocinquant’anni (e più) dopo la prima discesa sarda i Magnini. Venivano allora da Travedona, cuore del Varesotto: dal Lombardo Veneto, avrebbe scritto, nell’atto di         battesimo di uno dei rampolli della casata, uno dei parroci di Sant’Anna, la collegiata di Stampace, ancora molti anni dopo l’associazione della Lombardia e Milano al regno di re Vittorio, avvenuta a conclusione della seconda guerra d’indipendenza. Erano giunti allora, i Magnini, per affermare nell’Isola i propri talenti d’inventiva imprenditoriale e riempire la tasca della famiglia, tornano oggi i pronipoti – ancora Magnini – di quarta e quinta generazione per godersi il ristoro del sole e del mare (e anche del vento)

nostro e, prima di incontrare qualche lontano cugino fattosi ormai sardo e mai conosciuto, soltanto sentito al telefono, e visitare come in pellegrinaggio le orme lasciate belle e, talvolta, tragiche dai propri avi fra Cagliari, Iglesias ed Urzulei.

Le orme sono numerose, impresse in qualche grande opera pubblica o in qualche emergenza d’arte del primissimo Novecento. Sopra il caffè Torino e sopra il caffè Roma, nella via della palazzata bacareddiana, in faccia al porto, nel capoluogo, ecco i due palazzi della casata borghese ergersi ai due lati della via Baylle in risalita. Sali veloce le scale, magari, al civico 121 sotto i portici, fra i tavolini del Torino e raggiungi il piano alto le cui porte, solenni e scure come di cassaforte, portano ancora il monogramma MM – Magnini Meloni – come un sigillo imperiale… Dalla passeggiata alberata, alzando sguardo, ammiri l’eleganza architettonica degli edifici innalzati su tre piani, con pilastri e colonne robuste, lesene o paraste e timpani, archi e lunotti, cornici ed aggetti, balconi verandati anche, nel secondo e più moderno dei due… Capisci le ferite (rimarginate) della guerra e documentate dagli album di foto storiche del tremendo 1943.

Le tappe al Monumentale

Passi al cimitero monumentale di Bonaria e trovi i due mausolei in onore e riscatto di Pietro, l’appaltatore della Orientale sarda ucciso nel 1876 ad Urzulei, e quello dei famigliari di Galeazzo, l’altro fratello fattosi cagliaritano, dopo l’iniziale permanenza iglesiente, per gestire prima l’esattoria governativa e del dazio comunale e poi darsi alla gigantesca opera di ingrandimento del porto. Lì, nel gran teatro delle memorie condivise, si onorano tutti, genitori e figli, i figli soprattutto di Galeazzo e Battistina Meloni nobildonna sarda: Mario, cui è anche dedicato un sobrio busto bronzeo, caduto sedicenne appena, lui allora studente dettorino (dopo che ginnasiale al Siotto Pintor) e già ai remi della Canottieri Ichnusa; Erminio, ciclista all’esordio dell’arte in Sardegna, presidente giovanissimo della Canottieri e raffigurato in un numero de “La Domenica cagliaritana” già come notabile a dispetto dell’età sotto i trenta, suicidatosi infine per una pena d’amore ed un inguarito male oscuro; Mariuccia anche, nata senza aver mai potuto conoscere il padre (involatosi all’improvviso, e nell’imminenza del ritorno dai suoi dopo una fiondata per affari a Travedona, in un disgraziato autunno 1885), andata a nozze – le nozze benedette dall’arcivescovo fra Pietro Balestra nella propria cappella dell’episcopio castellano – con un giovane ingegnere forlivese, Enrico Mellini, che sarebbe stato per quarant’anni nel rango apicale del romano ministero dei Trasporti, delegato governativo alle conferenze internazionali su linee ferroviarie e marittime e sperimentali rotte aeree.

I figli vissuti, e la memoria degli altri della nidiata perdutisi nelle allucinanti stagioni della mortalità infantile capace di unificare, anche a Cagliari, poveri e benestanti: Claudina e Adalgisa, Claudia e Claudina bis, Annibale ed Osman gemelli, i piccoli andati nella bara subito dopo che al fonte battesimale di Sant’Anna o Sant’Eulalia.

Il gran nome di Galeazzo alla base del mausoleo in granito, pensato e costruito dal torinese Carlo Musso nel 1902 in forma di insistite sovrapposizioni di forme solide ora squadrate ora tondeggianti, domina la collina che porta al sacrario dei reduci delle patrie battaglie e della Società operaia; nella sommità, a più di tre metri d’altezza, un gruppo bronzeo: il volto adolescenziale di Mario e, al suo fianco, un grande angelo dalle ali spiegate e protettive, messo del Cielo per consolare i superstiti del lutto impensabile e ingiusto e infiorare di gigli, come per risarcirlo, il caduto – l’uno e l’altro, Mario e l’angelo, opera di Andrea Valli, un artista di nascita carrarese, che a Cagliari mise radici, nella nostra tarda belle époque, lavorando per privati ed amministrazioni, il Municipio compreso, ed ebbe una certa presenza anche nell’associazionismo massonico locale. Alle spalle, su una parete perimetrale, le lapidi con i nomi e le date del rapido e concluso calendario terrestre: 1883-1899 quelle di Mario, 1877-1909 quelle di suo fratello Erminio, 1845-1926 quelle della loro madre Battistina, 1850-1931 quelle di Rosa Piras «domestica fedelissima», 1886-1980 quelle infine di Maria – Maria Anna, Mariuccia per tutti – riportata da Roma a Cagliari per riposare per sempre con i suoi, dopo una vita lunghissima, come a compensare le inique tranciate alle età dei suoi fratelli.

Non ci vogliono più di cento passi, forse, e nel corridoio centrale fra i quattro quadrati che costituiscono il cuore più antico del camposanto nato del tutto periferico e lontano dall’abitato dei quattro quartieri, ed ecco un altro monumento Magnini: lavoro questo del carrarese Giacomo Bonati. Un nicchione aperto tutto marmo e guglie – vera e propria edicola neogotica –, fra due cippi laterali di base ad altrettante meste statue femminee, angeliche anzi, in posa simmetrica e speculare e sopra un dado, alto e chiaro – robusto basamento dagli angoli morbidi e tondeggianti –, che ostenta in bassorilievo la scena d’un ferale agguato: con il fuoco che abbatte dapprima il cavallo trainante il calesse ed abbatte poi i due viaggiatori, Pietro Magnini ed il suo giovane collaboratore ingegner Ottone De Negri. Opera d’arte bellissima e discussa, adesso in restauro dagli studenti del corso di architettura. Sì, oggetto sempre di rilievi critici: già nel decennale del suo impianto, nel 1886, cioè, “L’Avvenire di Sardegna” aveva contestato il supposto «sciupio di marmo in trafori e merletti», anni dopo si era valutato necessario lo scartavetro della scena di cronaca. Un trafiletto uscito sulla prima pagina de “La Nuova Sardegna” del 17 febbraio 1897 aveva riportato fra l’altro: «Il fatto fu deplorato da tutti; gli autori scoperti e condannati. Ma quando l’anno seguente, nel monumento innalzato nel cimitero […] si volle riprodurre in bassorilievo la scena del delitto vi fu uno scoppio tale di indignazione, che all’indomani, per ordine dell’autorità municipale uno scalpellino distruggeva il ricordo di odio che l’artista aveva voluto incidere là dove non deve regnare che la pietà». Chissà… Qualcuno disse che la famiglia concordò, altri che la famiglia subì la decisione superiore: certo è che quei briganti in costume con il fucile assassino in mano furono vissuti come offesa addirittura etnica ai sardi…

Una lastra chiara (e quasi illeggibile), sotto il bassorilievo, celebra Otto (Ottone) De Negri, il giovane collaboratore della ditta, perito anch’egli con il titolare. Se ne può tentare una lettura forse approssimativa: «Spirato [?] assieme a Magnini – l’ingegnere Otto De Negri – in età d’anni XXII – come alla sventura – così gli è compagno – nel sepolcro».

Le facciate delle due colonne di supporto laterali recano ciascuna una incisione sul marmo. Così la prima, ormai quasi illeggibile, che rimanda anche al servizio di Pietro nelle armate piemontesi, per la liberazione della Lombardia nel 1859: «Industriale – operoso intelligente onesto – Nelle patrie battaglie – prode soldato – verso – familiari amici sollecito / affezionato sincero generoso / de congiunti inconsolabili la religione – della cagliaritana cittadinanza – la unanime stima – ne vollero – trasportata qui solennemente – la salma – gli eredi – Q.M.P.».

Così la seconda: «Pietro Magnini – da Travedona sua patria – con doviziosa dote – volontà mente cuore – trasse in Sardegna – ove – dalla sua benefica indole – largamente propiziati – ubertosi frutti coglieva – quando di feroci armati predoni – a dì 27 giugno 1876 – in età d’anni 40 – ne’ pressi di Urzulei – sotto immani colpi – periva».

La città en marche

Suggestioni delle pietre e dell’arte, sempre riassunto di storie vissute e, insieme, sempre rilancio di giudizi dello spirito fra il passato ed il presente. Con memorie supplementari, qui a Cagliari, ancora con i Magnini casata rispettata, ricca e sfortunata, in un quartiere e nell’altro…

Un salto s’impone infatti anche ai resti di una proprietà in via Giardini, a Villanova, ed a quelli di un’altra nella via Manno, alla Marina, e di un’altra ancora nel corso Vittorio Emanuele, a Stampace. Le case, step by step, di una famiglia – quella di Galeazzo – che si cagliaritanizzava un secolo e passa fa, proprio quando in città s’avviava il piano dell’abbattimento progressivo delle mura che avevano contraddistinto per cinque secoli la piazzaforte militare, con i suoi bastioni, i rivellini e le porte… Nel pieno del processo di unificazione cittadina, nell’attenuazione delle divisioni fisiche – per quelle morali e sentimentali ce ne sarebbe ancora voluto! – che a metà Trecento lo stesso Fazio Degli Uberti avrebbe certificato elencando come centri autonomi Callari (Castello) e Stampace e Villanuova…

Chissà perché, erano case, quelle dei Magnini, tutte a ridosso delle porte di passaggio, ora in via di smantellamento o già rase al suolo: della porta Cavana quella di Villanova, della porta Stampace – fra la via Manno e la piazza San Carlo (poi Yenne) quella della Marina, di s’Ecca Manna, la ancora resistente, quella di Stampace in direzione di Palabanda e Sant’Avendrace… Tempi di sindacature prebacareddiane, piegate forse più sul contingente amministrativo, data la scarsezza di mezzi finanziari necessari a programmazioni di lungo respiro, che sulla prospettiva magna dello sviluppo modernista, quelle del marchese Roberti di San Tommaso e di Enrico Sanjust marchese di Neoneli – gli ultimi patrizi con la fascia tricolore –, di Giovanni Agostino Varsi (lo spedizioniere passato poi a presiedere la Camera di Commercio) e Giovanni Sini, di Francesco Cocco-Ortu (allora giovanissimo e al debutto parlamentare e anche governativo) e Salvatore Marcello l’avverso salariano, di Emanuele Ravot, il magistrato elencato nei famosi “Goccius de is framassonis” («Custu grandu Ravanellu»), e Gaetano Orrù il professore d’università. Tempi di risorgimento e riordinamento sul continente e di complicato e contraddittorio svecchiamento in Sardegna…

Cagliari città di 39.627 abitanti al censimento del 1881 (erano stati 33.491 alla prima conta del regno d’Italia, vent’anni innanzi), e una popolazione calcolata in 6.921 famiglie per 3.761 case. S’erano contati allora 3.800 abitanti stabili a Castello, 10.900 a Stampace, 8.500 alla Marina, 12.300 a Stampace, cui andavano aggiunte 3.200 unità fra presenze occasionali o diffuse nelle cosiddette “case sparse” di Sant’Avendrace (e Tuvixeddu) e di San Bartolomeo, verso le spiagge lontane e ancora ignorate, dov’era l’inferno del penitenziario residenza dei forzati chiamati a lavorare nei vasconi delle saline demaniali. Ad oltre 900 unità assommavano poi ufficiali e truppa della guarnigione distribuita in diverse caserme.

Nel decennio a seguire – teatro temporale dei Magnini nati sardi, non più dei loro padri – la città avrebbe ancora lentamente proceduto a darsi un profilo più coerente e compatto, quasi moderno; i numeri non sarebbero cambiati granché – 42.379 gli abitanti, 6.984 le famiglie, 3.853 le case, 2.954 gli elettori politici e 3.252 quelli amministrativi – ma la novità, registrata ancora nel suo boccio, avrebbe preso ormai il nome (di svolta) di Ottone Bacaredda, professore d’università ed avvocato, anche poeta e novelliere, il sindaco tanto bravo e tanto fortunato da potersi iscrivere presto alla categoria dei miti…

Ad Urzulei, poi ad Iglesias

Un salto a Urzulei, a onorare quell’avo fulminato dal fuoco di sei banditi, con il suo collaboratore, nel curvone detto appunto “sa orta de Magnini”, presso il cantiere dell’Orientale, con quella somma – venticinquemila lire – che doveva bastare a pagare gli operai e anche i fornitori… non quella volta soltanto ma anche altre quattro o cinque. Ne avrebbero declamato i cantastorie, in sardo, i particolari di cronaca ed ogni paese avrebbe saputo tutto nella verità e nelle supposizioni. In città se ne sarebbe capito meglio al processo che in due tranche si sarebbe celebrato nel 1880 alla corte d’assise che aveva la sua aula di fronte all’università, all’ombra della torre dell’Elefante, perché “L’Avvenire di Sardegna” avrebbe dedicato a quelle sedute decine di pagine speciali.

Crescenzio (o Crescenzino), il fratello collaboratore di Pietro, trentenne al tempo dell’assassinio, avrebbe testimoniato contro tale Monaldi, direttore dei lavori stradali, per aver indotto il suo capo a portarsi dietro una cifra così spropositata, di quasi cinque volte il necessario!

Un salto anche ad Iglesias, che era stata la prima tappa dei pionieri: negli anni dell’arrivo in città di quel gruppo affiatato di fratelli e sorelle – Pietro e Natale, Galeazzo e Crescenzio, Carlo e Marietta la piccolina (centovent’anni, forse meno, in sei), per qualche tempo anche Francesco – l’isola contava appena 600mila abitanti e soltanto Iglesias mostrava un dinamismo incoraggiante, grazie alle patenti di scavo rilasciate in gran copia dal governo di Torino già da prima dell’unità. Si sa delle concessioni date fin dai primissimi anni ’50 ai rifugiati politici, in cerca di salvezza dalla ghigliottina di Pio IX, dopo la caduta della Repubblica Romana, dal Serpieri al Ciotti… agli altri in odore tutti di repubblicanesimo e di massoneria.

Ad Iglesias i Magnini avevano messo radici, così come i Boldetti, anch’essi provenienti da Travedona, e destinati a diventare i Buddembrook – ma nella fase ascendente – dell’interno bacino minerario, essi che sarebbero stati i padroni incontrastati di migliaia di ettari di foreste, di aziende modello, di servizi di trasporto e non solo alle compagnie minerarie… Proprio così, ma con distrazioni cagliaritane nei propositi non troppo remoti, i Magnini, o qualcuno di loro: cominciarono anch’essi con i servizi d’utilità agli addetti minerari di Monteponi e delle altre basi, approntando commerci e costruendo case e strade e perfino uno stabilimento balneare, ma anche occupandosi di procurare stalle e foraggi al bestiame delle caserme dei regi carabinieri… E non mancando neppure di partecipare, per la buona coscienza e secondo lo spirito del tempo, alle attività associative dei borghesi filantropi (tanto più a favore, e continuativamente, del locale Ricovero di mendicità o della Società operaia di mutuo soccorso) ed anche alle sottoscrizioni a favore delle famiglie di Monti e Tognetti decollati dal papa fatto più tardi beato, per le quali Giorgio Asproni s’era diviso in quattro, con altri repubblicani e altri massoni, per raccogliere le risorse necessarie a poter campare con decenza, mentre si mobilitava pure per salvare la pelle agli altri due destinati anch’essi al patibolo (e infatti graziati col ricollocamento all’ergastolo). Se ne vedono i passaggi nei fogli ingialliti de “La Gazzetta di Iglesias” del Sanna Nobilioni e sono altre pagine che meriterebbero lettura approfondita.

Quando poi, dopo Porta Pia, e cioè all’inizio degli anni ’70, Pietro e Galeazzo decisero per davvero di venirsene a Cagliari, Carlo e Natale e gli altri rimasero sulla piazza. Carlo soprattutto, con famiglia in boccio ad Iglesias, mise su una conceria a vapore, modernissima, d’avanguardia addirittura, che sarebbe stata premiata (con medaglia d’argento) ad una delle Expo di fine secolo: quella del ’98 tenutasi a Torino. Le manchette pubblicitarie del tempo rivelavano la gamma delle sue virtù: specialità in suole cilindrate, vacchette bianche quadrettate, maschericcio e corami per sellai, deposito per pellami esteri e nazionali, filo, canapa, elastico, broccami, occhielli, ferramenta per calzolai, forme, tomaie, ecc. Una delle 34 della provincia di Cagliari.

Prima s’era dato a commerciare alimentari di varia natura, Carlo, tenendo il suo deposito giusto fuori della porta di Sant’Antonio, che una volta fu visitato dai ladri i quali asportarono quantità impressionanti di formaggi, zucchero, paste di Napoli ecc. e dettero così la misura dei magazzini e quindi del business. La cronaca dice che la refurtiva fu recuperata e gli autori del furto scoperti dai carabinieri che godettero per la bisogna dei rinforzi di milizie volontarie provenienti dalla società del Tiro a segno… Per dire della centralità e del riguardo alla famiglia.

Ve ne sono ancora ad Iglesias di Magnini, di discendenti di Carlo imparentatosi in quel tempo con qualche devoto seguace di Garibaldi: nella conceria avrebbe trovato allora da lavorare anche Aurelio Galleppini, il nonno dell’inventore (suo omonimo) di Tex, quel Galleppini sr. – garibaldino ideale figlio di garibaldino autentico, romagnolo di nascita e glorie, riparato come ispettore delle Gabelle in Sardegna – che trovi fotografato con la sciarpa del Rito Scozzese praticato dalla loggia Ugolino negli anni della grande guerra.

C’era vivace dialettica dottrinaria, ad Iglesias, nel passaggio di secolo: fra clero e clericali ed anti, fra massoni, magari liberali, e socialisti. Per qualche tempo fu proprio nei dintorni periferici della conceria di Carlo Magnini che si riunivano gruppi e gruppetti al catechismo politico, non soltanto religioso, di qualche parroco.

Negli anni 1907-1908 fu in uno degli stabili acquistati o costruiti ex novo dall’industriale di Travedona (self-made man se è vero che aveva soltanto quindici anni quando venne in Sardegna) che presero sede, ad un certo punto, gli uffici giudiziari di Iglesias… Certamente parte degli arredi derivò da altre singolari transazioni, come quella compiuta con i padri domenicani, nel senso che alla morte dell’ultimo religioso che s’era scambiato testamento con un altro confratello dopo aver riscattato l’antico convento dal demanio (il quale, a sua volta, l’aveva ricevuto dalle leggi soppressive della manomorta nel 1866), aveva lui, ancora Carlo Magnini, acquistato l’immobile.

Si era detto che non solo il convento ma i magazzini e gli appartamenti che uno dopo l’altro egli aveva messo in collezione (fino a 44, secondo alcuni conteggi), e tutti a reddito, facevano di Carlo Magnini naturalizzato iglesiente l’uomo più ricco, s’intende con Giuseppe Boldetti, della piazza…

Aveva fatto famiglia, il Nostro, con Annetta Nespola, originaria di Isili, che però l’aveva lasciato ancora giovane – nel 1902 –, per malattia, dopo aver dato alla luce due figli: Elisetta, che bimba di quattro anni soltanto, se n’era andata già nel 1882, e Piero – nato proprio un mese dopo l’assassinio di suo zio a Urzulei – che avrebbe collaborato con il padre e vissuto intensamente la vita iglesiente in tutti i suoi aspetti sociali, economici ed associativi (fu anche lui artiere della loggia Ugolino, con Galleppini, e tenne la cassa del circolo di lettura così come della società ginnastica Iolao, sportivo in cimento e valore, misuratosi fra i primi nei lunghi percorsi in bicicletta).

Quest’ultimo aveva sposato Stella Gerini, bellissima e giovanissima figlia, anche lei, di un garibaldino di nome Teobaldo, capo-servizio alla Malfidano e monumentato al camposanto, nel 1894, nientemeno che dal Sartorio. Una famiglia, questa Gerini, che viveva modestamente del lavoro di Teobaldo e, si diceva, dei faticosi ricami notturni di sua moglie e delle cognate… Stella sarebbe stata una stella davvero fra i lussi dei Magnini, idolatrata da tutti, lei colta ed elegante, e meglio ancora perché nata (dignitosamente) povera.

Ecco il giro. L’ho detto: mentre Carlo faceva le sue fortune ad Iglesias e suo figlio Piero ne seguiva le orme, Pietro e Galeazzo scelsero di abbandonare Iglesias (conservando in loco, e magari anche a Flumini e Gonnesa, qualche redditizia proprietà) e venirsene a Cagliari con le loro mogli, Marietta Giacometti piemontese e Battistina Meloni sarda, e Galeazzo anche con i figli al tempo in squadra, l’uno sistemandosi già fra la via Baylle e la via Roma, in territorio storico della Marina, l’altro a Porta Stampace, giusto nel passaggio fra la Marina stessa e il quartiere che forse più di tutti, e prima di tutti, raccolse i poveri cagliaritani in fuga dalla città di Sant’Igia distrutta a tradimento dai pisani. Vinsero nel 1873, Pietro e Galeazzo, l’appalto dell’esattoria con la fidejussione generosa (e interessata) di Luigi Merello, il genio della finanza sarda del tempo (e anche fra i protagonisti maggiori dell’uninominale politica in chiave coccortiana), e grazie all’aggio cospicuo guadagnato dal servizio raccolsero tanto capitale da potersi mettere in proprio secondo le migliori ambizioni, giusto con le opere pubbliche: l’ho detto, uno costruendo l’Orientale sarda e l’altro ingrandendo (con Giovanni Zamberletti) il porto.

A dire del porto

La spesa bilanciata dallo Stato per i lavori al porto progettati dall’ingegner Edmondo Sanjust ammontavano, a leggere il contratto stipulato dalla prefettura con Galeazzo Magnini il 9 agosto 1882, a £. 2.349.800, oltre a circa £. 1.600.000 per l’escavazione appaltata ad altri soggetti, nonché ad altre somme piuttosto marginali per occorrenze strumentali (come il noleggio di una gru di dieci tonnellate). La missione di Magnini (e socio Zamberletti) era limitata, sostanzialmente, all’allungamento del lungo braccio occidentale del porto cagliaritano.

Della cosa si era occupato a lungo, in quanto parlamentare ma anche in quanto segretario generale della locale Camera di Commercio, Giuseppe Palomba, ben consapevole della importanza della infrastruttura nella economia di una città come Cagliari, naturalmente vocata ai traffici marittimi. Egli intervenuto sia presso il ministero, che presso il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici ed anche sulla Camera. Così anche il collega Pasquale Umana, deputato di lunga lena pure lui, con un passato autorevole di rettore universitario. Magnini costituì una apposita ditta – l’Impresa costruttrice del porto – recante il proprio nome. La direzione dei lavori fu affidata all’ingegner G. Lami. La Società operaia da subito, per parte sua, sollecitò l’impiego di lavoratori sardi al momento disoccupati, avendone pronte assicurazioni.

I materiali per le nuove banchine dovevano trarsi dalle cave della collina di Bonaria ed una linea di trasporto su binari doveva a sua volta impiantarsi per qualcosa come tre chilometri di rettifilo fino alla darsena (con le immaginabili e sfiancanti lungaggini burocratiche e anche giudiziarie circa l’esproprio dei terreni di passaggio).  Un giorno, a lavori conclusi, Francesco Corona, compilando la sua famosa “Guida di Cagliari 1894” così avrebbe sintetizzato il tutto: «Nei lavori di costruzione furono versate in scogliera tonnellate 275.600 di pietra delle cave presso Bonaria; vennero costrutti 2.250 massi artificiali di circa 12 metri cubi ciascuno; si ebbero 140.000 metri cubi di riempimento ed il peso massimo d’ogni masso naturale fu di 30 tonnellate». La lunghezza della banchina risultò infine di 2.241 metri, compresi i 593 di quella della vecchia darsena ed i 560 dell’altra del molo nuovo. Lo specchio d’acqua risultava, dalla punta del molo nuovo a quella di Sa Perdixedda (poco oltre lo stabilimento balneare di Michele Carboni), di 24 ettari oltre quello della darsena, misurabile in un decimo del maggiore. La profondità piuttosto uniforme sui 7,50 metri. Massi artificiali di calcestruzzo erano stati posati «a pile indipendenti sopra scanno di scogliera» e funzionavano come muri di sponda delle calate, mentre risultava in «pietre naturali perdute» il molo, con «muretto di sponda interno, muro di difesa in muratura idraulica lastricato in granito delle cave di Mortorio e dell’isola dei Cavoli, con bitte d’ormeggio in ghisa».

Obiettivo dello scalo così ingrandito e potenziato doveva essere anche il suo raccordo con la linea ferroviaria delle Reali, per i collegamenti con la provincia e le province. La scomparsa improvvisa di Galeazzo, per quell’infarto traditore sopraggiuntogli in occasione di una visita alla nativa Travedona, avevano costretto ad adattamenti nella partnership fra Magnini e Zamberletti, il quale avrebbe proseguito in proprio la seconda fase dei lavori che ripartiti nel 1886 si sarebbero conclusi nel 1890.

Memorie generali, memorie civili, memorie di persone e di ambienti, di affari savi e lungimiranti e di bare – quante bare – ordinate prematuramente. Le storie delle famiglie, viste nelle proiezioni del tempo, viaggiano, si sa, come le pigliate dei fuochi d’artificio: si spargono ognuna allignando su un territorio particolare, o su un’attività o professione particolare, facendosi spazio e riconoscere, seminando il buon nome.

Gli Angelino, i primi ripartenti

Nella parte alta della Marina, nelle scalette di Santa Teresa che collegavano (e collegano) la piazzetta Dettori alla via  Manno, viveva la famiglia di Marietta Magnini, la piccola della nidiata degli anni ’60, convolata a nozze con un giovane ingegnere piemontese trasferito a Cagliari capoluogo provinciale del regno, funzionario tecnico negli uffici del Genio civile: Giovanni Angelino. Personalità gentile, scrupolosa nei fatti di lavoro come in quelli di casa. Aveva avuto, da giovane o giovanissimo, esperienze professionali all’estero: quando lavorò in Brasile, come direttore di una cava di diamanti di proprietà inglese, fu iniziato alla Massoneria – ritorna sempre la Massoneria nella grande famiglia! ­–, o fu accolto lì con i gradi, e riportò a casa un gran bel diploma in lingua portoghese e molti fregi triangolari e le colonne B e J agli estremi. Doveva essere il 1863. In Brasile aveva avuto a che fare già lui (come sarebbe successo a suo cognato) con i banditi all’assalto, e s’era preso, per sovrappiù, la febbre gialla, che gli aveva scassato il fegato. Ne avrebbe patito le conseguenze per lunghi anni, rientrando a Cagliari, dove anche lavorò come consulente della Corte dei conti.

Avevano fatto famiglia, Marietta e Giovanni Angelino, lei appena sedicenne, lui di vent’anni maggiore, alla fine del 1873. Lei viveva ancora con suo fratello Galeazzo, a Stampace, e qui ancora per svariati anni la famigliola avrebbe tenuto domicilio, perdendo una piccola, Edvige, vittima delle solite mortali febbri infantili, e mettendo al mondo poi due maschi più fortunati: Fedele, nel 1882, e Carlo Erasmo, nel 1883. Quest’ultimo era nato a casa (battezzato a Sant’Anna dagli zii iglesienti), Fedele invece, per pura casualità, aveva visto la luce nelle terre avite, nel Varesotto, perché aveva anticipato i tempi mentre la madre si riposava in vacanza presso la bella casa suoi familiari lombardi… Dopo il ginnasio i ragazzi s’erano iscritti al liceo, al solito Dettori, compagni di classe, ora l’uno ora l’altro, di coetanei che portavano un nome importante in città, il figlio del prefetto Bacco, il figlio del pastore evangeli Arbanasich…, ma proprio allora – il calendario segnava il 1899 – il papà, malato da qualche tempo e per questo già ritiratosi dal lavoro, era morto, seguendo nella tomba, a distanza di pochi mesi soltanto, il nipote Mario Magnini coetaneo e compagno di scuola di Erasmo. Meno di tre anni dopo la stessa sorte era capitata a Marietta, che lasciava così soli i due ragazzi.

Se vai oggi, come per un dovere insieme religioso e civile, a cercarne le tracce – le tracce materiali del riposo perenne ed ineffabile di Giovanni e di Marietta –, ne rimani sconfortato: ti pare un sacrilegio lo stato di abbandono in cui giace, ormai perfino da decine d’anni, il sito che le accoglie; sembra sia stato, e ancora sia, un imperio subìto, e si svolga con greve e maleducato, despiritualizzato animo, come di prosaica sopportazione, il compito che dovrebbe essere quello invece tutto onorevole di custodirle con tutta dignità per la santità del percorso di vita (così come di ognuno). Al monumentale, nei blocchi 15 e 13 dei colombari posizionati nelle solenni gradinate del Cima, sai che sono lì le spoglie di Giovanni Angelino e di Marietta Magnini, fatti cagliaritani per sempre.

Ti vien da pensare, frugando a casaccio nelle memorie civiche, come contestualizzare e come misurare gli addii di Giovanni e Marietta: il 1899 significava la posa della prima pietra del municipio cittadino, il 1902 significava la prima partita di foot ball nella piazza d’Armi di Cagliari. Quale futuro più che secolare per quel palazzo solenne, di autorità e pubblico servizio, della via Roma, quale futuro più che secolare anche per lo sport che avrebbe infiammato, nel tempo, il sentire migliore di un popolo intero… Qui le macerie, non tutte e non soltanto derivanti dallo sconquasso del 1943. Le zone sono oggi interdette perché pericolanti, momento depressivo morale prima ancora che fisico del gran cantiere infinito ed incompiuto dei restauri o rifacimenti del camposanto di Bonaria, gioiello museale impagabile di un’età lunga di Cagliari e così mal compreso da intere generazioni di amministratori pubblici e da tanta parte anche, purtroppo, della cittadinanza.

La lastra marmorea affissa un tempo per segnalare il luogo del riposo di Giovanni Angelino è caduta, come quasi tutte le altre di quel blocco. Il cemento nero, antico di cento e diciotto anni, una croce incisa sulla malta allora non ancora rappresa, e nient’altro: ecco quel che s’affaccia sullo sterpame che cresce rigoglioso nella piazzola di sosta. Sullo stesso piano, ma spostato di due blocchi sulla sinistra, è il colombario che accoglie i resti di Marietta. Ha resistito, qui, la lapide, lisciata dal tempo ed ormai illeggibile, coperta da abusivi erbastri: qualche ombra e qualche frammento di lettere alfabetiche, come a certificare quella collocazione, tutto il resto è irrispettosa desolazione. Mi mai più s’arrampica in quelle gradinate per onorare i cagliaritani scomparsi un secolo fa?

A causa della dispersione ormai incipiente della famiglia, quelle lapidi non saranno state granché onorate neppure in quel principio assoluto del Novecento. Per qualche tempo di Fedele ed Erasmo s’era occupata la nonna Battistina  Meloni, poi Fedele era stato ospitato dagli zii di Travedona e s’era iscritto in Medicina all’università di Milano, per spostarsi dopo tre anni a Veterinaria, cui si sentiva più portato; Erasmo invece s’era iscritto a Cagliari al biennio di Scienze matematiche per l’indirizzo di Ingegneria che avrebbe sviluppato al Politecnico di Torino.

Erano una decina o poco più, al tempo, gli iscritti all’aspirantato al diploma di ingegnere nell’università di Cagliari; fra quelli che frequentavano il più affollato corso di Scienze naturali, nella stessa facoltà, figurava anche Eva Mameli, prossima madre dello scrittore Italo Calvino. Preside era il matematico professor Antonio Fais (titolare di Calcolo infinitesimale), nel corpo docente, fra gli altri, gli ordinari Domenico Lovisato (Mineralogia e Geologia), Giovanni Gugliemi (Fisica sperimentale), Giuseppe Oddo (Chimica generale), e gli straordinari Ugo Amaldi (Analisi algebrica e Geometria analitica), Filippo Vivanet(Geometria descrittiva e Geometria proiettiva con disegno), Antonio Zanca (Disegno d’ornato e di Architettura elementare), tutti nomi importanti nell’accademia non soltanto sarda d’inizio Novecento.

Aveva accompagnato il biennio dell’aspirantato alla militanza nel consolato cagliaritano della Corda Fratres, forte di molte decine di iscritti nel primo Novecento. Ne aveva conservato i paramenti ed i diplomi. Alla medesima sensibilità culturale di quel sodalizio studentesco, ed al tanto di idealità ereditate dal padre, avrebbe continuato a regolare il suo esordio negli anni torinesi, del Politecnico e anche di dopo: nel 1909 era stato infatti iniziato lui stesso massone nella loggia Dante Alighieri funzionante a Torino, e negli anni successivi aveva conquistato i regolamentari gradi di Compagno e Maestro. Come detto tutto questo importante e singolare patrimonio documentario e rituale – del figlio come del padre – è ancora ordinatamente custodito, grembiule e fascia di Maestro, gioiello (squadra e compasso incrociati), banda del consolato cagliaritano della Corda Fratres con il ramo d’ulivo ricamato sopra, il tesserino nominativo con tanto di foto e di firma…

Per un trentennio pieno, dopo la laurea e l’apprendistato professionale, Erasmo avrebbe vissuto (con sua moglie) l’esperienza della colonizzazione africana, prima in Libia poi in Etiopia ed Eritrea. A capo di un piccolo gruppo di tecnici, avrebbe curato l’impianto ferroviario nel continente nero, fra il tropico e l’equatore. Se ne sarebbe tornato in Italia che la guerra non era ancora finita, collaborando – salvo errore – con Alcide De Gasperi già nei primi governi di CLN a presidenza Bonomi…

Protetto dalla famiglia travedonese, suo fratello Fedele avrebbe invece completato gli studi di veterinaria e da giovane laureato sarebbe stato fra i “fondatori” della borgata rurale di San Giuliano Milanese, nell’hinterland nella metropoli lombarda: in quella terra ricca di bestiame grosso e piccolo, egli sarebbe stato dal Municipio incaricato di una condotta e, conquistandosi ogni benemerenza civica, avrebbe fatto famiglia. Il ricordo della Sardegna, forse mai più visitata, sarebbe rimasto negli anni, forse dolce ma lontano…

Dunque nel 1902, o giù di lì, quello Angelino-Magnini fu il secondo filone della grande famiglia a lasciare l’Isola e a rimpatriare nel nord Italia, fra i laghi e le Alpi dei confini svizzeri. Due anni prima aveva cominciato Silvio, il primogenito di Galeazzo e Battistina, che se n’era andato con la moglie cagliaritana a Milano, a far l’avvocato lì, tre anni dopo sarebbe toccato a Mariuccia – sorella di Silvio – andata sposa ad Enrico Mellini, che avrebbe preso residenza a Roma, verso la Nomentana, nelle terre che erano state del patriziato papalino. La tragica scomparsa di Erminio, nel 1909, avrebbe chiuso il capitolo. Donna Battistina Meloni restò sola a Cagliari, benché di frequente fosse raggiunta da Silvio, ancora impegnato ad amministrare il patrimonio.

La storia di Silvio ed Eva Loi

Sono i discendenti diretti di Silvio – di Silvio Magnini e di Eva Loi figlia del dottore veterinario Lodovico, direttore del mattatoio di Cagliari negli anni di Bacaredda sindaco –, insomma sono delle quarte e quinte generazioni coloro che arrivano adesso a Cagliari, per le vacanze e il laico pellegrinaggio fra i siti perduti e le risvegliate memorie avite.

Silvio era nato a Monteponi, dove la famiglia ormai da poco tempo s’era insediata per dare servizio alla miniera, nel 1866, l’anno della terza guerra d’indipendenza, quella che avrebbe aggiunto il Veneto, e quella perla di Venezia, ai territori già aggregati del regno d’Italia. Aveva poi seguito i genitori a Cagliari che aveva soltanto quattro o cinque anni. Aveva visto la famiglia accrescersi e cambiare in continuazione i suoi equilibri, nascite e morti negli anni, numerose le prime, troppe le seconde. Aveva gestito, con validi collaboratori, in specie un tale ragionier Carlo Gasparini, un po’ gli affari di famiglia, soprattutto (e di necessità) dopo la scomparsa improvvisa del padre Galeazzo, sopraggiunta quando egli aveva soltanto 19 anni. Seguiva gli interessi residui ad Iglesias, quelli rimasti – e non erano poca cosa – a Varese o dintorni, naturalmente quelli prevalenti a Cagliari. Nel 1890 aveva sposato Eva, e suo testimone di nozze, a Sant’Eulalia e in municipio, era stato il dottor Angelo Roth, giovane chirurgo algherese ma ancora in servizio all’ospedale di Cagliari: un giorno sarebbe stato, Angelo Roth, rettore dell’ateneo sassarese, sarebbe stato parlamentare radicale, sarebbe stato perfino sottosegretario di Stato per la Pubblica Istruzione.

Aveva ripreso gli studi, Silvio, dopo il matrimonio: giurisprudenza a Napoli, poi s’era trasferito all’università di Cagliari dove s’era laureato nel 1896 con una tesi di diritto familiare, e proposizioni sia di penale che di commerciale. Intanto era diventato babbo sei volte a Cagliari, e per due volte aveva perduto le sue creature, Fernanda e Mario. Infine s’era deciso per il gran passo, saltare il Tirreno ancora una volta e per sempre: il programma era stato quello di reimpiantare l’innesto sardo del tronco lombardo in Lombardia, mischiando o meticciando definitivamente la schiatta. Destinazione Milano, nel 1900. Ancora seguendo, per un po’, l’affare del cantiere fortunatamente ormai quasi allo smantellamento, nella via Roma cagliaritana, all’angolo sinistro della via Baylle, invero umiliando – dato lo scarto di architetture, in faccia al largo Carlo Felice – l’adiacente baraccone dell’Iris (la prima pellicola doveva essere proiettata forse nel 1903) ed il botteghino o addirittura la direzione della Tramvia del Campidano, di collegamento fra il porto e l’hinterland vinicolo di Pirri, Monserrato, Selargius, Quartucciu e Quartu. Un giorno quell’area sarebbe stata solennizzata dal palazzone della Rinascente… Un piano per la famiglia, gli altri da locare, il pian terreno da affittare a Palenzona per il suo rinomato caffè Torino.

I palazzi e un’eredità d’oro

Il nuovo palazzo insisteva nell’area che Galeazzo – il quale quel signorile manufatto non avrebbe mai visto! – aveva attrezzato per squadrare i pietroni destinati al porto. Certamente esso, dovuto (salvo errore) all’impresa dell’antico socio ed amico Giovanni Zamberletti, si mostrava regalmente borghese, uno dei più belli della città: era valutato qualcosa come £. 140mila, un 40 per cento più dell’altro svettante pure esso in faccia al porto ed in attesa che i Putzu e gli Spano firmassero per completare l’isolato allargando sulla destra la palazzata ed i porticati, per la soddisfazione dell’occhio esteta e del passeggio serotino.

Del patrimonio lasciato da Galeazzo quello stabile, che nel fatale 1885 non era ancora partito, costituiva la vera perla. Complessivamente si trattava di un insieme consistente di proprietà immobiliari, includendo anche le case di Villanova e di s’Ecca Manna, quella di (ex) Porta Stampace ed anche un palco al Civico (valutato £. 800 nei primi anni ’90), i locali adibiti a caserma dei carabinieri ad Iglesias ed a Gonnesa, quelli affittati al Telegrafo o magari al forno ancora ad Iglesias, la tenuta del Leone d’oro, case e terreni altresì a Fluminimaggiore, per non dire del tanto elencabile fra Varese e Travedona…

Un benavere certamente in accompagno ad un benessere che forse restò da allora – dalla redazione delle prime bozze di testamento e di ripartizione – più una speranza che una realtà vissuta per davvero. In troppi e in una tempistica di marcia sarebbero caduti in tanti: Mario sedicenne, Giovanni Angelino, sua moglie Marietta tre anni dopo, due piccolini di Silvio; poi sarebbe toccato ad Erminio, una revolverata alla tempia. Sullo sfondo la disgrazia di Urzulei, più ravvicinata quella di Travedona, la strage inarrestabile dei primi piccolini anche.

Quando morì donna Battistina, nel maggio 1926, i figli superstiti, uno a Milano e l’altra a Roma – Silvio e Marietta – giunsero a Cagliari e per onorare la madre donarono al commissario prefettizio Vittorio Tredici un primo cospicuo importo – £. 15mila (valutabile in € 12mila correnti) onde sovvenire le conferenze vincenziane dei quattro quartieri e gli ospizi dei vecchi, gli asili dell’infanzia e gli istituti dei sordomuti o dei ciechi… Suor Giuseppina Nicoli era scomparsa anche lei da un anno soltanto e il popolo dei marianelli, dei piccioccus convertiti al buon catechismo ed accolti nelle loro necessità quotidiane dalla grande madre, superiora all’asilo della Marina che nella via Baylle, alle spalle del Partenone appena visitato da Lawrence, costituiva il vero polmone della carità civica cagliaritana.

Funzionava allora, affidata a dottor Amedeo Loi, collegiato di Sant’Eulalia, la chiesa di Sant’Agostino vescovo e dottore – architettonicamente una delle più belle della Sardegna (futuro bersaglio anch’essa delle bombe del 1943) – appena elevata, dall’arcivescovo monsignor Piovella, al rango di parrocchia succursale, in ritaglio appunto da Sant’Eulalia, per tacitare i dissidi fra i parroci della collegiata in cerca della presidenza. A Sant’Agostino era tutta una fioritura, di lato a quella propria dell’asilo della Marina, di associazioni e gruppi e circoli, e i santi titolari erano tutti soddisfatti, San Vincenzo come San Giuseppe o Santa Teresa di Gesù… A Sant’Agostino fu benedetta la salma di donna Battistina Meloni, l’anima tutta sarda che aveva donato integralmente se stessa, educatrice nata, alla sua famiglia.

 

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