“Sa lota” de Orgosolo, 19 – 26 giugno 1969, di Pier Sandro Pillonca
EDITORIALE DELLA DOMENICA, della Fondazione Sardinia.
Sono trascorsi 48 anni dalla “Rivolta di Pratobello”, la grande mobilitazione popolare contro la realizzazione di un poligono permanente nel territorio comunale di Orgosolo. Per una settimana, dal 19 al 26 giugno del ’69, tutto il paese si schierò compatto a difesa delle terre civiche costringendo l’esercito italiano alla ritirata.
A quasi mezzo secolo di distanza, quella lotta è considerata ancora oggi un episodio chiave della storia sarda contemporanea, la madre di tutte le campagne antimilitariste condotte, con minore fortuna, negli ultimi decenni. Ma cosa rimane oggi di quei valori e di quel metodo di azione? Come si riuscì a vincere una battaglia considerata da molti persa in partenza?
IL DOCUMENTO
Un’occasione per riflettere sui fatti della primavera del ’69 ci è stata fornita nei giorni scorsi alla Mem di Cagliari dalla proiezione del documentario “Sa Lota”, uscito nel 2005 ma, per diverse ragioni, ancora poco conosciuto in Sardegna. Realizzato da Maria Bassu e Francesca Ziccheddu, il docu-film comincia finalmente a girare nelle città e nei paesi dell’Isola e, da poco più di un mese, anche sul web (www.youtube.com/watch?v=TLmKIpdBSzg). Un lavoro importante, utilissimo per comprendere le dinamiche interne alla comunità barbaricina. Dentro ci sono le testimonianze dirette dei protagonisti: pastori, donne, studenti. E dei rappresentanti del Circolo giovanile di Orgosolo, avanguardia della protesta. Un impianto narrativo coinvolgente: parole, sguardi, silenzi spiegano perché, una volta tanto, il popolo sardo non venne sconfitto.
I FATTI
Il 27 maggio del ‘69 nei muri di Orgosolo appaiono alcuni manifesti con i quali l’esercito annuncia l’inizio delle esercitazioni militari e intima ai pastori di lasciare i pascoli di Pratobello. L’iniziativa, in mano al Ministero della Difesa, rientra in un disegno più ampio: sradicare il fenomeno del banditismo attraverso il controllo capillare del territorio. La filosofia è la stessa del progetto presentato alcuni anni prima dalla General Piani per la creazione del Parco del Gennargentu. In questo caso l’idea era quella di affidare ai turisti e non ai soldati l’occupazione delle campagne del nuorese per sottrarre importanti porzioni di territorio ai pastori-banditi.
La comunicazione del Ministero allarma i giovani del Circolo. Tutte le famiglie vengono informate sui rischi della presenza militare. Il paese si mobilita. Seguono assemblee, discussioni, manovre sotterranee per provare a spaccare il fronte della lotta. Un tentativo di mediazione di Prefetto, Questura e sindacati fallisce miseramente. La proposta di indennizzare i pastori per lo sgombero del bestiame dalla piana di Pratobello (30 lire a capo) viene rispedita al mittente.
Si arriva così alla mattina del 19 giugno, data fissata per il via alle esercitazioni. Un folto gruppo di manifestanti occupa l’area destinata ai giochi di guerra. Una colonna militare diretta verso il poligono viene bloccata e costretta a fare marcia indietro.
Il giorno successivo, 20 giugno, tutta Orgosolo si muove in massa verso Pratobello. A contrastare i militari sono in tremila: donne, bambini, operai, impiegati, pastori e studenti. Di fronte a loro camionette e forze dell’ordine in assetto anti-sommossa. Sale la tensione, il rischio di uno scontro e di un conseguente bagno di sangue è altissimo. Dc e Pci, percettori di quasi l’80% dei consensi nel paese barbaricino, provano a mediare e a circoscrivere la protesta. Solo Emilio Lussu, ormai fuori dalla politica attiva, manda un telegramma di solidarietà schierandosi apertamente con i manifestanti.
Dall’altra parte della barricata c’è un altro sardo con un ruolo di primo piano, il sottosegretario alla Difesa Francesco Cossiga. La sua è una posizione intransigente: lo Stato, manda a dire, non arretrerà mai.
Lunedì 23 giugno è il giorno clou. A Pratobello arrivano le forze speciali dell’esercito. Iniziano i rastrellamenti con l’impiego di elicotteri e autoblindo. In 400 vengono fermati e rinchiusi in un centro di raccolta. Ottanta di loro sono condotti in Questura a Nuoro, ci sono i primi arresti, gli altri vengono liberati a sera inoltrata.
E’ allora che partiti e sindacati abbandonano gli indugi e si schierano al fianco dei manifestanti condannando con decisione l’uso della forza. Si apre un canale con Roma. Il Ministero accetta di ridiscutere il progetto. I manifestanti si riuniscono in assemblea e, dopo una lungo dibattito, accettano di inviare una delegazione nella capitale a trattare con il Governo. Nei due giorni successivi prosegue l’occupazione del poligono.
Il 26 giugno è il giorno della svolta. La delegazione di rientro da Roma comunica l’esito della trattativa con il sottosegretario alla Difesa Francesco Cossiga: lo Stato rinuncia alla realizzazione di un poligono di tiro permanente nel territorio di Orgosolo, si faranno solo esercitazioni temporanee da concludersi entro metà agosto. In cambio pastori e braccianti ottengono un robusto indennizzo dal Governo per il mancato reddito e la rassicurazione che ogni iniziativa futura nel territorio dovrà essere concordata con le amministrazioni locali.
Un risultato insperato per molti, raggiunto grazie alla determinazione di un’intera comunità e al metodo di lotta messo in campo in quei giorni di giugno. Ma oggi, in Sardegna, sarebbe possibile un’altra Pratobello?
L’AUTONOMIA DECISIONALE
Allora, un ruolo determinante lo giocò l’autonomia politica dei protagonisti. Alle elezioni regionali del 15 giugno del 1969, su 2502 votanti, la Dc raccolse a Orgosolo 1198 preferenze, il Pci 837, il Psiup 218. I restanti 249 voti se li divisero gli altri partiti. Quasi del tutto assente la componente sardista. La fase calante del Psd’Az, in gran parte dovuta al ruolo ancillare ricoperto in quegli anni nei governi regionali a guida democristiana, era ormai inarrestabile: tre consiglieri regionali eletti nel 1969, uno solo (Titino Melis) nel 1974, il peggior risultato elettorale nella lunga storia dei Quattro Mori. Impossibile, per i manifestanti, sperare in un soccorso organizzato dei movimenti identitari.
Democristiani e comunisti, ben presenti e radicati nel territorio, provarono in tutti i modi a frenare la protesta. I primi, al governo in Sardegna e a Roma, tentarono di aprire trattative parallele. Qualche onorevole democristiano, con forti legami parentali e di comparatico in paese, provò senza successo a spaccare il fronte unitario. I secondi, togliattianamente, cercarono invece di incanalare la contestazione in un percorso istituzionale. Nel Circolo giovanile, guida e anima della rivolta, erano presenti diverse componenti della sinistra. Le pressioni furono fortissime, la discussione aspra, come risulta dalla lettura dei documenti dell’epoca pubblicati da don Pietro Muggianu nel suo libro “Orgosolo ’68.’70. Il triennio rivoluzionario”, i partiti però non riuscirono a imporsi. Alcuni dei più brillanti esponenti del Circolo, iscritti al Pci, pagarono a caro prezzo la loro ribellione con provvedimenti di espulsione e/o sospensione dal partito.
IL RIFIUTO DEL LEADERISMO
Pratobello fu una vittoria di popolo, non ascrivibile a un personaggio particolare o a un determinato schieramento. Certo ci fu una spinta decisiva da parte del Circolo, gli animatori del dibattito politico e culturale del paese non peccarono però di superbia. I giovani orgolesi litigavano spesso tra di loro, come raccontano gli stessi protagonisti in “Sa Lota”, ma alla fine si ritrovavano nella battaglia contro il nemico comune. A Pratobello si confrontarono due linee di azione: una massimalista, decisa a ridicolizzare l’esercito italiano, l’altra più morbida ma certamente più realista. Alla fine prevalse la seconda, il direttivo del Circolo accettò suo malgrado il pronunciamento sovrano dell’assemblea. “Spinti dal nostro entusiasmo giovanile, pensavamo di far perdere la faccia al Ministero della Difesa – ha detto alla Mem Giovanni Muravera, presidente del Circolo giovanile nel 1969 – oggi possiamo dire che quella era una posizione velleitaria. A Pratobello si raggiunse il miglior risultato possibile”.
LO SPIRITO COMUNITARIO
Al centro de “Sa Lota” c’era la difesa del bene comune. Il paese non poteva rinunciare al sistema che regolava e ancora regola la gestione delle terre pubbliche destinate al libero pascolo delle greggi. Perdere avrebbe significato la rottura dell’impalcatura solidaristica che reggeva da secoli i rapporti economici e sociali.
“Son tornato a Orgosolo perché qui si vive insieme”. Peppino Marotto, poeta e storico sindacalista, rispose così a Peppino Fiori curioso di sapere perché avesse deciso di far ritorno a casa dopo un’esperienza di lavoro in Continente. Un concetto chiave per capire i fatti del ’69. E proprio quello spirito comunitario tenne unito il paese consentendo di respingere pressioni e condizionamenti, di rintuzzare vergognose campagne di stampa come quelle messe in piedi dai quotidiani sardi contro i manifestanti, definiti “quattro gatti maoisti”, e di resistere all’accerchiamento dei comuni confinanti, Mamoiada e Fonni, favorevoli alla realizzazione del poligono.
LE DONNE
Pratobello, per l’imponente partecipazione popolare, segnò uno dei momenti più alti di democrazia. E un ruolo fondamentale lo giocarono le donne. Furono loro ad affrontare in prima linea i battaglioni delle forze dell’ordine. Un’esperienza, per certi versi simile, l’avevano già vissuta 38 anni prima durante il fascismo. Allora scesero in piazza per scongiurare la vendita al demanio di una parte di territorio comunale tra la foresta di Montes e il confine di Fonni. Fu la loro determinazione a convincere il podestà del paese a strappare il contratto ormai pronto.
A Pratobello, però, il nemico veniva da fuori, era armato e ben organizzato. Madri e mogli decisero così di fare da scudo a figli e mariti per evitare arresti e liste di proscrizione. Un’azione consapevole, meditata e preparata. Basta ascoltare la testimonianza di Mariangela Noli in “Sa Lota” per capire quale fosse il livello di coscienza civile e politica delle donne orgolesi.
La loro presenza fu determinante per il mantenimento della linea non violenta. Pratobello si concluse senza incidenti. La resistenza passiva, quasi gandhiana, diede ancora più vigore alla protesta e impedì di fornire qualsiasi giustificazione all’uso della forza da parte degli uomini in divisa.
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Rifiuto di condizionamenti esterni, spirito comunitario, assenza di leaderismo, ruolo delle donne. Dalla visione del docu-film sembrano essere questi gli elementi fondanti della vittoria di Pratobello. Lo scenario di oggi è profondamente cambiato, quelle condizioni sono del tutto o in parte assenti nel panorama politico isolano.
Parlare di autodeterminazione fa quasi sorridere. Oggi più di ieri. Dalla politica contestativa di Paolo Dettori e dalla stagione dell’Intesa autonomistica si è passati a una condizione di totale subalternità rispetto ai poteri romani. Non si spiega altrimenti la passività mostrata dai partiti di fronte agli scempi ambientali, all’occupazione militare del nostro territorio, alla limitazione del diritto alla mobilità, alla catastrofe antropologica delle zone interne, alla negazione della nostra lingua. Il sogno unionista continua a far breccia nel cuore dei sardi.
A poco è servito anche l’impegno di forze politiche e movimenti dell’area identitaria. Ciò che è emerso in questi anni, a parte qualche eccezione, è la scarsa incisività della loro azione politica, l’incapacità di farsi classe dirigente e guidare un grande progetto di riscossa. Il loro peccato più grande, purtroppo, è stato quello di organizzarsi secondo modelli italiani, mutuandone limiti e difetti: strutture gerarchiche, leader dall’ego ipertrofico, continue divisioni. Motivi che hanno impedito, come afferma lucidamente Carlo Pala nel suo ultimo saggio “Idee di Sardegna”, di muoversi lungo la frattura creatasi tra centro politico e periferie per costruire, facendo leva sullo spirito comunitario, un grande progetto orientato alla difesa degli interessi esclusivi del popolo sardo.
E le donne? Ai margini della gestione della cosa pubblica. Per precisa volontà politica, con una conventio ad excludendum, come nel caso della vergognosa bocciatura a voto segreto della doppia preferenza di genere in Consiglio, ma anche per la loro incapacità di sfruttare le poche occasioni offerte.
Negli anni di Pratobello i movimenti femministi si battevano per l’emancipazione della donna nella società, oggi per ottenere più spazi nelle istituzioni. Battaglia sacrosanta, con un elemento di rischio: cadere nella palude dalla quale, da tempo, non riescono a uscire i loro colleghi maschi. Servirebbero l’acume politico e la passione civica di Mariangela Noli ma, purtroppo, si tratta di merce rara.