“Prigionieri per la fede”, il nuovo libro, dotto e leggero, di Salvatore Loi, di Gianfranco Murtas
La storia come un romanzo di vita, suggestivo nelle scene e nei protagonisti, nei perché e nei come; fascinoso e sorprendente negli sviluppi e negli approdi. Perché non immagineresti che, poco distante da casa tua – magari nella via San Leonardo, poi Baylle, dove sono o dove erano la caserma di Sant’Agostino e poi il distretto militare e una sezione della biblioteca universitaria,dove sono o dove erano l’asilo di Marina e Stampace, il Partenone e, più su, le bancarelle dei cinesi di Taiwan, oppure nelle più prossime vie Napoli, già carrer de Moras, o Barcellona,la strada che collegava direttamente il porto al Castello, attraversata dal cardinale Visconti nel 1263 e dal Valeryesploratore nel 1834 –, la storia abbia seminato tanto nei secoli sepolti anche a proposito di schiavi e liberti: tanto proprio in quantità, così da autorizzare un qualche minatore di buona volontà e molta intelligente curiosità a scavare oggi per restituirci quelle informazioni che possono tornarci utili anche per taluna occorrenza dell’attualità.
A vincere – ché di guerre e di scontri infine si trattava tra la battaglia di Lepanto (o l’autodafè dell’Arquer in terra spagnola) e quella combattuta presso la Porta Pia laicizzata dai nostri bersaglieri risorgimentali – erano una volta i cristiani sui musulmani, talaltra questi ultimi sui primi. Sembrava che la costante condizione morale (e umorale) di regnanti, generali e popolazione fosse, nel tempo passato, quella bellicista. Dico nel Mediterraneo e nei territori bagnati dal grande mare. Ad ogni sconfitta doveva seguire un tentativo di rivincita, come fra giocatori perduti nei più volgari imbrogli delle carte, o delle scommesse. Sicché la spirale guerresca non finiva mai. Ma almeno restavano, di buono, le tracce per una o un’altra leggenda passata di generazione in generazione, chissà con quanta fedeltà alla prima elaborazione, e restavano – prove di vicende di vita protrattesi nel tempo – anche i contratti di acquisti e di vendita di case, appunto in via/carrer de Sanct Leonart o Moras o Barcelona…
Prigionieri per la fede – l’ultimo libro di Salvatore Loi, ancora fresco di stampa per i tipi delle sarde S@L Edizioni – racconta la storia dai due fronti, da quello islamico e da quello cristiano, racconta l’alternanza per l’uno e per l’altro di sconfitte e di vittorie, e per l’un fronte e per l’altro anche la massa di quanto è venuto dopo, come conseguenza dell’episodio bellico, violento e sanguinoso. Tanto più nella “gestione” degli schiavi, negli sforzi di conversione alle fedi disputabili, negli adattamenti di convenienza o nelle resistenze fino al martirio.
Racconta, questo libro di duecento pagine ma agile con i suoi cinquanta paragrafi (riuniti in dieci capitoli) che spezzettano in altrettanti focus il tanto meritevole di essere trasferito dalle pagine dei faldoni d’archivio o dei volumoni di biblioteca storica, militare e religiosa alla conoscenza di noi che non siamo per nulla specialisti della materia ma godiamo dei contos ben detti, la storia di centomila giorni sardo-mediterranei, nel tempo che uno bravo direbbe esser andato, press’a poco, dall’unificazione delle corone spagnole (o aragonesi-castigliane) al passaggio della Sardegna, giusto come un pacco postale, ai Savoia duchi-re e magari a dopo ancora. E, sulla scena del continente italiano o del mondo, dal rinascimento al barocco all’illuminismo e fino alla Rivoluzione, dal Tasso al Parini al Foscolo… da Michelangelo e Caravaggio al Canaletto ed al Fattori ed al da Volpedo… dal Palestrina ai Rossini e Bellini… Appunto centomila giorni.
Una storia di centomila giorni, con qualche tardivo rilancio
Ne avemmo, a dir di musulmani e nord Africa, ancora nei primi decenni del XIX secolo: questioni aperte con la Tunisia (dove anzi le cose si protrassero ancora per tutto il secolo, fino alle “razzie” dei capitali immobilizzati per Gebel Ressas ed al conseguente fallimento delle banche sarde!). In guerra ci andò allora anche il marchese di San Tommaso, quell’Edmondo Roberti di Castelvero, piemontese di nascita che, incrociatosi con i De Magistris, sarebbe stato a più riprese sindaco di Cagliari, ed anche deputato al parlamento subalpino.
Nella seconda metà del Settecento, quasi alla vigilia della grande Rivoluzione che doveva seppellire l’ancien régime, e poi anche dopo, negli anni della prima scalata napoleonica, era stato quello di Vittorio Porcile il nome d’oro dell’esercito marinaro sardo, o Savoia (che voleva dire, per convenzione, la stessa cosa). Sistemati tunisini e turchi libici, era poi toccato ancora ad algerini e tripolini, in aggiunta ai tunisini, di tentare un’altra volta di prendersi la Sardegna o qualche zona dell’Isola, fra Alghero e la Nurra, e di far schiavi i nostri. La fucileria locale seppe reagire, pastori e pescatori sapevano essere soldati alla bisogna, e non erano impreparati. Ma ancora nel rimbalzo delle volontà e delle sorti, la rivincita la si ricercò a breve distanza di tempo, ora in Gallura ora nel Sarrabus meridionale. Santa Fortuna salvò ancora i sardi, e li salvò ancora dopo in un ennesimo tentativo di sbarco dal mare, che era quello di Sant’Antioco. Mille i candidati invasori, cento e più (forse) quelli destinati a rimanere sul terreno con un po’ di sangue sparso intorno. Non pochi i caduti anche sul nostro fronte, e non pochi neppure i prigionieri portati in Africa: si parlò di 125, uomini e donne, infine liberati per l’intervento dei governi di Inghilterra e Russia.
I trattati di pace bilaterali o multilaterali concedettero soltanto di guadagnare tempo, di ricostituire le forze di attacco e di difesa; e nuovamente ecco una nuova tenzone nel 1825, appunto per la gloria dell’allora giovane marchese di San Tommaso, o magari di Domenico Millelire maddalenino (proprio lui, l’eroe antifrancese del 1793, collega di Sant’Efisio antifrancese operativo invece nel golfo di Cagliari). Girarono minacciose, per il Tirreno, le navi corsare. Fregate e brigantini cercarono di proteggere l’Isola. S’avviarono – ne scrive anche Medardo Riccio nel primo dei due volumi de Il valore dei sardi in guerra – trattative in mix fra il diplomatico ed il militare, l’uno spalla dell’altro, per salvare gli equilibri precari. Ma non ci fu vera volontà di pace. E stavolta furono i vascelli sardi – intendi Savoia – a puntare sull’Africa. Giorgio Mameli, il padre cagliaritano di Goffredo (che ancora non era nato: sarebbe venuto al mondo due anni dopo), comandò la battaglia navale antitripolina… Bombardamenti e legni bruciati, naturalmente morti, morti e feriti e sciancati per i giorni avvenire… La disamistade mediterranea neppure si chiuderà qui.
Per dire della permanente instabilità degli equilibri militari. Sì oggi l’Isis sgozza ancora, e noi occidentali – anche il bel governo italiano – alimentiamo la partita, anzi le partite e i massacri, con un’industria bellica che guarda al business più che alle ragioni politiche della difesa, come da Costituzione. Valga il caso dell’industria tedesca di Domusnovas, e la penosa scena mura di Gentiloni e della Pinotti, inadeguati davvero al ruolo di statisti cui il caso li ha chiamati pro tempore. Ma resta indubbio essere la galassia islamica nordafricana e mediorientale assai più complessa, e in chiaroscuro, di quanto un qualche episodio balzato nelle cronache rosse dei giornali, oltreché nei report delle cancellerie o delle segreterie di stato, possa mostrare. Chi mai avrebbe immaginato un pontefice romano, lontano successore di San Pio V Ghisleri – il crociato domenicano di Lepanto –, relatore al meeting universitario (e internazionale) sulla pace convocato a Il Cairo dal Grande Imam Al-Azhar?
Il racconto bipartisan, tifando per la pace (e la vita)
Le notizie sui perché e sui come sono, nel libro di Salvatore Loi,… davvero alluvionali. E tutte gustose scorrendole sulla pagina: debbo dirlo subito e chiaro, gustose se l’aggettivo non paia qui irriverente trattandosi di storie comunque di sofferenza umana autentica, di tragedia e di morte tanto spesso. Gustose, direi, se ripensate tradotte in immagini come di un film: ogni notizia un fotogramma, e con l’emozione da cinema, speriamo, anche una valutazione riflessiva e critica circa cosa possa esser stata la storia che non abbiamo conosciuto. Anche se è vero che l’eroismo di chi non tradirebbe mai, al pari dell’opportunismo di chi non attenderebbe il secondo invito per convertirsi al nuovo padrone, e magari farsi più padronista del padrone, è condizione mentale presente in ogni tempo, remoto recente e anche attuale e futuro…
Accettarono di circoncidersi e ben si fecero rivestire alla turca i cristiani in cerca di salvare la pelle. Ma di più: si misero perfino a disposizione per guidare le scorribande in casa propria, contro i propri fratelli di stazzi e villaggi ed a pro dei moros. Vi fu chi, peraltro, ne avrebbe pagato il fio, perché l’Inquisizione si sarebbe ben impegnata a pareggiare i conti, sanzionando (tramite il Braccio secolare) con condanne non da poco. Tomeo de Manso, tempiese, venne accusato di tradimento dei suoi, negli stazzi galluresi, ed a firmare quell’addebito di infamia furono i sardi schiavizzati in Barberia, infine riscattati. A Gerolamo Zambaldo si riservò la forca: il corpo venne diviso in quattro parti, ciascuna delle quali raggiunse una zona di Cagliari, esposta al ludibrio pubblico. La testa invece fu portata a Tempio, per ammonire quelli del settentrione isolano. (Invero come accadde, qualche tempo dopo, per alcuni dei congiurati contro il viceré marchese di Camarassa, nella via Canelles di Casteddu… Ma questa, paradosso all’ennesima potenza, fu una partita giocata tutta all’interno del campo cristiano).
Da noi parlano, al contrario, i Quinque libri imposti dal Concilio tridentino per documentare la storia e mettere ordine al caos dei sacramenti e dei sacramentali. Gli schiavi nostri – dico i moros portati prigionieri in Sardegna – poterono anch’essi valutare se convertirsi oppure no, abbandonando il Profeta e piegandosi alla Croce del Signore delle beatitudini, e molti lo fecero, e si fecero battezzare e fecero battezzare i loro figli… Così soprattutto a fine Cinquecento, sulla scia controriformista tridentina, antiluterana e clericalmente autoreferenziale, come per dogma incontrovertibile.
Ci fu anche un santo vero, il frate minore Francesco Zirano, sassarese, celebrato canonicamente, e cioè ufficialmente, ora sono pochi mesi, ed un santo ad honorem, Hasàn Agà: sardo cristiano catturato quando era ancora ragazzo, portato in Algeria e cresciuto come un principe nella fede di Maometto, egli avrebbe un giorno, da re di Algeri, guidato la flotta islamica contro Carlo V l’imperatore asburgico. Vinse al tempo di Cervantes e la sua memoria restò in benedizione.
Un autore capace del meglio
Ecco dunque Salvatore Loi e questo suo ultimo Prigionieri per la fede, con sottotitolo Razzie tra musulmani e cristiani (Sardegna secoli XVI-XVIII): mi verrebbe da dire che forse l’autore non sappia, neppure lui, quanto prezioso sia questo dono che dalle sue faticose ricerche è venuto a soddisfare molti nostri bisogni, non soltanto quelli vagamente culturali, di conoscenza libresca, ma soprattutto quelli civili per interpretare il tempo che viviamo e ogni sua provocazione, compresa quella, o soprattutto quella, venuta, o che viene, con le barche dal mondo dell’Islam insieme ricco (per i meno) e misero (per i più).
Non ho, evidentemente, alcuna competenza specifica per trattarne, ma questo non mi impedisce di proporre qualche considerazione, più o meno laterale, indotto dalla presentazione che, con maggior cognizione di causa, dell’ottimo volume è stata fatta di recente – lo scorso 18 maggio – presso la chiesa evangelica battista del viale Regina Margherita. Relatori Francesco Virdis (che insieme con Federico Cabras ha curato la stesura editoriale) e Fabrizio Oppo, presente un pubblico di estimatori ed amici di Salvatore Loi, da una vita testimoni del valore suo e delle sue fatiche.
E’ particolarmente bello questo libro – pur se, per ragioni insuperate, fratello minore dei volumi che l’hanno preceduto e che valgono una biblioteca – perché ha le sue virtù soprattutto nel tanto di didascalico di cui sono intrise le sue pagine, e di cui è anche prova l’esigenza introduttiva, avvertita dall’autore, di precisare il senso autentico di certe parole-chiave, di nomi e titoli – moros, turcos, renegados, barbareschi, ecc. – così facilitando il lettore quidam nel suo inoltro spedito e contento perché istruttivo.
I lavori pubblicati da Salvatore Loi – e questo nuovo è sulla scia – costituiscono per unanime riconoscimento, data la lineare coerenza della ricerca, l’originalità dell’approccio e delle fonti – inedite e sparse per il più – e la scorrevolezza, anzi la eleganza e insieme la sobrietà dello stile narrativo, fra il meglio che sia apparso, nell’Isola, negli ultimi anni. E più che negli ultimi anni, direi ormai quasi nell’ultimo ventennio perché è del 1998 il primo studio di una sequenza che l’AMD Edizioni – l’etichetta di Anna Maria Delogu e Stefano Pira che ha inquadrato i titoli in apposite collane e serie di riferimento per gli studiosi futuri – ha avuto il merito di promuovere e diffondere. Così dopo Cultura popolare in Sardegna tra ‘500 e ‘600, con sottotitolo Chiesa, famiglia, scuola (oltre 400 pagine, ben 32 le fonti d’archivio italiane e spagnole compulsate una ad una, più di 190 i titoli di bibliografia degli ultimi due secoli); dopo Sigismondo Arquer. Un innocente sul rogo dell’Inquisizione, con sottotitolo Cattolicesimo e protestantesimo in Sardegna e Spagna nel ‘500, uscito nel 2003; dopo Inquisizione, sessualità e matrimonio, con sottotitolo Sardegna, secoli XVI-XVII, uscito nel 2006; dopo Streghe, esorcisti e cercatori di Tesori, con sottotitolo Inquisizione spagnola ed episcopale (Sardegna, secoli XVI-XVII), uscito nel 2008; è toccato, con le sue quasi 600 pagine e un’infinità di note, a Storia dell’Inquisizione in Sardegna – un’avventura che copre tre secoli e mezzo, fino alla metà dell’Ottocento – comparso in libreria nel 2013, e porta molto avanti gli studi in particolare del Sorgia (ma non solo suoi, ché il filone è ormai sondatissimo, dati lavori generali oppure mirati, anche soltanto compilativi e per territori limitati, comunque preziosi anch’essi).
Andrebbe peraltro ricordato che in contemporanea al testo sulla storia dei tribunali inquisitori sardi è uscito, a firma ancora di Salvatore Loi e con paternità condivisa con il prolificissimo, instancabile Francesco Virdis, affidato per la stampa alla sassarese EDES, il saggio Sottomettere le anime e i corpi. Religione e politica nella Sardegna del Cinquecento, con sottotitolo di esplicazione L’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues de Castillejo e il re Filippo II. Il che riporta direttamente a una delle figure più interessanti della storia della Chiesa sarda, in specie nei secoli di dominio iberico: intendo appunto a quel Parragues controriformista benedettino, bibliofilo e poliglotta, quel nostro presule che fu padre conciliare a Trento e che sui malcostumi diffusi nel clero isolano profferì giudizi non meno severi di quelli pronunciati dall’Arquer (il teologo-giurista destinato al rogo con l’accusa di luteranesimo ed arso vivo soltanto uno o due anni prima che anch’egli, dal trono episcopale di Cagliari, si conquistasse il paradiso).
E, a proposito ancora del Parragues, mi permetto qui una breve digressione, perché il nome dell’arcivescovo riporta pure esso alle cronache di inimicizia con i maomettani nel periodo più caldo, quello che anticipa o prepara la celebre battaglia di Lepanto. Obbligato a partecipare alle tornate conciliari, nonostante le malferme condizioni di salute, per queste stesse avrebbe voluto, il presule, non rimettere piede in Sardegna, ma starsene invece tranquillo in continente (magari a Brindisi, distante comunque da Trieste dove era stato prima di essere trasferito a Cagliari, e da dove aveva voluto essere allontanato per il fastidio procuratogli dai troppi luterani incontrati). E invece dovette tornarsene da noi doppiamente offeso perché un corsaro, tale Dragut, in una qualche operazione marinara gli aveva sottratto libri e vestiario, e altri turchi perfino strumenti astronomici, forse copernicani… E a tal riguardo: Dragut era quell’ammiraglio ottomano nato turco il quale era subentrato al comandante Barbarossa che aveva cresciuto come un figlio, e un principe, però forse castrandolo e sodomizzandolo, il santo sardo, e valoroso comandante, Hasàn Agà…).
Ritorno a Salvatore Loi e alla sua imponente e sapiente produzione storico-letteraria. Ognuno dei titoli da lui passati all’editore in questi anni ha ricevuto il riconoscimento dei competenti, la sua dose di recensioni e segnalazioni ed anche l’apprezzamento privato fatto giungere, discretamente, all’autore dai suoi lettori.
Se ne sarò in grado, vorrei tentare, una volta, di proporre un’articolata e insieme unitaria riflessione sul corpus editato che si mostra esso stesso articolato e insieme unitario. Lo meritano le opere in sé, lo merita il valore della ricerca e dello studio delle carte, delle classificazioni e delle interpretazioni dei testi castigliani e sardi e italiani, lo merita l’autore che ammiro come una delle più belle intelligenze che il mondo degli studi della Sardegna presenti oggi, così come è stato – se posso osare tanto – per il mondo della comunionalità critica della Chiesa sarda. I suoi maggiori meriti conquistati sono nel rigore della preparazione e del metodo e in quella levità espositiva che è propria del docente che parla e scrive perché altri si arricchisca del suo lavoro. Ché lo studio, la ricerca, la scrittura sono essenzialmente arti sociali, ispirate e mosse da un intento partecipativo, di condivisione.
Tale è stato e s’è mostrato, nei lunghi anni di insegnamento sia presso la facoltà Teologica della Sardegna che presso il liceo classico Siotto-Pintor, il professor Salvatore Loi, tale è stato riconosciuto e per questo stimato e ancor più amato da colleghi e allievi. Ed oggi, quando pure la salute non gli concede quanta libertà di fare pur sia presente nei suoi desideri, certo la coscienza di aver concluso molto (vorrei dire tutto) e soprattutto bene, condividendo il pane della scienza – ora teologia o filosofia, ora storia nel sentimento vivissimo, sempre, della sardità – lo sostiene insieme con l’affetto caldo e puro dei suoi.
Mi vien facile mettermi nel gruppo. Resto legato, a proposito dei suoi scritti ed anche degli approfondimenti da lui proposti con lucida anticipazione circa i pesi della tradizione tridentina ancora gravanti sulla riformatrice modernità conciliare, a un testo che potei leggere ancora giovane, giusto quarant’anni fa: “Matrimonio e famiglia in Sardegna nei Sinodi e nelle prescrizioni della Chiesa Sarda dal Medioevo al Concordato del 1929”, saggio che aprì il volume Dottrina sacra. Saggi di Teologia e di Storia, dato alle stampe dalla facoltà Teologica della Sardegna nel cinquantesimo della sua istituzione.
Ripassando i molti titoli usciti in questi anni a firma del teologo, del filosofo, dello storico, del docente nato, ho ripensato spesso a questo saggio che fu di giusta e misurata apertura al nuovo e ricezione positiva dei segni dei tempi. Riferendosi specificamente alla materia matrimoniale (negli step storici della “celebrazione civile-familiare” con atti religiosi non canonici; della “celebrazione religiosa canonica” valida civilmente; della “doppia celebrazione”) concludeva Loi, e la sua conclusione valeva e vale, per il tanto di problematico in essa contenuto, anche per altri campi, perché la Chiesa, dono di Provvidenza, è risposta storica, calibrata sul relativo umano, non su assoluti impropri: «Occorre chiedersi: nella situazione attuale qual è pastoralmente la più conveniente? Finora la Chiesa italiana ha optato per la celebrazione religiosa secondo la forma tridentina con rilevanza civile tramite la trascrizione. La responsabilità pastorale e l’insegnamento della storia consigliano di analizzare attentamente e di giudicare un simile problema alla luce dei cambiamenti e delle maturazioni intervenute nella nostra società». Chiaro? Chiaro anche nelle applicazioni ecumeniche e dialogiche ormai consolidate ma non per questo immuni da sabotaggi malevoli che muovono dall’interno stesso della “ecclesia”?
Un flash su Salvatore Loi quartuccese debbo, anch’esso, pure permettermelo in queste conclusioni. A suo merito va ascritta, nel gran novero, un’opera, non spessa come le altre, ma certamente curata con specialissimo sentimento e pubblicata nel 2001 dalla locale associazione “Amici di Mons. Raffaele Piras”: Quartucciu nel Trecento: 1320-1361: norme, sito, rivolta anticatalana. L’autore va qui per rettifiche di ipotesi in precedenza affacciate da questo o quello studioso e dona alla comunità di nascita e prima formazione altre occasioni di conoscenza della propria storia.
Anche in questa sobria e concreta forma del suo amore alla prima scuola degli affetti e delle conoscenze è registrata la qualità umana di uno storico-teologo-filosofo che non si è mai perduto nelle astrattezze del disincarno, e dunque nelle deviazioni morali di chi assolutizza il sabato invece che la creazione, e la creatura.
Nei titoli dei capitoli una guida alla lettura
Prigionieri per la fede è, come detto, cadenzato in dieci capitoli e, all’interno di ciascuno di questi, da paragrafi che valgono insieme come focus e come guida allo svolgimento, il che pare conferisca un ritmo ancor più agile alla lettura del non specialista, di chi conosca soltanto per sommi capi, da più generali studi di storia della Sardegna, la materia, sebbene sia da dirsi – proprio a tal riguardo – che il più delle collocazioni temporali dei conflitti o delle incursioni islamiche nell’Isola riporti, da quegli studi, all’alto medioevo, all’età cioè antecedente l’affermarsi dei giudicati, insomma a quella che aveva visto spostarsi la città capoluogo dal suo “tenditur in longum”, di cui aveva scritto Claudiano – da Sant’Elia a Sant’Avendrace –, al prudenziale acquattamento sulle rive protette della laguna di Santa Gilla e lungo la piana del Fangario, fin verso il colle di San Michele. Il riferimento maggiore è, qui, alle vicende giunte fino al Mille, che rimandano a nomi come Museto ed a quelli dei numerosissimi califfi omayyadi (compresi gli andalusi), abbasidi, fatimidi egizi, idrisidi marocchini, ecc. di cui scrive Mohamed M. Bazama nei suoi Arabi e Sardi nel Medioevo e Declino d’una grande e ricca Sardegna, usciti saranno ormai quasi trent’anni fa dalla EDES, e che hanno il pregio di raccontare la storia con il cuore e la mente responsabili nell’altra parte del mare.
Chiudo. Mi è capitato di recente di lavorare, per una prossima pubblicazione, agli scritti editi e inediti di Ovidio Addis, un’altra intelligenza magna della Sardegna di questo nostro tempo, diciamo di quel tanto di tempo nel quale abbiamo convissuto, anche nell’associazionismo, nel servizio agli ideali umanistici e democratici, noi che pure eravamo stabilmente in platea, mai in tribuna. Ebbene, fra i suoi più spediti e gradevoli report di sardità antica che mi è capitato di censire ho incrociato le storie e le leggende che riferiscono dei conflitti combattuti in terra isolana, negli stessi secoli trattati da Salvatore Loi, dai nostri contro gli invasori della Mezzaluna islamica: da cui la distruzione di villaggi, le deportazioni e anche i trasferimenti dei superstiti da zona a zona. Si tratta di leggende che hanno lasciato il segno nelle tradizioni locali, nel costume e anche in quel tanto di sapido dello spirito pubblico che risale alla necessità di individuare, scorgendole nell’antico pericolo, ragioni e modalità dell’essere comunità coesa. In quella leggenda sulle origini di Teulada, in quell’altra sulla prima particolare confezione del vestiario tipico teuladino, in quelle altre ancora che hanno invece il loro scenario centrale nel Montiferru, nei dintorni di Seneghe, o magari di Narbolia: «L’orda moresca uscì da Narbolia che non era più notte, né era ancora alba. Carichi di bottino e di bottino e di crapula, rallentava la marcia fidante nell’apatia… I vascelli sciolsero le vele e in gran vela tornarono in Africa senza equipaggi d’arme a raccontar la disfatta al signor loro di Tripoli “lo crodelissimo Draghutto inimico della fede catholica”, per i mori il colpo non era riuscito… La tradizione ricorda solo che i tripolini depredarono Narbolia e che tornando alle navi, furono sbaragliati dai seneghesi in Camp’e Trippus…»… Altre leggende rimandano ad Arbus, anzi a Serru che avrebbe preceduto Arbus e l’avrebbe fondata o cofondata proprio dopo le distruzioni subite dalla violenza degli infedeli… Si potrebbe stendere una cartina geografica della storia, ma anche una cartina geografica delle leggende che sono storia anch’esse e non dell’ultima categoria.
Ricordo ancora Ovidio Addis: «In un tempo lontano la torre di S. Isidoro era parte domestica del castello di Pere Portas, re di Teulada, padrone di mille servi e di mille armenti, signore di tutta la Tuerra, feconda ed opima, di tutto il mare e di tutte le terre da Capo Spartivento a Capo Teulada. Scaltro come la volpe, avaro, violento e perfido desolava il popolo. I suoi avi, giunti da Genova (al tempo dei Re di Sardegna), soldatelli trafficanti o equipaggio da sentina, divenuti mercanti arricchirono ed ebbero potenza dopo aver messo in inganno, e con frode, numerosi paesi a saccomanno: “hiant postu in terra centu biddas”. La gente ne tremava: sola salvezza la fuga in altri regni; solo sfogo la soddisfazione del danno e della beffa che il tiranno pativa quando dall’Africa venivano i Mori. E i Mori pirateggiavano ogni settimana nella buona stagione, qualche volta durante l’inverno; due volte in una notte di Natale…».
Ecco di seguito i titoli di Prigionieri per la fede:
Argomenti introduttivi: Guerre tra grandi imperi mediterranei e razzie di corsari barbareschi e cristiani; Qualche precisazione lessicale: moros, turcos, renegados, lingua franca, Barberia, barbareschi.
La schiavitù come conseguenza della guerra e delle razzie: Razzie dei turcos e moros in Sardegna; Nelle coste occidentali; Nelle coste meridionali; Nelle coste orientali e settentrionali.
Catture e razzie “cristiane”: Conseguenze delle reciproche razzie: le angosce dei parenti restati in patria e l’inizio della schiavitù dei catturati; Schiavi sui mercati del mondo islamico; Schiavi islamici sul mercato di Cagliari.
Vita da schiavi: Schiavi nel maghreb e nel Levante ottomano; Schiavi sardi nel mondo islamico.
Vite e storie di schiavi sardi: La Signora di Orosei; Nicola Salaris di Bosa, signore del feudo della Minerva; Il capitano Lupino: schiavo ad Algeri con Miguel Cervantes; Il francescano conventuale di Sassari Francesco Zirano: la morte santa di una spia.
I rinnegati: conversioni all’Islam vere o strumentali?: “Con la bocca ma non con il cuore”; Una rinnegata sarda sposata in Algeri: Marchesa Scano (Dezcano); Famiglie di rinnegati; Schiave cristiane e rinnegati ravveduti; Rinnegati sardi guide per le razzie in Sardegna; Due sardi catturati dai corsari divenuti “re” di Algeri nel Cinquecento: Hasàn Agà, Ramadàn (Rabadàn) Pascià.
Vita degli schiavi musulmani in Sardegna: Natura della schiavitù; Numero degli schiavi; Conversioni al Cristianesimo.
Le vie della liberazione: riscatti, fughe, scambi: Schiavi cristiani nel mondo islamico e tappe del riscatto; Mediazioni e riscatti nelle città barbaresche; Intermediari religiosi: il decano di Ales e vescovo di Ampurias Giovanni Sanna aggregato all’arciconfraternita del Gonfalone di Roma, Redentori mercedari e trinitari; Il rientro in patria e la libertà riacquistata; Le vie della libertà per gli schiavi in Sardegna: La fuga, Lo scambio, Liberazione gratuita, La taglia (tallia in latino, talla in catalano e castigliano); Gli schiavi liberati o liberti: Luoghi di residenza dei liberti a Cagliari.
Normativa sugli schiavi: diffidenza e ostilità
Schiavitù domestica: vita nella famiglia dei padroni: Lavori degli schiavi, Pratiche sociali e religiose, matrimonio e famiglia, usi e comportamenti degli schiavi islamici.