Storie di Chiesa e di uomini di Chiesa nel fare quotidiano per la memoria dei secoli: i nuovi soggetti dell’ultimo libro di Tonino Cabizzosu, di Gianfranco Murtas

In un articolo dello scorso 30 marzo, in questo stesso sito di Fondazione Sardinia (cf.  “Fra istituzione e carisma: chierici e laicato, il dinamismo apostolico dei cattolici nella società sarda dell’Otto e Novecento in un nuovo volume miscellaneo di Tonino Cabizzosu”) ho presentato alcune note sull’ultima pubblicazione che lo storico della Chiesa sarda più rilevante, insieme con padre Raimondo Turtas – studioso e autore di assoluta indipendenza e sempre gustosa scrittura –, di questo ultimo mezzo secolo nell’Isola,ha prodotto ed offerto alla lettura, e allo studio, di competenti e appassionati alla materia: appunto don Tonino Cabizzosu, titolare di cattedra alla Facoltà Teologica della Sardegna. Ché la Chiesa cattolica, con la vasta raggera dei suoi protagonisti fra clero, congregazioni e laicato, con la sua organizzazione e i suoi eventi, con le sue sedi istituzionali ed i suoi siti spirituali e devozionali, con la sua quotidiana pratica educativa, culturale e sociale, con i suoi profeti e i suoi testimoni, e naturalmente anche con tutti i suoi limiti, propri dell’umano, e i suoi ritardi e i falli di cui puntualmente, nelle stagioni future, chiede venia, costituisce comunque, nella nostra civiltà, nel segmento del nostro territorio e della nostra storia, soggetto ora orientativo ora financo condizionante dello spirito pubblico non meno che del più intimo vissuto di un’infinità di persone: ineludibile protagonista della scena. Tanto più, dico, in Sardegna, che l’evangelizzazione, e con quanti martiri! incluso un papa costretto ad metalla…, l’ha conosciuta fin dai primissimi secoli dell’era cristiana: piacerebbe dire fin dal tempo della predicazione di San Paolo, che una leggenda – e chissà se davvero leggenda (di un «forte grado di probabilità» scrive Pietro Martini nel suo compendio della Storia di Sardegna, p. 34, e si potrebbero citare il Fara e i moderni a seguire) – ci delinea come facondo apostolo in esercizio a Cagliari. Una pietra ritenuta predella della sua fatica docente e della sua oratoria catechetica – scrive ancora il Martini fra le aggiunte alla sua Storia Ecclesiastica di Sardegna, p. 120, e conferma il can. Spano nella celebre sua Guida del capoluogo, p. 305 – si sarebbe conservata in città per molti secoli, fino alle conseguenze «dei danni e delle devastazioni che gli Arabi fecero delle cose sacre».

E direi che in quanto direttore – per impegnativi vent’anni, quelli degli episcopati sommati di don Ottorino Pietro Alberti e don Giuseppe Mani – dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari, Tonino Cabizzosu del bimillenario arco temporale (o della larga sua parte) come documentato esso è da centinaia di pergamene di diversa natura ed oggetto (magari anche suellesi in lingua sardo-campidanese) e carte varie è stato custode, facilitatore degli studi di molti, e lui stesso, con allievi e collaboratori, minatore di scavi incessanti, necessari e felici, innovativi nel metodo, nella scelta delle fonti, negli inquadramenti degli sviluppi e degli esiti.

Duemila anni, quasi un milione di giorni. Storico contemporaneista, Cabizzosuvolge d’ordinario il suo lavoro, da specialista collaudato, agli ultimi secoli ma non può, evidentemente, prescindere dalla lunga stagione spagnola e, anche per le sue radici personali – ché la sua Chiesa ozierese s’è declinata nelle varianti storiche di Bisarcio e di Castro –, medievali e giudicali. Ve n’è abbondante traccia e prova in questo ultimo suo libro Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ‘800 e ‘900, pubblicato ora è soltanto qualche settimana dalla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna (PFTSUniversity Press).

A dir di archivi storici

Ho fatto prima riferimento al periodo iniziale della bimillenaria esperienza del cristianesimo sardo per una certa suggestione causata da alcune righe – soltanto alcune righe – della prima tranche dei saggi contenuti in questa ricca miscellanea che assembla comunicazioni, conferenze, presentazioni variamente occasionate e distribuite lungo un settennio (dal 2004 al 2010). Fra essi, in primissimo luogo, è quello intitolato “Breve presentazione di alcuni fondi archivistici conservati nell’Archivio storico diocesano di Cagliari”, che riprende la relazione presentata al convegno “Le carte della memoria tra storia e profezia”, svoltosi proprio nella sede dell’Archivio Storico Diocesano nel novembre 2009. Non arriva, tale testo, a San Paolo e neppure a papa Ponziano o papa Callisto, arriva a papa Gregorio Magno (590-604) e, nel quadro,può ben bastare, perché richiama la saggezza della Chiesa – qui già post-costantiniana – tesa a documentare la propria elaborazione dottrinale e la propria pratica sociale, inclusa quella liturgica, e le proprie regole giuridiche, fissando così i cardini della cosiddetta tradizione. Una tradizione, sia chiaro, che mai avrebbe potuto essere museale, veramente impossibile in un corpo complesso e di mille stratificazioni, multipolare ed a vocazione universale. Al contrario, e qui mi pare di minimo buon senso allinearsi ad Alberto Melloni quando parla dei lefebvriani come incolti fanatici delle anticaglie e bellamente… ignoranti della vera tradizione che riporta alle fonti! Questa è realtà dinamica che, come un corpo fatto, accoglie e metabolizza, dunque trasforma in continuum, nella fedeltà piena e consapevole ai fondamentali.

«La Chiesa, sin dai primi secoli, ha conservato e trasmesso i documenti che avevano relazione con la sua opera dottrinale e pastorale. Ogni diocesi aveva un proprio Tabularium dove erano custodite le scritture che servivano a testimoniare l’attività di governo del vescovo nell’ambito del territorio di sua competenza e tutte le testimonianze delle relazioni amministrative, pastorali e diplomatiche delle rispettive Curie». Questo scrive in apertura Cabizzosu che subito colloca tale schema operativo, proprio di una comunità portatrice di una sensibilità istituzionale, dunque storica, consapevole delle logiche del lungo periodo, nel vissuto della Chiesa locale, sarda e cagliaritana nello specifico: «Cagliari, sin dal tempo di Gregorio Magno, fu l’unica sede metropolitana della Sardegna e vi era presente una attiva Scribania, con annesso Tabularium…».

Il viaggio nel tempo che l’autore propone a tal riguardo muove con una prima accelerata dal periodo giudicale che vedeva cattedrale ed episcopio cagliaritani in Sant’Igia, con le suffraganee in Dolia, Suelli e Sulci in attività nei territori che avremmo chiamato di Parteolla, Trexenta/Ogliastra e Sulcis-Iglesiente, e una seconda, e più marcata ancora, dal XVI secolo, tempo di concilio controriformista e di nuove regole per l’intero sistema anche giuridico-amministrativo ecclesiastico, non soltanto spirituale-sacramentale, o dottrinale.

Entrano in gioco qui bolle papali e carte reali, con «brevi e lettere, sentenze apostoliche e disposizioni vescovili, manoscritte e a stampa, in originale e in copia» riferite a questioni diverse, e tutto costituisce, con le pergamene – preziosissime – salvate dall’incendio (?) distruttore delle scritture del XIV e XV secolo raccolte presso il duomo pisano di Castello, il primo archivio – primo per anzianità del comparto integrato – voltosi alla nostra conoscenza e al nostro studio di moderni.

Da lì l’Ordinarium, da lì gli Inventari, da lì i Quinque Libri che consentono oggi, a studiosi professionali ed a studiosi dilettanti – intendendosi qui l’aggettivo nel senso che gli dava lo Spadolini riferendosi al “diletto”, alla passione che non escludeva la competenza – di rifare la storia di singoli, famiglie e comunità locali per un mezzo millennio.

Elenca, Cabizzosu, la varietà dei documenti conservati, le Sentenze, la Santa Cruzada, i Mandati fiscali, le Visite pastorali, i Despachos, i Monasteri, gli Acta episcoporum, gli Atti sciolti, le Memorie e Promemorie, le Lettere, le Respuestas, il Tribunale di Appellazioni e Gravami… I titoli dei faldoni che raccolgono i registri – 211 registri, senza contare l’ultimo imponente aggregato giudiziario, assolutamente cospicuo per dimensioni ed interesse, con le sue serie di cause civili, criminali, matrimoniali, beneficiali, di cappellania – e poi ancora i fascicoli del Patrimonio Ecclesiastico, a coprire circa 150 anni, fino al 1849: sostanzialmente fino alla rinuncia della Sardegna all’antica autonomia e cioè al suo ingresso negli ordinamenti dello stato sardo-piemontese, nel contesto di un papato, quello piino, passato dalle aperture liberali del 1846 alle resistenze antirepubblicane combattute dall’autoesilio di Gaeta.

Ma quel che l’autore aggiunge all’elenco, volendolo qualificare, è la collocazione storica, sia nelle coordinate generali – dei vari papati Clemente o Urbano o Pio o Gregorio – sia in quelle particolari dell’episcopato governatore nel territorio diocesano, ora del domenicano Baldassare de Heredia ora del celeberrimo Parragues de Castillejo (di professione benedettina e coevo dell’Arquer martirizzato a Toledo nell’autodafè del 1571), ora del Perez (consacrante del Canelles illuminato vescovo stampatore in quel di Bosa) ora del mercedario Bernardo Carinena y Ypenza, ora del Della Cabra (quello dell’ermellino pestifero al tempo del rilancio efisiano) ora del Falletti – arcivescovo e viceré insieme –, ora del Delbecchi, lo scolopio che ha legato il suo nome alla fondazione del seminario di via Università.… Nomi e titoli che rimandano ciascuno a una suggestione particolare, a coprire della storia generale, di cui conosciamo le linee generali, uno speciale tassello di umanità sociale tutta sarda.

Tanto più, direi, perché e come ne offre uno spaccato esemplare, assolutamente vivido, nella parte conclusiva del suo studio, Cabizzosu riferendosi in via del tutto singolare e saporita «all’acquisizione delle informazioni sullo stato patrimoniale e sulle doti morali dei candidati agli ordini sacri». Tutto in coerenza con i dettami tridentini (A.D. 1562): «si decretò, per evitare che il sacerdote esercitasse un mestiere indegno del suo ruolo, che non sarebbe stato ammesso agli ordini sacri chi non avesse dimostrato di possedere, insieme alle doti morali, un patrimonio di beni materiali (mobili o immobili) che fosse sufficiente a garantire il suo sostentamento. Si raccomandava anche che l’istanza fosse attentamente verificata onde evitare le possibili frodi o dichiarazioni mendaci da parte dei candidati».

Parentesi, se posso permettermi una rapidissima digressione personale. Mi capitò anni fa di ricostruire la biografia di un sacerdote della diocesi di Oristano che fu poi incardinato nella suffraganea di Ales, forse per coprire nella riservatezza il suo status di vedovo (aveva perduto la madre dei suoi due figli, Maria Frazioli, per altro verso cognata di Efisio Marini, il celebre medico pietrificatore dei cadaveri dell’Ottocento sardo e non soltanto sardo). L’avvocato Francesco Luigi Sardu, richiamato anche dal De Castro nel suo diario a proposito di questioni ereditarie, fu parroco di Santa Barbara a Villacidro dal 1882 al 1885 ed ottenne la ammissione allo stato clericale proprio perché il padre, analfabeta ma benestante proprietario terriero di Nurachi, a lui aveva intestato diversi e cospicui fondi rurali assicurandogli così rendite tali da poter sostenere la sua indipendenza economica, e dunque poter svolgere la sua missione con dignitosa libertà. I fascicoli che potei compulsare nell’Archivio Storico Diocesano di Oristano documentano efficacemente questa singola e… singolare storia personale, con tutte le verifiche pubbliche e private imposte dalla normativa papale, le note del vicario generale lette tre volte coram populo alle funzioni liturgiche domenicali (per raccogliere eventuali riserve o segnalazioni di mendacio), che ho evocato per provare come una regola conciliare della metà del XVI secolo fosse ancora bella e arzilla tre secoli dopo…

Riporta al tema anche il saggio “Le memorie delle carte tra restauro e falsificazione”, il secondo della miscellanea ora al commento. Qui Cabizzosu propone un quadro molto articolato degli interventi riparatori e rivitalizzatori delle unità d’archivio, dei libri e quant’altro faccia capo ai grandi depositi (ecclesiastici nel caso concreto): rifà la storia delle tecniche di restauro dettagliandone le modalità attuali più moderne e conservative. Ma anche stavolta non si limita a delineare una storia generale, bensì entra nello specifico di una esperienza conosciuta (e vissuta) personalmente: si riferisce appunto all’Archivio Storico Diocesano di Cagliari da lui diretto e agli sforzi compiuti per dar lunga vita a quanto rischiava di perdersi in un lento e inarrestabile (ma talvolta rapido e a rischio di irreparabilità) processo degenerativo depauperando un patrimonio collettivo di valore inestimabile.

Egli scrive (e vale considerare che si tratta della relazione da lui presentata, nel novembre 2010, al convegno di studi “Storie e memorie: illusioni d’immortalità?”, organizzato presso la Pontificia Università Gregoriana): «L’attuale ubicazione dell’archivio, in un’ala dell’edificio che ospita gli uffici della Curia e il seminario diocesano, si presenta particolarmente felice in quanto a salubrità degli ambienti di deposito, per la modernità e funzionalità della struttura, opportunamente adattata e attrezzata. Lo stato di conservazione generale è relativamente buono, ma non mancano i casi di grave degrado, da ricondurre alle particolari condizioni ambientali dei locali in cui l’intero archivio era sistemato fino al 1984. Gli ambienti in questione erano quelli storici delle antiche scuderie dell’episcopio di piazza Palazzo, al piano terra, in adiacenza agli uffici della Curia. Tali ambienti non erano idonei per la conservazione, in quanto privi del tutto di aerazione e compromessi da gravi problemi di umidità, che avevano, nel tempo, causato notevoli danni alle carte, per lo sviluppo di muffe e la presenza di insetti. L’interessamento dell’arcivescovo Giuseppe Bonfiglioli aveva consentito, nel 1974, l’apertura al pubblico dell’archivio, cosa che lo riportò all’attenzione del mondo culturale sardo, che iniziò a frequentare la sua sala di studio con assiduità. Nel 1984 il patrimonio documentario fu trasferito nella sede attuale. Si procedette poi al parziale riordino della documentazione e ai primi interventi di restauro, limitatamente ai casi maggiormente compromessi. Risolti i problemi relativi alla salubrità dei locali di conservazione si è potuto, gradualmente, procedere al restauro della restante documentazione che necessitava di interventi più urgenti».

E ancora: «Una realtà complessa come quella dell’archivio storico diocesano di Cagliari è anche estremamente complessa dal punto di vista conservativo, in quanto l’eterogeneità dei problemi […] richiede interventi anche molto diversi nei casi specifici, con il coinvolgimento di tecnici del restauro e della competente Soprintendenza Archivistica…». E così via circa gli sforzi compiuti per arrivare all’obiettivo non soltanto della piena sanità ma anche della conquistata fruizione pubblica dei fondi (evidentemente costretta, e chissà per quanto tempo, a limitazioni proprio per la cessione, in ricambio continuo, di ingenti “quantità” ai laboratori di restauro).

Al tutto – sostiene Cabizzosu – si è aggiunto, come risorsa e come problema insieme, il fondo archivistico capitolare, quello cioè sette volte centenario della metropolitana di Santa Maria costituita dai protonotari apostolici (così spesso in pista di lancio per l’episcopato): ciò soprattutto – un soprattutto legato al rilievo della serie continuativa – con le Risoluzioni Capitolari (dal XVI secolo) e gli estratti amministrativi e patrimoniali che rimontano addirittura al Millequattrocento, direi all’epoca cioè ancora aragonese e prespagnola.

Molto interessante, in questa medesima sezione mirante a zoomate sulla tradizione ecclesiastica supportata dai documenti della storia, un paragrafo dedicato dall’autore al rischio delle falsificazioni ed interessante è il richiamo che ne viene, quasi per automatismo, ai cosiddetti “falsi d’Arborea”. Poche pagine riassuntive del tutto ma assolutamente puntuali nel merito e gustose alla lettura, insieme critica e sentimentale, della storia isolana dei secoli perduti. E, aggiungo, brillanti sembrano – a proposito di frodi registrate dalla pratica e risalenti in particolare al medioevo – le annotazioni che Cabizzosu offre circa le tematiche prevalenti: fra esse l’accusa di infanticidio rituale spesso rivolta, in chiave antisemita, agli ebrei deicidi, naturalmente insieme con tutto l’altro armamentario di profanazioni delle ostie consacrate o della stregoneria, ecc. (Valgano sul punto anche le molte ed illuminanti pagine che ci ha offerto, in questi ultimi anni, Salvatore Loi con le sue dotte ricerche sulla religiosità sarda in epoca spagnola, da Cultura popolare in Sardegna tra ‘500 e ‘600 a Sigismondo Arquer, un innocente sul rogo dell’Inquisizione (Cattolicesimo e Protestantesimo in Sardegna e Spagna nel ‘500), a Streghe, esorcisti e cercatori di Tesori (Inquisizione spagnola ed episcopale: Sardegna, secoli XVI-XVIII), agli altri titoli ancora). Puntuale anche il rimando, in quanto alla letteratura moderna, ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, anticipazione e copertura delle peggiori nefandezze del Novecento e motivo, direi, di malinconica correità ideale dei cattolici nel limaccio delle acque in cui sono affondati sei milioni di “giudei”.

Di Villagreca, dei papi e delle diocesi

Un contributo al volume di N. Rossi e S. Meloni La Villa dei Greci. Una Villagreca inedita tra storia, archeologia ed arte, lo donò, Cabizzosu, nel 2007, e ritorna anch’esso nella prima sezione della miscellanea di cui proseguo lo spoglio. Fu fondato interamente, e ottimamente, su quanto l’archivio parrocchiale di quella storica frazione di Nuraminis – patria, sia ricordato en passant, di vescovi moderni non da poco come i Serci zio e nipote (Paolo Maria e Igino, a Tortolì, Oristano e Cagliari il primo, ad Ozieri il secondo) – ancora contiene nel suo museo, allestito con sapienza da don Leone Porru, parroco esperto e colto. Non solo comunque sull’archivio parrocchiale ma anche su quello diocesano, fatto recentemente custode di carte della cui titolarità la parrocchia non s’è comunque privata.

I Quinque Libri, i fascicoli della Contadoria Generale, i registri delle circolari di diverso oggetto, e quelli anche della confraternita delle Anime del Purgatorio – talvolta in Duplicados talvolta no – costituiscono il fondo archivistico d’indubbia imponenza, date ovviamente le misure (relativamente modeste, quasi infime) della comunità interessata, e l’attenta e dettagliata ricognizione pare risultato di una virtuosa applicazione della quale va dato atto proprio a don Cabizzosu – con visitatore associato all’arcivescovo Giuseppe Mani nella visita pastorale degli anni trascorsi – che a tanto ha provveduto anche in pressoché tutti i centri parrocchiali della vasta archidiocesi, dandone inoltre conto in diversi numeri speciali (il 12, 13 e 14 usciti fra 2006 e 2007) di Notiziario ASDCA, il periodico dell’Archivio Storico Diocesano che purtroppo ha cessato le pubblicazioni nel 2012, con l’abbandono della direzione da parte dello stesso cattedratico (delitto che io imputo ad una certa miopia dell’arcivescovo Miglio, mai veramente entrato nelle migliori dinamiche della nostra realtà sarda).

Il Notiziario, sia detto qui in rapidità, costituiva una vetrina d’eccellenza delle preziosità del maggior Archivio Storico fra quelli delle Chiese locali isolane, offrendo anche contributi di specialisti ed orientando i suoi riflettori anche su quel vasto e variegato panorama ecclesiastico territoriale – dico il sistema degli archivi parrocchiali – che da solo basterebbe, a volerlo elaborare in profondità e sfruttare al meglio, a dar fatica di molte vite a uno stuolo di storici impegnati a collocare il loro lavoro in una prospettiva aperta al domani che viene. Perché… dalla storia il futuro. Non a caso il compianto don Carlo Chenis – un vescovo salesiano purtroppo scomparso ancora giovane nel 2010, e già cittadino onorario della nostra Borore, dove trascorreva e Pasqua e Natale da molti anni – definì una volta gli archivi parrocchiali come il «luogo del futuro», spiegando essere essi capaci di sensibilizzare le coscienze «al sensusecclesiae» proprio perché «luogo della memoria, luogo ecclesiale, luogo territoriale, luogo di formazione».

E a dire ancora, e per concludere, di Villagreca e delNotiziario ASDCA mi parrebbe giusto anche richiamare un bellissimo articolo di Marcello Schirru, della Facoltà di Architettura di Cagliari, proprio su – così il titolo – “Un’interessante architettura gotico-barocca della Sardegna: la parrocchiale di San Vito a Villagreca”. Un pezzo uscito sul n. 18-19 (dicembre 2011) del Notiziario.

Pur nella loro brevità costituiscono fra le pagine migliori dell’intera miscellanea, forse anche per le suggestioni dei temi trattati, quelle dedicate a “Il pontificato romano e la Sardegna” (già pubblicate su Il Portico il 3 agosto 2008) e alle “Cinque voci per i volumi Le diocesi d’Italia” curati da L. Mezzadri, M. Tagliaferri ed E. Gueriero: il riferimento specifico è qui alle diocesi di Goceano, Monte Acuto, Logudoro, Marghine, Barbagia di Ollolai ed Ogliastra, vale a dire ai territori affidati, dal medioevo (XII secolo) in poi, più spesso in sequenza spezzata, alla giurisdizione dei vescovi di Bisarcio, Castro (o Castra), Lanusei (ex Suelli, ricostituita nel 1824 dopo l’annessione a Cagliari), Ottana (rimontante all’anno mille o giù di lì e ricompresa fra le suffraganee della metropolitana di Torres) ed Ozieri (risorta, dalle ceneri antiche di Bisarcio e Castro, nel 1805 con recuperi attuali dalla diocesi di Alghero).

Il fascino di queste pagine è, a mio avviso, nella galoppata diacronica che impegna l’autore e noi suoi lettori, anche per il mix inestricabile fra storia ecclesiastica e storia civile, attraverso gli step giudicali, ispanici, sardo-piemontesi, italiani infine, mix che da noi presenta eccellenze visibili e palpabili ben oltre gli ordinamenti.

Per ragioni puramente sentimentali, non arbitrarie o ingiustificate però, ripensando e anzi omaggiando adesso la memoria cara di padre Giuseppe PittauSJ, arcivescovo titolare di Castro fino alla morte avvenuta nel 2014, vorrei riportare alcune righe della scheda riguardante quella sede episcopale suffraganea anch’essa di Torres e risalente (col vescovo Adamus) forse ai primi decenni del XII secolo. «In tale periodo – scrive Cabizzosu – comprendeva ventisette “ville”, con untotale di circa dodicimila abitanti. Il secondo vescovo sicuramente attestato fu il camaldolese Attone, che nel 1162 consacrò, come documentano le cartulaeconsecrationis, la chiesa di Santa Maria di Anela e nel 1168 quella di San Demetrio in Oschiri. Nella cronotassi episcopale, dal 1162 al 1502, si contano trentasette vescovi. Un anonimo vescovo di Castra partecipò nel 1215 al concilio Lateranense IV; nel 1220 Onorio III diede disposizione al suo legato Bartolomeo di esaminare la consistenza del patrimonio della piccola diocesi per verificare se fosse adeguato al decoro della dignità vescovile. Nel 1420 fu celebrato a Castra il primo sinodo del Logudoro. Il fenomeno dello spopolamento delle piccole “ville”, fra cui quello della sede episcopale, segnò l’abbandono di numerosi altri insediamenti minori e la conseguente unione della diocesi, come avvenne nel 1503 per Bisarcio, in seguito a un riordinamento generale delle circoscrizioni ecclesiastiche dell’isola con la bolla Aequumreputamus del novembre 1503».

In quanto invece alle relazioni del pontificato romano con la nostra Isola le suggestioni derivano da quel ripasso due volte millenario che, scandito in nove “nuclei”,  muove proprio, come dicevo all’inizio, dai secoli della prima evangelizzazione, e dunque della predicazione tutta spirituale che, per natura, andava contro il potere costituito dell’età imperiale: s’affacciano qui i nomi di Ponziano e Callisto, del presbitero Ippolito, dei martiri torresi Gavino (e Proto e Gianuario), di Lussorio di Fordongianus, di Simplicio di Civita, di Saturno di Cagliari, di Antioco di Sulci ed Efisio di Nora; s’affacciano i nomi dei vescovi (cagliaritani di nascita) Lucifero ed Eusebio – quest’ultimo episcopus a Vercelli e primate dell’Italia settentrionale –, s’affacciano i nomi dei pontefici di nascita sarda come Ilario e Simmaco, a coprire un mezzo secolo circa nel passaggio fra Quattrocento e Cinquecento, tempo di rovina imperiale e di nuovi equilibri che s’aprirono fra Oriente ed Occidente.

Entrano nella pur rapida ricostruzione storica i vescovi nordafricani del cenobio cagliaritano, esiliati da Trasamondo e custodi delle spoglie di Agostino, trasferite poi da Liutprando in quel di Pavia, entrano le celeberrime lettere di papa Gregorio e, almeno in prospettiva, i riferimenti alla “conversione” barbaricina di re Ospitone, entra la quattro (e più) volte secolare stagione giudicale, dopo le ripetute aggressioni musulmane dalle coste isolane, entrano i riaggiustamenti delle giurisdizioni diocesane e il fiorire del fenomeno monastico, così spesso origine e alimento, oltreché di monumentali opere architettoniche d’impianto romanico, anche di economie rurali avanzate, entrano gli uffici dell’arcivescovo di Pisa (si pensi al Visconti legato visitatore nell’Isola nel 1263), entrano l’infeudazione sarda a Giacomo II d’Aragona, da parte di Bonifacio VIII, e la riserva voluta da Giovanni XXII circa la nomina dell’intero episcopato isolano, entrano le nuove carte geoecclesiasticheimposte da Alessandro VI il papa Borgia e da Giulio II il guerriero e mecenate, entrano le crescenti dinamiche culturali e spirituali delle nuove famiglie religiose dell’età controriformista – si pensi ai gesuiti, si pensi agli scolopi, si pensi ai cappuccini…

Entra infine la modernità, anche in collegamento con le trasformazioni statuali dell’Italia risorgimentale, con le rotture e i recuperi magari riformati delle relazioni con la Santa Sede (passando magari dagli exequatur negati e poi, con lenta progressività, rilasciati dal 1867 o dal 1871, in un riacquisto faticoso di sé dopo la perdita del potere temporale e dopo la legislazione anticlericale del 1855 e anni successivi, fino agli accordi della Conciliazione), entra la consacrazione isolana alla Madonna di Bonaria nel 1908, entra la partecipazione sarda al Concilio Vaticano II (con moderato ottimismo e orientamenti opposti a quelli cavalcati al Vaticano I soprattutto dai vescovi Demartis e Zunnui Casula, salvo soltanto Montixiil cauto antifallibilista), entrano le visite papali di Paolo VI nel 1970, di Giovanni Paolo II nel 1985, di Benedetto XVInel 2008 (ed oggi aggiungerei Francesco nel 2013).

Delle confraternite, in particolare della Congregazione in Sant’Eulalia

Per larghi spazi ancorato a queste stesse premesse documentarie è anche il testo “Le confraternite: solidarietà incarnata nellastoria”, ora riportato su carta ma pronunciato davanti a gran pubblico, da don Cabizzosu, nel teatro di Sant’Eulalia, promuovendo, insieme con Paolo Fadda e, modestamente, il sottoscritto, nell’aprile 2009, il bellissimo lavoro di don Mario Cugusi dal titolo Congregazione del Santissimo Sacramento nella Marina. Storia di ieri, cronaca di oggi (grafica curata con eccellente gusto e professionalità da Daniele Pani).

Le polemiche apertesi negli anni fra l’allora parroco della antica collegiata di Sant’Eulalia – uomo di importante cultura filosofica e teologica e per tre decenni uomo di scuola pubblica cioè laica – e la Congregazione, la quale era parsa non voler più corrispondere al lascito morale della sua storia, anzi della sua stessa istituzione – sovvenire cioè la parrocchia nelle sue attività religiose e sociali, ora del tutto disimpegnandosi rispetto ai carichi finanziari notevolissimi connessi al radicale ma ragionato rifacimento della chiesa secentesca (e di tutto quanto di antico e molto più antico essa inglobava) – avevano reso necessaria questa uscita. Essa aveva poi forse finito per accrescere il rapporto di mutua diffidenza evolutosi nel tempo con l’arcivescovo Mani che, e prima e dopo i noti fatti di contestazione (estate 2010), ha segnato nel peggio molti recenti anni della vita della Chiesa in Sardegna. (Questa, naturalmente, è opinione personale mia e non basta la simpatia per l’uomo a diminuire il carico di responsabilità del presule circa lo scadimento dello spirito pubblico ecclesiale negli anni del suo episcopato isolano e della disastrosa presidenza della CES per le questioni del seminario regionale e altro: basti dire – a proposito di culto della storia –  che non si conosce un solo verbale delle tornate della Conferenza Episcopale del sessennio di quella leadership, acriticamente sostenuta dai plauditores di compagnia).

Giustamente fuori dalle considerazioni della stretta contingenza, Cabizzosu ha qui inquadrato la vita dell’arciconfraternita (perché di diritto pontificio) in capo all’antica e prestigiosa collegiata della Marina nella categoria delle società laicali che hanno caratterizzato la Sardegna spagnola e mantenuto una presenza catalizzatrice anche dopo. Della quattro volte centenaria Congregazione egli rifà la storia marcando gli step anche statutari fra 1620,1730, 1817 e valorizzando l’intento inizialmente, pressoché in via esclusiva, cultuale (la devozione al Santissimo Sacramento «in tutte le sue festività, ed ogni qualvolta s’amministra il viatico agli ammalati»), così come nelle omologhe compagini confraternali di Stampace e Villanova. A tale scopo primario si associò col tempo, data la rilevanza dei lasciti (soprattutto in immobili messi a reddito), quello sociale, di intervento redentivo o almeno di alleggerimento delle povertà materiali.

Naturalmente ben accompagnata dallo stesso saggio di Mario Cugusi, anche la presentazione del suo recensore non avrebbe potuto mancare di ripassare, con quella propria della Congregazione, la storia della stessa parrocchia collegiata e della chiesa-madre del quartiere che con le sue migliaia di residenti (diecimila addirittura all’inizio del Novecento) apriva a Castello il porto, e dal porto introduceva nei quartieri i beni e gli uomini del vasto mondo.Anche in questo radicamento e nel suo racconto descrittivo era ed è molto del sapore delle pagine qui commentate, quelle di Cugusi prima e quelle di Cabizzosu poi.

Dagli “spunti di riflessione”che congedano dalla lettura il testo di quest’ultimo mi pare giusto cogliere almeno alcuni alinea. Ecco i principali: «il movimento confraternale della Marina offre un tassello importante di quell’ampia azione riformistica promossa dalla gerarchia cattolica per formare le coscienze dei laici» e mostra come la «base ecclesiale» recepisca, in pieno Seicento, «l’urgenza di aggregarsi, organizzarsi» fornendo ai bisogni parrocchiali risposte «di natura spirituale e sociale».

Ancora: «La microstoria confraternale coglie il travaglio della crescita della coscienza del laicato cattolico dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano II, fino ai giorni nostri, con problematiche e risposte differenti, ora di fedeltà, ora di furbizia se non di furto. Questo travaglio, grazie ad una ricerca che si avvale di una documentazione archivistica inedita, si concretizza in un caleidoscopio di nomi, volti e iniziative di persone sconosciute, qui fatti rivivere con un soffuso senso di “pietas”, non per speculare ma per riflettere sul loro operato».

E in ulteriore: «La storia dell’arciconfraternita offre una sintesi, un punto d’incontro tra culto e servizio ai poveri, tra dimensione culturale e sociale. La prima è la fonte che si riversa sul secondo in una mutua relazione che arricchisce entrambe le sfere. Storia di Chiesa, dunque, e di società, storia di vertice e di base, storia di ricchi e di umile gente, in cammino nella storia».

Ad una storia della Congregazione del Santissimo Sacramento nella Marina mi ero applicato anche io alcuni anni fa, e spero di riprendere in mano il lavoro quanto prima. Ciò muovendo dalle registrazioni presenti nel sacrario della cappella congregazionale del cimitero di Bonaria – una doppia cappella (con i suoi vani sotterranei) sorta fra la fine degli anni ’60 dell’Ottocento ed i primi del decennio successivo e non ancora dunque censita dal celebre suo saggio Storia e necrologio del campo santo di Cagliari (1869), dal canonico Giovanni Spano.

V’è infatti tutta un’area, costeggiante i quattro quadrati in cui via via dal 1829 si inumarono i cagliaritani quidam convocati al non tempo, che fu destinata alle società confraternali della città per il seppellimento dei loro soci (o “prediletti”, come si chiamavano proprio i congregati della Marina): e così, infatti, accanto ai soci-parrocchiani di Sant’Eulalia – ché uno dei vincoli statutari era la residenza nel quartiere – ecco i sepolcri sociali dei confratelli del Rosario (di San Domenico), dei consacrati alla Madonna d’Itria (il cui oratorio è incorporato, ormai da centocinquant’anni, nella chiesa di Sant’Antonio abate della via Manno), dei genovesi invocanti i protettori Giorgio e Caterina alessandrina.

Le prime ricerche d’archivio e/o d’emeroteca e biblioteca sui profili personali del centinaiodi nominativi che classificai in quegli iniziali approcci allo studio della Congregazione – ricorderei i nomi almeno deiBaylle, dei Ballero e dei Belgrano, di Pietro Alziator, del conte Ciarella, dell’avvocato Colomo e del chimico Cugusi, del rettore d’Università Gaetano Loy, del barone Salvatore Rossi, del Pintor Isola e di Raimondo Garzia, amministratore dell’Unione Sarda… –evidenziarono, per i più, posizioni socialmente avanzate, sia per professione e stato economico, che, si direbbe, per ascendenza sull’opinione generale. Ciò secondo una tipologia che, dati i tempi – mi riferisco soprattutto a tutto il XVIII e XIX secolo –, era del tradizionale paternalismo cattolico: connotazione che sempre, comunque, nei tempi remoti come in quelli relativamente recenti – intendo fino agli anni ’60-70 del Novecento – bene assorbiva la pratica di una “carità” non soltanto elemosiniera, ma piuttosto evangelicamente più matura, orientata alla promozione umana e, in certi limiti, alla condivisione.

Credo sarebbe interessante poter riprendere e sviluppare tale traccia, profilando i numerosi partecipanti alla esperienza che fu di cultura religiosa e insieme di impegno sociale, seppure raramente con sfondamenti anche nella politica. E penserei qui, nel più stretto range, ad Aurelio Espis, personalità di vertice del laicato cattolico cittadino e professionalmente ai vertici della burocrazia amministrativa del comune capoluogo (gli venne dedicata una bella monografia – titolo soltanto Aurelio Espis – ai tempi della morte, avvenuta nel 1969, e la lunga dettagliatissima ricostruzione biografica fu a firma del mio indimenticato amico Bruno Josto Anedda; di rilievo anche storico le testimonianze di padre Giuseppe Abbo S.J., di Maria Teresa Atzori, di Giuseppe Brotzu, di Antonio Dessy, di Domenico Olla, di Pietro Manca, di Giovanni Dore, di Luigi Soro, di Enrico Carboni, del vescovo Giuseppe Melas e del delegato generale dell’archidiocesi di Cagliari Elvio Sitzia, del salesiano don Giulio Reali, del ministro Salvatore Mannironi, dell’arcivescovo Paolo Carta, di Antonio Carcangiu – magnifici esponenti tutti del clero e del laicato sardo – e prezioso l’apparato documentario e fotografico a corredo).

Del metropolita Sisternes, vice papa

Il lungo elaborato, in parte compilativo in parte interpretativo, dal titolo “La collazione dei benefici del delegato apostolico Francesco Maria Sistenes de Oblites (1809-1811)” riporta, nel volume di Cabizzosu, ad un periodo complicato come pochi altri nella storia della Chiesa e rilevante per le ricadute nelle vicende dell’Isola. Siamo in epoca napoleonica, nella temperie della occupazione militare della città eterna da parte delle truppe francesi, con il trasloco obbligato dell’ottuagenario papa Pio VI a Valence (dopo che s’era svuotata l’ipotesi d’una destinazione sarda, comunque ben documentata nella sua probabilità; e a proposito, di sede sarda per il papato in difficoltà si sarebbe parlato anche settant’anni dopo, all’indomani della storica breccia: destinazione San Lucifero nelle ultime propaggini del quartiere di Villanova!).

Guidavano le diocesi sarde, al tempo, dieci vescovi: Simon a Sassari, Pes ad Ampurias e Civita, Murru a Bosa, Bianco ad Alghero, Atzei a Bisarcio (poi Ozieri), Aymerich ad Ales e Terralba, Cadello (cardinale dal 1803) a Cagliari e anche Ogliastra (che sarebbe stata nuovamente diocesi, come detto, dal 1824), Solinas a Galtellì e Nuoro, Navoni ad Iglesias (con successiva destinazione alla sede metropolitana) e, appunto,Francesco MariaSisternes de Oblites, che governava la vasta archidiocesi di Oristano, comprensiva anche dell’area già governata dal vescovo di Santa Giusta. Inquanto presule più anziano di nomina, egli ottenne dal pontefice Pio VII (lo stesso che aveva incardinalato il Cadello) l’incarico di “delegato apostolico”, con ampia giurisdizione tale da poter concedere «la collazione di tutti i benefici non concistoriali, insieme ad altre dispense». Una specie di vice papa in Sardegna, insomma. Era il 1809 e il sistema diocesano dell’Isola registrava in quegli anni – ancora anni di successi e rovesci napoleonici e di trasferimento della corte Savoia a Cagliari – i movimenti sussultori delle morti dei vecchi presuli e del loro eventuale rimpiazzo.

Si tratta di un pezzo di storia poco conosciuta e Cabizzosune donò la ricostruzione, attento al documento – ecco un altro omaggio alla santità degli archivi ecclesiastici (nel caso il fondo “Collazioni di benefici” dell’ASD di Cagliari)! – al volume La ricerca come passione. Studi in onore di Lorenzo Del Piano, curato nel 2013 da Francesco Atzeni. E questo testo ritorna appunto, perfettamente integro, e dunque anche con le appendici documentarie, nella miscellanea. Si tratta dell’ampio capitolo biografico del Sisternes (oristanese di nascita ancorché di sangue spagnolo, morto a Cagliari nel 1812 e sepolto nella chiesa del Santo Sepolcro), noto per le sue remote amicizie progressiste – l’Angioy sarebbe stato fra i suoi frequentatori – prima di un certo riflusso moderato imposto o suggerito dai tempi.

Promosso all’episcopato arborense dalle precedenti funzioni canonicali (e anche di vicario generale capitolare) a Cagliari, fu, come detto, potente distributore di rendite fra tutte le diocesi isolane (manca alla raccolta documentaria soltanto la Chiesa di Tempio e Civita). Cabizzosu ne elenca complessivamente una cinquantina, fra chiese cattedrali e parrocchiali urbane e foranee, fornendo anche dei grafici riassuntivi per provincia ecclesiastica e per diocesi, oltreché il dettaglio testuale dei conferimenti.

E’forse noto che l’acquisizione di un beneficio dipendeva, ancora in pieno Ottocento, non soltanto da arbitrario convincimento dell’autorità concedente ma anche (e dovrebbe ritenersi in via prioritaria) dal positivo risultato dell’esame prosinodale dei candidati. Da cui le quantificazioni: 24 ducati aurei de Camera, 80 ducati, 35 ducati, 140 ducati, 250 scudi aurei de Camera, 10 giulii moneta romana, 50 libre e 500 libre… Cosìdunque, per dirne uno intero, pur nella sintesi redazionale: «27 aprile 1811. Assegnazione del beneficio di distribuzione al sacerdote Efisio Muscas, nel Capitolo della Collegiata di Sant’Anna di Cagliari, suburbio di Stampace, fondato da Matteo Orrù. Il beneficio era vacante per la promozione del titolare Gaetano Catte ad altro beneficio nella medesima Collegiata. I proventi, relativi alla distribuzione quotidiana e agli incerti, ammontavano a 24 ducati aurei de Camera».

Merita peraltroanche rilevare che il munifico elargitore non fu soltanto o soprattutto un burocrate, un “funzionario del sacro” come avrebbe detto oggi papa Bergoglio, ma un pastore d’anime, tanto più nella sua diocesi arborense. L’autore avverte l’esigenza di chiarirlo a ristoro della memoria del presule, e per dare prova provata di ciò fa riferimento alle Esortazioni ed ordinazioni– modello di ecclesiologia tridentina – da lui firmate negli anni del proprio episcopato e pubblicate nel 1800. Da esse ricava i… segni del tempo, gli elementi che descrivono una società ingessata ed una Chiesa padrona e autoreferenziale… in convinta, piena e indiscussa adesione al Vangelo e certa del carisma rinviante alle chiavi omnibus ricevute, per successione apostolica, dal suo Maestro. E’ qui il centro del lungo saggio e val giusto recuperare, di questo, i passaggi principali, sullo sfondo di una «visione pessimista della società»: appunto dice, Cabizzosu, della «collaborazione e reciproca fedeltà trono-altare», dell’«uso del braccio secolare per ladifesa della cura animarum», dell’«impegno per elevare i costumi del clero».

Scrive:«L’ecclesiologia che guidava gli orientamenti della cura animarum è da situare nel contesto del regime di cristianità da cui scaturivano i principi secondo i quali la Chiesa era una societasperfecta; la società doveva essere guidata dai principi della fede cattolica e la legge canonicadoveva permeare anche quella civile. La struttura sociale era piramidale, il ruolo preminente era svolto dall’autorità civile ed ecclesiastica, in un mutuo interscambio. Nella mens pastorale del presule arborense il popolo costituiva la base della piramide, ma versava in una situazione di subalternità culturale e spirituale. L’ambito sacrale abbracciava tutti i settori della vita ed era gestito totalmente dalla gerarchia e dal clero. Nell’amministrazione dei sacramenti molta attenzione veniva riservata all’adempimento dell’obbligo del percetto pasquale, controllato attraverso registrazioni minuziose. […] era compito dello Stato proteggere e garantire l’esercizio del culto, l’azione pastorale dei ministri, le strutture ecclesiastiche, il corretto svolgimento della cura animarum, intervenendo direttamente per prevenire e punire eventuali comportamenti in contrasto con la religione ufficiale».

L’evoluzione dei tempi determinò poi, progressivamente, una certa affermazione dei principi giurisdizionalisti «che, attraverso il noto principio iura maiestatis circa sacra et in sacra, promuovevano un crescente svincolamento della società dalla Chiesa, e l’affermazione di una maggiore presenza dello Stato nella vita della Chiesa».

Una conclusione circa tale associazione di diritti e doveri ecclesiali nella funzione evangelizzatrice e catechetica potrebbe essere questa:«Insieme al concetto di societasperfecta e alla richiesta di intervento del braccio secolare per la salvaguardia dellacura animarum, si coglie anche una terza idea che è quella di ridurre il ministero della Chiesa ad unasorta di hierarchologia, attraverso un costante richiamo ai diritti doveri dellagerarchia, unica depositaria della verità, chetutto dirime con interventi d’autorità. Da tale concezione conseguiva una visione di Chiesa “separata” dal mondo, non disponibile ad accogliere istanze provenienti dal mondo laicale, relegato in una dimensione di subordine».

Certo si tratta di materia ghiotta per mille riflessioni, anche attuali, circa la natura della Chiesa e i suoi condizionamenti storici che talvolta l’hanno perfino snaturata, facendone un sistema di potere, una società giuridica altra e opposta rispetto a quella civile, con ordinamenti “originari” (di diritto canonico) sovrapposti alle… pure linee-guida delle beatitudini… Potrebbe entrare qui la cronaca eterna, o meglio permanente, del conflitto fra carisma e istituzione, con la conseguenza della mille volte replicata umiliazione della virtù e della profezia. Materia che in più circostanze, proprio guardando alla storia sarda, ha occupato il Tonino Cabizzosu storico: si pensi ai riguardi risarcitori da lui – uomo di formazione conciliare e montiniana – indirizzati al Muzzetto, al Prinetti, al Madeddu, ecc.

Una storia con mille riproposte e purtroppo suscitatrici di quella che si chiama ormai lo “scisma silenzioso” la cui responsabilità (moralmente grave per la gratuità della prepotenza) cede interamente sui responsabili di comunità, sia la comunità diocesana o quella parrocchiale o quella associativa e di gruppo. Io ricordo sempre, nel piccolo, e a proposito di Oristano, la banale censura dell’arcivescovo (in carica) Ignazio Sanna imposta perfino alla limpida locandina che riferiva di un convegno di riflessione sul Concilio Plenario Sardo nel decennale della sua firma degli Atti (circostanza temporale che i vescovi si erano impegnati raccogliere per nuovi lavori, e invece disertata senza spiegazioni). E ricordo sempre, a proposito di censure riproposte in questo inizio di terzo millennio!! quelle variamente prodotte anche dall’arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio, da quando non si peritò di preferire il tifo calcistico in uno stadio interdetto da magistratura e prefettura alla presidenza dell’Eucarestia nell’occasione dell’assunzione del parrocato serdianese da parte di don Cugusi. E ancora ricordo, per l’esemplificazione tematica, gli applausi dell’acritico episcopato sardo nell’A.D. 2000 alla beatificazione di Pio IX, che pur aveva autorizzato la ghigliottina fino al 1868, ed il silenzio plenario del medesimo episcopato nell’A.D. 2006 quando uno scriteriato decreto del cardinale Ruini impedì i funerali religiosi di Welby, giunto al non tempo dopo penosissimi trent’anni di sla.

Dei preti della Missione

Di estremo interesse è il capitolo dedicato a “Le missioni popolari della Casa della missione di Cagliari nel primo trentennio del Novecento”, un testo consegnato nel 2008 alla curatela di F. Lovison e L. Nuovo per Missione e carità. Scritti in onore di P. Luigi Mezzadri C.M. Si tratta di un contenuto particolarmente corposo anche nell’apparato delle note che dà onore ad una istituzione ecclesiastica (ed ecclesiale per il tratto educativo particolarmente sviluppato come carisma congregazionale) che in Sardegna ha dato santi – si pensi soltanto al signor Giovanni Battista Manzella sassarese – e guide pastorali di livello altissimo, con responsabilità anche di parrocchie (in primis a Cagliari). Ai lazzaristi fu affidato per lungo tempo, soprattutto a Cagliari, l’accompagnamento anche del clero diocesano, con la prassi delle mute, o ritiri spirituali di convocazione annuale. E non solo: anche la guida spirituale e formativa degli studenti del Tridentino. Mentre preti già fatti furono affidati da qualche vescovo – dal Berchialla cagliaritano al Contini ogliastrino – alle speciali cure dei signori della Missione per corsi appropriati e accelerati di spiritualità e… cultura generale, in vista di un recupero personale e di una miglior restituzione alle comunità. Forse più spostata sul sociale rurale fu invece l’azione espletata nel Sassarese.

Il focus di Cabizzosu è su Cagliari e rimanda in origine all’episcopato di monsignor Giovanni Antonio Balma, che riprese il bacolo diocesano dopo le sofferenze (per l’esilio romano) del Marongiu Nurra e, dopo la morte di questi, un ulteriore quinquennio di sede vacante. Assumendo il governo della Chiesa locale, lui che aveva avuto esperienze missionarie importanti nell’estremo Oriente, il nuovo arcivescovo si assicurò dalla Casa Madre torinese l’insediamento di una comunità maschile da affiancare alle vincenziane (figlie della Carità) già operanti in città ormai da alcuni lustri, precisamente dal 1856. Avvenne, quell’insediamento anche fisico, di fianco alla chiesa-convento duecentesca dei padri predicatori, quei domenicani che furono fra i primi religiosi “moderni”, insieme con i minori francescani, a prendere residenza da noi.

Il saggio contiene diverse tabelle ricapitolative delle missioni popolari – ben 180 complessivamente – predicate dai vincenziani cagliaritani (e sassaresi) dal 1904 al 1930: vi sono coinvolte pressoché tutte le diocesi, da Bosa – Bosa stessa e Sindia, Santulussurgiu, Sedilo, Aidomaggiore, Scano Montiferro…– ad Alghero, con Borore, Dualchi, Bolotana…, da Nuoro – con Dorgali, Olzai, Oniferi… –  a Sassari, con Sennori, Mores, Cargeghe…, da Tempio Pausania, con La Maddalena, Luogosanto, Palau, Luras… a Ozieri, con Berchidda, Bono, Tula…, da Oristano, con Santa Giusta, Sorgono, Seneghe, Aritzo, Isili, Norbello, Ghilarza, Milis, Riola Sardo… ad Ales, con Simala, Arbus, Villacidro, Gonnosfanadiga, Mogoro, da Iglesias, con Buggerru, Carloforte, Calasetta, Sant’Antioco… all’Ogliastra, con Tortolì, Lanusei, Tertenia, Barisardo…, a Cagliari, con Gergei, Senorbì, Villamar, Serramanna, San Sperate, Castiadas, Monserrato, Pirri, Quartu, Domusnovas, Sestu, Assemini, Siliqua, Dolianova, Muravera, San Vito… e naturalmente, circa la città capoluogo, la cattedrale e le tre collegiate.

Figurano nei repertori alcuni dei nomi più conosciuti della famiglia religiosa, come i padri Sandri, Siccardi, Pettiti, Serravalle e Perosino, ma il novero ne comprende almeno un’altra decina, a cominciare dall’apripista padre Bartolini. Piace evidenziare la presenza, nell’elenco, anche del servo di Dio padre Manzella (Soncino/Cremona 1855, Sassari 1937).

Avendo potuto compulsare le relazioni dei missionari – invero molto più diligenti i sassaresi in discesa anche nei Campidani, che non i cagliaritani magari in risalita sui territori provinciali (e di cinque di queste relazioni è riportato in appendice il testo) –, si diffonde quindi, Cabizzosu, ad illustrare i contenuti e la metodologia della predicazione vincenziana (di taglio piuttosto apologetico) scandendone i tratti così definiti: “Il piccolo metodo”, “Una giornata tipo”, “Attenzione a mondo agro-pastorale”, “Ignoranza religiosa”, “Risposta delle popolazioni”, “Elementi di novità”. Né si tratta di espressioni soltanto teoriche, ma di rilevazioni dalla esperienza effettiva maturata sul campo, il che offre un casistica veramente caleidoscopica, la cui scorsa aiuta ad entrare nel vivo andamentale, corrente, delle comunità rionali e di quelle rurali della nostra Sardegna: una Sardegnache passa, in quel primo trentennio circa del secolo, dagli sforzi modernizzatori (e pur contraddittori) del coccortismo alla tragedia della grande guerra, al fascismo prima nel radicamento violento quindi nella pratica del regime di dittatura, ma che passa anche – si direbbe – dal distacco ancora avversario fra Stato e Chiesa (per i riflessi della questione romana) alle conclusioni dei Patti del 1929.

Del molto che anch’io, marginale osservatore o lettore dei fenomeni ecclesiali in combinazione con quelli sociali, potrei portare come riferimenti d’opera nei territori, ed a Cagliari in particolare, credo varrebbe la pena di evocare, almeno per flash, l’esperienza della comunità di IsMirrionis/San Michele, fra il sobborgo di Sant’Avendrace e il castello dei Carroz, nella periferia nord di Cagliari, un tempo – diciamo proprio nei decenni iniziali del Novecento – ancora prateria, frutteti e vigneti…

Il compianto don Luigi Cherchi in un delizioso libretto che pubblicò a suo tempo riunendo quanto era andato spezzettando sul giornale della nuova parrocchia della Medaglia Miracolosa – Breve storia del quartiere S. Michele, 1987 –, ricorda espressamente la funzione, religiosa e sociale insieme, di autentici apripista, dei vincenziani in quell’area oggi densamente popolata e dà spazio ai preti e ai laici della Missione, alle suore “cappellone”. Così negli anni ’30 e ’40 (e successivi) – fra l’episcopato Piovella e quello Botto – con padre Nicola Abbo e i suoi confratelli…

Merita però di concludere questa volante segnalazione con alcune delle osservazioni critiche che, nella logica dello storico evidentemente, l’autore si sente di sintetizzare (press’a poco come nel saggio sul Sisternes, ma considerando che un secolo era passato fra la stagione del “vice papa” e questo delle missioni lazzariste) riferendosi alla arretratezza culturale generale della società sarda del tempo ed alle persistenti rigidezze della imperante ecclesiologia ancora tridentina. E dunque…

«il ruolo del clero era egemone rispetto a quello del laicato. Il popolo era il destinatario principale cui era indirizzata la cura animarum, con un progetto di istruzione religiosa e di illuminazione delle coscienze circa i propri doveri cristiani, ma era ancora in una posizione subalterna, un soggetto passivo».

Ancora: «Il dinamismo di un progetto caritativo volto a scoprire e servire le povertà del territorio in cui operava era svolto dalle aderenti della “Associazione delle Figlie di Maria” e della “Società di San Vincenzo de Paoli”, che erano le destinatarie privilegiate delle cure spirituali dei Preti della Missione».

Circa il preferenziale filone dell’educazione familiare: «Il fenomeno della coabitazione degli sposi senza il matrimonio in facieEcclesiae, diffuso in ogni plaga della Sardegna, era una conseguenza più della povertà in cui versavano le popolazioni che di un effettivo rifiuto dell’insegnamento della Chiesa. Le relazioni documentano il costante impegno per unire in matrimonio le famiglie dei coabitanti. In esse l’attenzione pastorale alla collettività, alle singole persone e ai nuclei familiari procedevano di pari passo».

Infine: «I Preti della Missione, per lo più provenienti dalla penisola, hanno capito ed amato l’animo delle genti sarde, carico di luci edombre, virtù e vizi, e con notevoli potenzialità grazie al loro naturale e spontaneo spirito di accoglienza e di solidarietà verso chi soffre. Partendo daquesto presupposto essenziale i missionari vincenziani, seguendo la specifica metodologia proposta dal loro fondatore Vincenzo de Paoli, hanno proposto alle comunità ecclesiali un intenso progetto di inculturazione del vangelo, che rispettava ed educava le peculiarità della loro storia e delle loro tradizioni sociali e religiose».

Del Cottolengo in Sardegna, ed a Quartu in particolare

Uscito nel 2011 anche in edizione (di 40 pagine) atta alla rapida diffusione fra associati e simpatizzanti dell’Opera, il saggio “Se non ho carità non ho niente”. Il dinamismo caritativo della conferenza “S. Giuseppe Cottolengo” di Quartu Sant’Elena ritorna in questa miscellanea, con il medesimo titolo e con la sua massa di notizie e documenti, costituendo già di per sé un omaggio palese ai meriti della conferenza medesima, che è una conferenza di tipico carisma vincenziano e maschile nei suoi assetti sociali statutari.

La virtuosa applicazione della dirigenza, e in modo speciale del presidente (di lunga stagione) Candido Secci, alla conservazione dei materiali storici associativi (tanto più dal 1961) ha favorito senz’altro una loro lettura diacronica, consentendo utili e precise contestualizzazioni all’interno delle più vaste attività diocesane e dello specifico quartese. Il lavoro che ne è derivato, a firma di Tonino Cabizzosu, è perciò di prim’ordine.

Esso è articolato, dopo la premessa, in più capitoli che qui riporto almeno per dare l’idea delle dimensioni e dei pesi della fatica esplorativa dell’autore: “Federico Ozanam e le conferenze di carità”, “Inizi e diffusione dell’associazionismo vincenziano in Sardegna”, “Prima espansione e crisi”, “Rifondazione della conferenza San Giuseppe Benedetto Cottolengo”, “Sviluppo attivitàcaritativa”, “Tipologia delle fasce di povertà assistite”, “Tipologia interventi assistenziali”, “Metodologia pedagogica”, “Rapporto con le istituzioni pubbliche”, “Provenienza sociologica dei soci”, “Conferenza giovanile”, “Spiritualità”, “Conclusioni: Sardegna isola vincenziana, la laicità vissuta nel servizio ai poveri”.

A seguire è una appendice documentaria che riunisce alcuni atti (verbali) relativi al triennio 1961-1963.

Pare troppo difficoltoso riassumere in poche righe tanto spettacolo di approfondimenti. Varrà soltanto accennare ai dati storici di calendario che qui entrano da signori e inquadrano la storia:

a Cagliari (dopo che a Sassari) la prima conferenza vincenziana/ozanamiana è del 1855, lo stesso anno in cui sul fronte mutualistico prende forma, nella stessa città capoluogo, la Società degli Operai, anch’essa ancora oggi viva e vegeta; la società femminile segue da presso, nel 1857 (e nel 1859 a Sassari);

nel 1900 operano nell’Isola tre conferenze soltanto: nei due capoluoghi provinciali e ad Oristano; saranno circa duecento quando, nel 1937, padre Giovanni Battista Manzella – il miglior apostolo del carisma vincenziano in Sardegna – s’invola in fama di santità, e sia nel 1922 che nel 1925 la Sardegna viene riconosciuta e premiata dal Consiglio Generale congregazionale, di sguardo intercontinentale, orme «la prima regione del mondo» per numero di circoli e di aderenti nonché per quantità di offerte raccolte;

il volontariato maschile “coispirato” dal santo presbitero francese di fine Cinquecento e dall’apologista nato milanese ai primi dell’Ottocento, suo devoto seguace, si radica presso la cattedrale di Cagliari nel 1856, nel 1893 presso la collegiata di Sant’Eulalia, quattro anni dopo presso quella di San Giacomo e nel 1900 presso quella di Sant’Anna.

A Nuoro si arriva nei primi anni ’30 (ma le conferenze sono tre, fra adulti, giovani e studenti), e già si opera a Sassari, Serdiana, Alghero, Pozzomaggiore e Macomer. E anche, dal febbraio 1928, a Quartu, appunto.

Motore dell’avventura quartese è il sacerdote Mario Marcialise, tra alti e bassi, si arriva al 1961, quando si proveide ad un rilancio pieno sia della organizzazione che delle attività della “San Giuseppe Cottolengo”, auspice il parroco di Sant’Elena (poi vescovo di Cassano all’Ionio).

Straordinariamente interessante, ricavato dai registri di soccorso, l’elencazione delle tipologie cui si volge in via prioritaria l’assistenza, fra “casi pietosi” e situazioni familiari allo stremo per separazioni, vedovanze, carichi di figli minori, malattie, disoccupazione, attese prolungate della pensione, sfratti domiciliari, ecc. Nel novero anche l’adozione di un seminarista o di un sacerdote della cosiddetta “Chiesa del silenzio” (quella d’oltre cortina) o un assegno alla missione del quartese padre Picci.

Il dettaglio documentario favorisce, ripeto, l’inoltro nella concretezza di vita sia del sodalizio in quanto tale sia della comunità sociale, quella quartese o gravitante sul territorio cui esso volge (vi ha volto da quasi un secolo ormai!) le sue cure maggiori.

Delle case canoniche e dell’educazione alla legalità

Uniti almeno dall’anno di partenza della ricognizione di atti e fatti sono i due ultimi saggi della sezioneche, come ho precisato più sopra, miraad illustrare il mix di storia religiosa e storia civile della Sardegna moderna, lasciando il campo dei focus biografici alla seconda parte della miscellanea. (E di tale seconda parte ho fatto abbondante riferimento nel già richiamato precedente articolo recensivo).

Quell’anno è il 1924, ed esso è quello della celebrazione del Concilio Plenario Sardo in Oristano. L’anno, anche, in cui quel Concilio istituì in ogni diocesi isolana una Commissione “case canoniche”, con il mandato della vigilanza sulla manutenzione delle stesse.

L’articolato saggio su “L’intervento di Pio XI per la Chiesa sarda: la costruzione delle case canoniche (1924-1938)”, è uscito come contributo dello storico illoraese – di quella Illorai che prima di Cabizzosu ha dato alla Chiesa e alla scienza storica un altro dotto come il canonico Damiano Filia – al volume celebrativo del 50° di sacerdozio dell’arcivescovo Giuseppe Mani (Tra dottrina e cultura. Saggi per Giuseppe Mani, a cura di Marinella Ferrai Cocco Ortu, Cagliari, 2010).

Dice bene l’autore quando associa alla istituzione del seminario regionale, inclusivo della facoltà di Teologia affidata (al pari dello stesso seminario) ai padri gesuiti, il piano edilizio delle case canoniche: scaturirono  entrambi dalla volontà di papa Ratti ed entrambe le delibere si rivelarono ampiamente foriere di benefici per il clero e, direttamente o indirettamente,per l’attività pastorale di questo nei centri isolani, anche quelli più eccentrici.

Naturalmente seminari interdiocesani e piani costruttivi di case parrocchiali furono esperienza condivisa da pressoché tutte le regioni d’Italia, e soprattutto da quelle del centro-sud piuttosto carenti, se confrontate con Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia, tanto di istituzioni culturali e formative quanto di infrastrutture finalizzate al servizio parrocchiale. La Sardegna ebbe il suo seminario, ubicato a Cuglieri in ragione di una tendenziale baricentricità fra i territori della regione, ed ebbe le sue case: 347 alla fine del 1933, più d’un terzo fra quelle realizzate in un’altra decina di regioni considerate alla bisogna (208 in Sicilia, 135 in Campania, 112 nelle Marche, 82 nel Lazio ecc.). E invece sembrerebbe penalizzata inquanto alla costruzione di nuove chiese: 6 appena sul totale di 243 nello stesso aggregato regionale. Segno evidente che la scarsezza numerica della popolazione sarda non esigeva altri luoghi di culto e che, al contrario, l’alto numero di parroci e viceparroci lasciati alla loro povertà esigeva invece un pronto rimedio, sì a rischio corporativo, ma umanamente comprensibile e sostenibile (anche per il portato o il potenziale sociale e comunitario dell’opera) perfino nella sua urgenza.

Cabizzosu dettaglia in un tale contesto, molto opportunamente, come in grand’angolo, anche la presenza di case conventuali del clero regolare, così come degli ordini religiosi femminili. A Cagliari città, nel 1931, riferisce, erano 45 i sacerdoti religiosi e 22 i fratelli laici, invece 52 erano le claustrali e ben 313 le religiose di vita apostolica, con un trend di crescita piuttosto verticale. Peraltro un tale andamento espansivo si registrava anche nel comparto del clero secolare: 148 i preti sull’intero territorio diocesano, nel 1937 (cf. Sardinia Sacra. Guida ufficiale del clero delle diocesi di Sardegna), a fronte dei 60 religiosi e delle 360 religiose. E in proiezione regionale: circa 800 i presbiteri ricompresi nei ruoli delle undici diocesi, e circa centocinquanta i regolari fra domenicani e francescani (minori osservanti, conventuali e cappuccini), mercedari, carmelitani, paolotti, lazzaristi, gesuiti, salesiani…

Ragguardevole l’apparato di note riepilogante le disposizioni in materiale di case parrocchiali adottate dalla Conferenza Episcopale Sarda e anche di speciale interesse appare altresì il questionario proposto al clero responsabile delle comunità circa le condizioni di abitabilità negli alloggi per il più pertinenti, anche fisicamente, alle chiese madri locali per gli ambienti di socializzazione. Così nel Monitore Ufficiale dell’Episcopato Sardo (MUES) dell’estate 1929, appunto nel mezzo della grande iniziativa infrastrutturale promossa e all’indomani degli accordi pattizi con il governo italiano (leggi Mussolini) che consideravano le case come ente patrimoniale autonomo dall’amministrazione parrocchiale.

Comune per comune, entro il range diocesano cagliaritano, fonti manoscritte presenti nell’Archivio Storico forniscono il dettaglio di fine Ottocento; una più compiuta documentazione dà conto delle ristrutturazioni o nuove costruzioni da riportare, con tutti i travagli possibili, ai primi decenni del XX secolo, includendo nel novero anche le trasformazioni di cespiti più o meno malmessi in asili e sedi di Azione Cattolica. Eccelle in tutto questo il lavoro di monsignor Ernesto Maria Piovella, ma con il suo merita evidenza la fatica degli altri presuli funzionanti negli anni ’20 e ’30 (e successivi), tanto più in Gallura, in Barbagia e nell’Iglesiente.

L’altro contributo sopra menzionato, e riferito al periodo intercorrente fra i due Concili plenari isolani – fra 1924 e 1986/2001 cioè –, fu dato al volume Scintille di luce e speranza per il Mezzogiorno. Analisi, esperienze, testimonianze, a cura di P. Borzomati ed R. Stopponi, uscito nel 2010. Esso – brevissimo, quattro pagine soltanto – punta ad offrire, quasi a volo d’uccello, un giudizio di sintesi su un settantennio di vita ecclesiale in Sardegna, passando per il tanto di prepotente conformismo imposto dalla dittatura fascista, e poi per la sofferenza dell’emergenza bellica, la fatica e anche l’entusiasmo della ripresa di pace (fra le massive evasioni migratorie e gli investimenti civili del Piano di Rinascita, le zampate criminali del banditismo e la scolarizzazione di massa, ecc.), le complessità delle stagioni più inoltrate (segnate dalla industrializzazione di base – modernista e illusoria, rovinosa negli epiloghi –, dallo sviluppo turistico costiero e dalla speculare contrazione del primario settore agricolo)…

Muovendoin un contesto così contraddittorio si distinguono, nel tempo, alcune personalità tanto nell’episcopato o nel clero quanto nel laicato cattolico isolano. Le ricorda, Cabizzosu, ciascuna nel suo ambito d’attività o nel suo territorio, dai vescovi Giuseppe Cogoni il “giornalista” e Giovanni Melis Fois l’apostolo pacificatore di Barbagia, ai presbiteri Virgilio Angioni, Gabriele Pagani e Vito Sguotti, agli esponenti e militanti dell’Azione Cattolica: 65mila nel 1948, 113mila all’indomani del Vaticano II.

Queste mie rapide note non possono, naturalmente, riflettere compiutamente le ricchezze degli scritti consegnati al quarto volume delleRicerche socio-religiose firmate da Tonino Cabizzosu. Mio obiettivo è stato oggi solo quello di presentare, dandone ripetuta dimostrazione, lo sforzo meritorio e di gran vaglia da lui compiuto, un’altra volta ancora, e mentre consuma e supera il suo trentesimo anno produttivo, volto a ricostruire aspetti finora inesplorati della storia ecclesiastica isolana o trattati soltanto incidentalmente da altri autori.

La consapevolezza della importanza degli studi storici finalizzati a una maggiore cognizione delle responsabilità nell’oggi sociale e pastorale, sempre evangelico, accompagna il Cabizzosu professore oltre che il Cabizzosu ricercatore e scrittore. So bene che lo accompagna anche nel ministero ordinario fra le sue comunità andate in successione nel tempo, ora ad Ittireddu. Spiacepiuttosto che l’interesse alle scienze storiche risulti, per contro, sempre più marginale nei piani di studio e nella scelta degli argomenti delle tesi di licenza o di laurea presso la Facoltà Teologica della Sardegna, ed appaia episodico anche nelle possibili sollecitazioni o negli incoraggiamenti del corpo accademico. Perché la nostra Isola costituisce un bacino di ricchezze inimmaginabili in quanto alle millenarie sedimentazioni sia della vita spirituale ed ecclesiale sia, più in generale, della vita sociale. Che sarebbe poi come dire, con linguaggio evangelico, del lievito e della pasta reciprocamente necessari, sempre, in ogni epoca. Nell’oggi e ancora nel futuro che verrà donato al mondo e alla Sardegna nostra.

 

Condividi su:

    Comments are closed.