Giorgio Asproni e sa die: sardo e italiano, fiero apostolo della democrazia repubblicana. Ma sarà capito dalla politica liquida d’oggi? (parte seconda) di Gianfranco Murtas

 

Non è che sa die de sa Sardigna – occasione buona di riflessione ed assunzione di responsabilità prima che di ogni pur legittima rivendicazione, ed occasione buona per riunire i migliori propositi di tutti i sardi, senza pretese avanzate ad alcuno di abiure circa convincimenti su materie particolari – possa rischiare di provocare, per dottrina o accidente,freddezza o addirittura polemica dell’uno verso l’altro. Sarebbe una contraddizione in termini, sarebbe un paradosso e una smentita degli scopi e delle possibilità concrete, oltre che morali, di cogliere insieme obiettivi utili, di interesse generale, proprio perché poggiati su una volontà unitaria, aperta e dialogica. Ciò però non può neppure significare che possa procedersi, con faciloneria, a semplificazioni esasperate che porterebbero inevitabilmente a contrabbandare il bianco col nero o viceversa. E mi spiego meglio. O cerco di spiegarmi affrontando il tema della pertinenza di un modello come quello asproniano, rilanciato oggi dalla giunta regionale, ad una società politica fattasi del tutto, e mestamente, liquida, estranea alle grandi correnti di pensiero che hanno dato sostanza al tessuto politico-culturale che abbiamo conosciuto fino a pochi lustri fa e che, pur non immacolato, ha portato la comunità nazionale ai maggiori e più rapidi avanzamenti della sua storia molte volte secolare.

Giorgio Asproni, così come Giovanni Battista Tuveri, e magari Pietro Paolo Siotto Elias – l’avvocato federalista direttore del Caprera – o Gavino Soro Pirino ed altri con loro, rappresenta nel sentire diffuso di quelli che hanno sensibilità ai nessi fra storia e società contemporanea, e guardano alla sorte della loro terra in una logica progressiva e inclusiva, liberale e democratica nel civile come nell’economico, la coscienza del giusto portata nelle istituzioni. Di più: la coscienza che sa leggere nei segni dei tempi e offrire alla storia che si compie fra mille contraddizioni, ed ancora stretta e costretta da interessi egoistici e senza respiro, la visione di equilibri nuovi, avanzati e coerenti fra società ed ordinamento, fra una società che si modernizza ed istituzioni chiamate a governarla, servirla e guidarla.

Perché è qui il punto centrale di tutto che spiega Asproni e lo spiega all’interno della scuola democratica dell’Ottocento (e poi del Novecento) che ha seminato per noi, cioè per le generazioni venute dopo, idealità, progetti e testimonianza. Ha seminato idealità, sogni e obiettivi e duro sacrificio personale, nei percorsi di martirio del risorgimento così come più tardi nelle patrie galere del golpe del ’98 ed in quelle successive ancora, e più brutali,della dittatura. Valgano per la prima stagione i nomi di giovani e giovanissimi sardi abbattuti, dal fuoco sabaudo e da quello francese papalino, per i più alti valori da loro vissuti: Efisio Tola e Goffredo Mameli; valgano per l’ultima i nomi di altri venti-trentenni, come Silvio Mastio e Cesare Pintus o magari Michele Saba, e potrei anche dire Giuseppe Zuddas e Dino Giacobbe come già Emilio Lussu… Quel punto che ho definito centrale si chiama “repubblica”, ed esprimeva allora la miglior coscienza della democrazia prefigurata e, nonostante tutto, in marcia. E repubblicano non poteva non essere l’ordinamento capace di saldare gli istituti delle libertà personali e civili a quelli dell’equità nella distribuzione del benessere materiale tanto più fra classi sociali e territori. Per realizzare quella che un altro democratico di alto sentire come Giovanni Battista Melis, studente-lavoratore militante della clandestina organizzazione antifascista denominata Giovane Italia nel 1928, quando fu arrestato e ristretto a San Vittore, avrebbe un giorno, da parlamentare sardista nel gruppo repubblicano di Montecitorio invocato, rivolgendosiall’assemblea «con cuore di sardo e d’italiano»: «per l’unità vera della patria», per il passaggio a più alta civiltà del sud d’Italia e delle grandi isole, così saldando quelle terre ai maggiori traguardi già raggiunti dal settentrione meglio integrato alla middle Europa.

Collocare Asproni nel suo tempo e scorgerne la modernità del pensiero

Avevano preso forma, nell’Ottocento, le nazioni come le abbiamo conosciute nel secolo successivo in cui noi siamo cresciuti ed abbiamo gustato anche la fatica e la responsabilità della cittadinanza: il risorgimento nazionale/territoriale s’era sviluppato, in parallelo a quello italiano, in Germania, così (assai più tribolato e incompiuto) in Polonia. E non a caso la Giovane Germania e la Giovane Polonia, espressioni rispettivamente di culture sassoni e slave, si erano associate alla Giovane Italia nella costituzione di quella Giovane Europa che nel 1834, centovent’anni prima dei Trattati di Roma, simboleggiava e anticipava l’unità democratica del continente. Unità federale, nel rispetto delle identità rispettive, perché l’umanitarismo e la democrazia non scadono mai nei gorghi della omologazione, del disossamento delle patrie dalle molte culture che ne fanno felicemente, ancorché problematicamente, realtà vive. Restava allora l’impero austro-ungarico a soffocare le nazionalità e non a caso alla stessa scuola democratica nata mazziniana, e cui avevano partecipato integralmente, appunto,Asproni e Tuveri, fece capo l’irredentismo nostro, e democratico mazziniano fu il triestino Guglielmo Oberdan, impiccato 24enne per le azioni sovversive contro l’autocrazia imperiale di Francesco Giuseppe, e per lunghi anni, ogni 20 dicembre, celebrato dalla minoranza testimoniale di Cagliari. Allo stesso filone della battaglia identitaria italiana strettamente connessa ai valori di democrazia, e perciò di repubblica, dunque mai nazionalista, appartennero Cesare Battisti – così legato, sentimentalmente, alla Sardegna ed a Cagliari – e Nazario Sauro, passati anch’essi per il vergognoso cappio austriaco.

A quella stessa scuola apparteneva l’istriano Domenico Lovisato, il grande mineralologo fattosi sardo, sassarese e poi cagliaritano, fondatore del club alpino sardo, che pure fu educatore oltre che scienziato nella nostra università. Ed apparteneva, per restare al tempo della prima e anche drammatica maturazione della semina mazziniana ed asproniana, un pastore battista come Pietro Arbanasich che operò per lunghi anni a Cagliari e nella Sardegna meridionale: e anche in lui la democrazia repubblicana, testimoniata nel suo oratorio di Stampace o di via Roma, ma anche nei discorsi di piazza e nelle manifestazioni per le vie della Marina e di Castello, si fondeva con l’istanza identitaria, nobilmente nazionalitaria. Sicché Cagliari su quella scia, mossa dalle sue eroiche falangi libertarie, si collegò nelle più alte prefigurazioni che avrebbero portato all’abbattimento dell’impero austro-ungarico e ai nuovi equilibri politico-territoriali che i regimi dittatoriali avrebbero poi ancora per altri decenni compromesso. Fino alla guerra ed al secondo dopoguerra, fino alla faticata conquista della vittoria referendaria (ma ancora in minoranza erano, nella Sardegna del giugno 1946, le forze repubblicane!), fino ai trattati di Roma, fino al disegno comunitario del continente.

A Palermo, nel febbraio 1861, appena un mese prima della formalizzazione della unità d’Italia (o del regno d’Italia), annotando sulle pagine del Diario, così scriveva Giorgio Asproni: «Nascerà senza fallo un nuovo ordine di cose, e accadranno mutamenti non previsti da veruno dei più eminenti uomini di stato. Oggi è per la nazionalità che si lotta, poi si penserà alla confederazione degli Stati Uniti d’Europa, e in mezzo a tutti questi moti, ora placidi ora violenti, la libertà non sarà dimenticata dai popoli».

L’europeismo di Giorgio Asproni, il suo impegno pro-nazionalità

In più occasioni ho avuto modo di insistere sulle coordinate valoriali pubbliche del parlamentare che condivise con pochi altri sardi del suo tempo il record di durata nello stallo della Camera dei deputati. In tale quadro il suo approccio europeista, vitalmente connesso al sostegno alle nazionalità irredente dell’est del continente, quella rumena soprattutto, ma anche quelle magiara, polacca, serba, ecc., perfino quella greca. Alla loro sorte guardavano, peraltro, con grande partecipazione, l’intera democrazia mazziniana italiana e, più specificamente, il filone dell’interventismo garibaldino.

Vorrei riprendere – in lode dell’Asproni chiamato ad essere santo ispiratore e promotore, quest’anno, di sa die de sa Sardigna –, dai miei stessi studi precedenti, i riferimenti maggiori. Ecco l’Asproni europeista, impegnato nella battaglia del riconoscimento della piena legittima soggettività di ogni popolo costituente parte della galassia slavo-danubiana.

«La rivoluzione in Polonia tiene a scacco tutte le forze russe. E’ impossibile soggiogare un popolo che non teme la morte e insorge a nome della libertà e della religione», scrive il 4 maggio 1863.

E due giorni dopo: «Pare che Menotti Garibaldi abbia intenzione di recarsi in Polonia. La rivoluzione allarma anche l’Austria, che vigila con rigore quasi uguale alla Prussia». E per diversi giorni continuerà riferendo di voci riguardanti tale missione, fino al 3 giugno: «Alla spicciolata un duecentocinquanta giovani sono partiti per la Polonia…».

Chi ha dedicato molte documentatissime pagine al rapporto di Giorgio Asproni con l’Europa orientale e in particolare con la nazionalità rumena è Stefan Delureanu, uno studioso dell’università di Bucarest, spirito combattivo non soltanto nella ricerca storica ed appassionato del mazzinianesimo come dottrina di democrazia umanistica, cioè a matrice etica. A lui soprattutto si deve l’inquadramento del contributo dei democratici italiani – e fra essi eminentemente quello asproniano – alla causa dei popoli slavi costretti nelle divisioni, soggetti a domini autoritari o autocratici e/o stranieri.

«Per il programma e la conseguente linea di condotta dei democratici polacchi e romeni si rivelano di non comune portata – egli scrive nella relazione letta al convegno aspronianodi Cagliari del dicembre 1992– l’assimilazione del mazzinianesimo e la successiva adesione alle varie forme organizzative in cui ha preso forma l’internazionale europea della Democrazia, dalla Giovine Europa alla Alleanza Repubblicana Universale». In tale contesto si pongono anche i «numerosi arruolamenti volontari nei corpi garibaldini» e quel certo «pullulare di disegni d’azione tessuti soprattutto intorno al mito di Garibaldi e alla speranza della partecipazione sua e dei suoi audaci a spettacolari risurrezioni nazionali nel proprio paese».

Ancora: «In concordanza con la sua scelta democratica mazziniana, Giorgio Asproni, testimone di imprese risorgimentali e fautore dei movimenti che ovunque tendono alla consacrazione del principio di nazionalità, non può non essere assertore convinto di una Europa di nazioni fraterne, uguali nei diritti, nei doveri e nelle opportunità, nonché del principio federalista, correttivo indispensabile dei limiti, delle esagerazioni e degli eccessi del nazionalismo. Mentre dunque, con questi sentimenti guarda con costante simpatia verso la ferma volontà ungherese di sottrarsi agli Asburgo, giudica sacro dovere il ricostruirsi della Polonia, come saluta il risveglio danubiano-balcanico e molto calorosamente l’ascesa dei principati romeni della Moldavia e della Valacchia. Milite dell’umanità al servizio dell’auspicata santa alleanza dei liberi popoli, il patriota sardo promuove uno spirito di solidarietà attiva con esponenti di varie emigrazioni politiche, non accetta che nascano contrasti e diffidenze fra i vari filoni della democrazia europea e nega il suo consenso alle persone che creano questi dissidi».

E soggiunge: «E’ la guerra di Crimea, il primo rilevante fatto continentale fecondo di sviluppi diplomatici sia per l’Italia che per la Moldavia e la Valacchia che diventa tema delle sue non casuali riflessioni su una zona geografica i cui destini furono legati a quelli italici sin dalla antichità romana e dai secoli di gloria delle repubbliche marinare nel bacino del Mediterraneo orientale, nel Mar Nero e al Basso Danubio».

Asproni segue la questione moldo-valacca dapprima a Parigi, dove vive buona parte del 1855, quindi a Torino. Nel 1856 – l’anno del congresso di pace – egli chiama i «fratelli romeni» «fermi guardiani del Danubio contro la Tartaria, pronti a rinnovare con gli italiani “l’antica fratellanza”». Il suo interessamento al futuro di libertà di quelle popolazioni deriva molto dal clima filorumeno alimentato dalla pubblicistica risorgimentale italiana. Andrebbe anche ricordato che a Lorenzo Valerio – grande amico e sodale politico di Asproni – va il titolo di fondatore, a Torino, dell’Alleanza italo-slava, e difensore parlamentare della «comunanza di interessi e di fini tra questi popoli». Così come all’insegna degli “Stati Uniti del Basso Danubio” è ancora Valerio a far pubblicare nel 1850, sotto il comune titolo de “I moldo-valacchi”, vari articoli di Jon Ghica, «patriota liberale militante in esilio a Costantinopoli» e anima dei propositi unitari di tre nazionalità.

Il Diarioasproniano rivela numerosi retroscena della vicenda politica interna al movimento irredento rumeno e della partecipazione solidale della democrazia e delle istituzioni politiche e diplomatiche sardo-piemontesi e poi italiane alla complessa questione. Bisognerebbe aggiungere che molte notizie dell’area rumena giungono a Asproni dalla principessa Elena Ghica, una patriota esule fra Svizzera, Francia e Italia, e nota come Dora d’Istria che, si osserverà, «seppe unire la potenza e la capacità del brillante intelletto a quelle dei grandi spiriti europei del tempo in una mirabile battaglia di civiltà laicistica, di cui fu leale e generosa propugnatrice». Da questa intensa relazione, umana oltreché politica, nasceranno iniziative diverse volte alla emancipazione delle nazionalità danubiane e soprattutto rumena (bellissimo, sul rapporto fra il Bittese e l’esule rumena, il saggio di Maria Corona Corrias: cf. “L’Amicizia tra Dora d’Istria e Giorgio Asproni” in Maria Corona Corrias, De Amicizia, Scritti dedicati a Arturo Colombo, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 401-412).

Delureanu ricorda a tal proposito come «L’idea di una fratellanza della fede politica da aggiungere a quella della stirpe viene ripresa, ridiscussa e finisce per produrre due appunti confidenziali redatti dalla interlocutrice per il gruppo di Genova. L’uno includeva lo schema di un disegno di dissoluzione dell’Austria, ridotta in ultimo ai propri territori attraverso la cooperazione militare italo-romena con la creazione di una “Italia orientale” che riunisse tutti quanti i romeni mentre poneva, come condizione di ogni alleanza leale tra italiani e ungheresi, il riconoscimento da parte di questi ultimi della legittimità dei diritti nazionali dei romeni transilvanici; il secondo appunto richiamava  l’attenzione sull’oppressione esercitata dai magiari sulle nazionalità non magiare e identificava in quella condotta, similmente a Mazzini, la responsabilità torica del trionfo asburgico…».

Sarà da ricordare che del 1861 è la lettera-appello di Garibaldi con l’esortazione ai romeni «ad unirsi alle stirpi della zona, a cooperare con gli ungheresi e a stringere un vincolo di fratellanza tra l’Europa centroorientale e quella occidentale». E da ricordare sarà pure il disegno che, nello stesso anno della terza guerra d’indipendenza antiaustriaca, nel 1866 cioè, prenderà corpo per la liberazione anche di albanesi, greci, bulgari, serbi oltreché di rumeni…

Si tratta di una storia interessantissima sol che la si guardi con il doppio riferimento al combattuto sforzo del riconoscimento delle nazionalità ed alla integrazione, in termini di democrazia, alle altre realtà nazionali e statuali dell’Europa continentale. Asproni è buon testimone e sostenitore attivo di tale duplice proposito. Insieme per la democrazia liberale e per l’Europa confederale comprensiva della parte orientale – Grecia inclusadel vecchio continente.

Non solo Romania. Una legione magiara allestita in Piemonte prima del termine della seconda guerra italiana d’indipendenza, continuerà ad esistere proprio al fine di contribuire alla liberazione dell’Ungheria. E nel 1860 si costituisce a Palermo – per volontà di Garibaldi – un secondo corpo con lo scopo anch’esso di replicare una “spedizione dei Mille”, in chiave liberatrice, in Ungheria.

E con l’Ungheria la Grecia. Delureanu riepiloga efficacemente i rimandi alla causa ellenica presenti nel Diario asproniano fra il 1862 (progettata spedizione garibaldina) e il 1867-68, «allorquando si sta configurando un movimento congiunto slavo-romeno-greco diretto contro l’Impero ottomano. Mentre le terre dell’Ellade insorgono e Garibaldi si propone di andare in soccorso agli insorti e liberare la Grecia, il disegno è mandato in fumo dalla monarchia sabauda in seguito a minacce asburgiche ed al diniego napoleonico».

Attiva è l’azione del deputato sardo – tanto sul piano umanitario quanto su quello politico-diplomatico – soprattutto alla fine del decennio, a sostegno del Comitato italo-ellenico e in coincidenza con l’insurrezione di Creta del 1867, conclusasi con una reggenza greca pur nell’ambito dell’impero ottomano. Asproni parteciperà «alle riunioni dal console greco Manos e alle varie deliberazioni anche con l’importante iniziativa di stabilire a Livorno il centro di soccorso ai partecipi all’insurrezione».

Anche gli slavi meridionali costituiscono un soggetto collettivo con il quale Asproni interloquisce in rapporto sempre alla complessiva questione d’oriente ed ai programmi cospirativi contro la Turchia e contro l’Austria. E’ in tale contesto che entra, appunto, anche la Serbia. «Alle slave contrade spetta la funzione di prima base di operazioni nei disegni garibaldini da attuare attraverso lo sbarco in Dalmazia – sono ancora parole di Delureanu – e l’Asproni già vede l’eroe dei due mondi correndo di trionfo in trionfo, i croati, gli sloveni e gli istriani liberi. Un movimento sincrono greco-slavo contro la mezzaluna si intravede nel 1868 benché non manchino motivi di reciproca inimicizia tra i due popoli». Perché poi «Il 1868 è l’anno nel quale Mazzini riprende la perorazione per un’alleanza slavo-romeno-ellenica accentuandola e dirige speciale attenzione verso Belgrado, Bucarest e Atene, il cui concorde agire avrebbe messo fine all’Impero ottomano sostituendogli una Svizzera orientale». Insomma, l’Alleanza Repubblicana Universale diviene lo strumento per la liberazione dell’intero continente – dalla Spagna alla Romania – come premessa necessaria alla successiva confederazione in democrazia.

In tale quadro ideale e politico di superamento del presente e costruzione di un futuro emancipato, anche «l’apporto polacco» ha posto, e non secondario, nella riflessione e nei contatti finalizzati all’azione di Giorgio Asproni: fra il 1863 e il ’64 egli si concentra sul «movimento concorde romeno-sudslavo-ungherese-boemo-galiziano in concomitanza con una azione nel Veneto». Nel 1863 l’insurrezione popolare sviluppatasi in Polonia contro la Russia zarista incontra perfetta corrispondenza nei democratici a Genova, dove s’agitano comizi ed è allestito un apposito comitato di soccorso: e intanto cade a Krzykawa il generale Francesco Nullo, garibaldino e Fratello iniziato nella palermitana “I Rigeneratori”…. Sono altre pagine ancora che raccontano non soltanto del pensiero, necessario e nobile, della libertà, ma anche del sangue sparso per la causa della libertà e della nazionalità, per la fraternità fra i popoli fino alla integrazione fra pari nella confederazione continentale…

«Tutto il discorso nazionalitario ed europeistico negli scritti memorialistici e giornalistici del Bittese, come l’intera sua attività di parlamentare, non sono che il riflesso – scrive Delureanu – di un credo che lo definisce e che ritorna: la democrazia non potrà vincere in Europa finché le nazioni continueranno ad essere serve, oppresse e divise… La meta dell’azione storica dei popoli, conquistata l’unità e l’indipendenza, la costituivano per lui gli Stati Uniti d’Europa… Le attese delle nazionalità centroeuropee e balcaniche furono percepite [da lui] con la mente di chi, prospettando un’altra Europa, intendesse contribuire al conseguimento dei loro fini programmatici risorgimentali: affermarsi nella libera disposizione di sé di ogni popolo, compimento del suo ideale politico unitario, indipendentistico, democratico. Nel guardare verso quelle nazionalità, egli identificò nella alleanza italiana con le stesse l’obiettivo fondamentale di una politica estera lungimirante della sua patria, pietra angolare del futuro edificio europeo. Contemplandone aspirazioni, senso di aspettative e trionfi, non gli sfuggirono né dissidi e rivalità, né odi, rancori e inimicizie che dividendole, rendevano insolubile il problema del far confluire in un unico alveo rivoluzionario tutti quei movimenti paralleli e mantenevano in vita gli imperi retrivi. Le divisioni e i contrasti osservabili non erano soltanto etnici e politico-territoriali ma anche religiosi, acuti talvolta persino all’interno di una medesima confessione».

Purtroppo, e sarebbe da dire e ripetere con le parole dello storico rumeno che ha conosciuto e sofferto la dittatura di Ceausescu ed ha poi conosciuto il dramma del disfacimento jugoslavo e della guerra –, «Il problema della riconciliazione delle nazionalità centro-orientali e danubiano-balcaniche, trattato con leggerezza, con visione unilaterale o con ostinato fatale immobilismo», è rimasto insoluto. L’esasperazione nazionalistica, accentuata dalle divisioni religiose, è divenuta per lunghi anni tragedia per molti milioni di persone ancora alle soglie del terzo millennio…

Compulsando il Diario politico

Ecco il federalismo asproniano proiettato sullo scenario continentale europeo, non nazionale italiano. Con l’eccezione semmai delle isole maggiori e certamente della Sardegna. Ma non tanto per l’originalità del nostro ceppo etnico-culturale, quanto per alleviare le pene imposte all’Isola dal piemontesismo miope e ingiusto (perché centralista e burocratico: così dai carteggi con Cattaneo e Brofferio), dal paternalismo autoritario che era, e sempre è, il contrario della democrazia e del diritto.

Di rapido rientro dalla Francia a Genova (che al tempo l’aveva eletto al Parlamento subalpino), nel contesto anche drammatico dello scoppio della epidemia colerica – era il 10 agosto 1854 – Asproni, temendo a rischio la sua vita, fece testamento, lasciando fra l’altro la propria collezione delle opere di messer Machiavelli «alla biblioteca della prima assemblea repubblicana che si radunerà in Italia». Scrisse: «La Sardegna è stata sempre il più caro oggetto degli affetti miei. Per amor suo, non una, ma dieci vite io metterei a cimento. Io però che ho il cuore pieno di speranza per l’Italia, quasi dispero delle future sorti dell’Isola. Non ha uomini abili a rigenerarla…». Bollava la rappresentanza, e parrebbe aver allungato lo sguardo addirittura al nostro tempo…

Chiariva meglio: «L’Isola… potrebbe ottenere molti benefizi se i suoi ventiquattro deputati fossero uniti sempre che si trattasse di far bene… ma sono divisi e nella maggior parte devoti al potere per inveterata servitù e per ambizione di favore per sé e per i loro parenti ed amici». E dopo ancora: «Come pegno di filiale attaccamento raccomando aiSardi miei contemporanei e futuri di adoperarsi con tutte le loro forze a rendere indipendente l’Italia. Sia che si costituisca ad unitàsia che adotti il sistema federale, la Sardegna ne riceverà inestimabile benefizio, perché scuoterà il giogo dei Piemontesi». Aggiungendo ancora: «Opinione mia è che alle isole convenga un governo proprio con amministrazione propria e indipendente, salvo sempre il vincolo politico alla Madre Italia, che sarà rappresentata da un Governo e da un Parlamento nazionale a Roma. Sia poi che vi sia guerra d’indipendenza italiana, sia che venga il caso da me reputato quasi impossibile, che la Sardegna insorga e combatta per liberarsi dalla tirannide piemontese, desidero e lascio a carico della coscienza e dell’onore dell’Erede o deli eredi miei di regalare £n. 100 al soldato bittese che più si distinguerà per valore militare in simili combattimenti…».

Meno di un anno dopo, il 29 luglio 1855 riempiva la pagina del Diario con queste altre riflessioni: «L’Italia si redimerà, ma la Sardegna sarà sempre infelice finché non avrà propria la sua amministrazione, senza cessare di far parte della generosa e cara famiglia italiana. Sotto il dominio piemontese non prospererà mai, a meno che non abbia pazienza e costante volontà di eleggere deputati esperti e capaci di abnegazione – opera pressoché impossibile perché mancano gli uomini in tanto avvilimento del popolo intero; e di organizzare una resistenza legale. L’altro rimedio è feroce, ma necessario e più probabile: e questo sarebbe un Vespro sardo. Anche quando l’Isola venisse soggiogata, e si facesse del Governo atroce vendetta, resterebbe sempre la memoria e l’esempio per insegnare agli spietati reggitori ad essere più giusti e più umani verso la Sardegna». Un concetto che ritorna anche successivamente e va chiaramente contestualizzato a passaggi umorali antipiemontesi – e solo ed esclusivamente a quelli –, poiché la cornice lealista verso l’Italia civile e colta di Dante e Petrarca fino all’Italia di Leopardi e di Manzoni è sempre ribadita: «contro la patria non dobbiamo mai adirarci. Se non è preparata, è nostro dovere d’istruirla e prepararla».

Asproni oggi, un faraglione nel liquido mar della politica

Mi sono posto questa domanda: che senso abbia che la giunta regionale sarda, attraverso il suo assessore Dessena e il presidente Pigliaru, abbia proposto il nome di Giorgio Asproni come padrino ideale dell’edizione 2017 di sa die de sa Sardigna. Voglio dire: in un tempo in cui i riferimenti alle antiche (e per me sempre attuali, seppure diversamente declinabili) scuole ideali e politiche sono venuti meno, e i padroni della scena paiono convinti che la storia sia nata con loro, cosa può significare evocare un nome come quello di Giorgio Asproni? Li vedoormai tutti, i protagonisti sulla scena, da un osservatorio eccentrico, marginale, forse residuale e sconfitto per sempre, bombardato dalla boria dei nuovi tutti ripetitivi: i democratici di prepotente derivazione democristiano-comunista (e dalla malcelata ed irrefrenabile propensione al conformismo di potere) ai forzisti (di radicata obbedienza pagana, senza mai un sogno bello), ai leghisti (un tempo padani ora pifferai dell’unità razzista ad excludendum), ai minuscoli cosiddetti – cosiddetti – “fratelli d’Italia” (bestemmia semantica alle orecchie offese di Goffredo nostro), agli ultimi improvvisati e sguaiati movimentisti della piazza. Quale relazione possano avere con i presupposti morali, con le intuizioni democratiche, culturali e civili, politiche e istituzionali di Giorgio Asproni i nuovi della scena pubblica sarda? Dov’è lo splendore della classe dirigente autoctona, anche di quella nazionalitaria e indipendentista che pone il centro del mondo a Cagliari o a Bauladu invece che a Roma o altrove? Dove è la qualità della legislazione dell’Assemblea sarda? Basti pensare perfino alla schifezza di legge elettorale approvata anni addietro che ha escluso dal range della rappresentanza una quota tanto importante della società elettorale… o basti pensare alla cosiddetta casta che destri e sinistri e mezzi e anche indipendentisti hanno alimentato in Consiglio regionale con abnormità di vitalizi privilegiati…  Dove è il disegno coerente e alternativo, consapevole delle corresponsabilità internazionali nella difesa, circa il monte-servitù militari? Quale è la cifra del dialogo di responsabilità fra le comunità locali, o le loro rappresentanze – metti La Maddalena, ma metti anche Teulada o Quirra… – e la Regione autonoma circa il rapporto costi-benefici, nei territori, della presenza delle basi di addestramento? Dov’è stata, e come è stata motivata, dalla Regione, dalle espressioni anche nazionalitarie presenti in Consiglio regionale, la protesta contro la produzione di armi mortali da parte della fabbrica tedesca di Domusnovas? Dov’è la proposta organica – e perciò autorevole e perciò non eludibile – di unlargo volontariato civile giovanile, dalla forte portata educativa, in Sardegna?

Siamo spenti, tutti, quasi tutti. Se andassimo nelle scuole e chiedessimo ai ragazzi delle superiori – non dico neppure delle medie – chi è Giorgio Asproni, quanti saprebbero rispondere? Ma quanti studenti dell’istituto tale, del liceo talaltro, saprebbero rispondere alla domanda “Chi era Dettori?”, “Chi era Mossa?”, “Chi era Martini?”, “Chi era Besta?”, “Chi era Azuni?”, “Chi era Scano?”, “Chi era De Castro?”, “Chi era Motzo?”, “Chi era Brotzu?”, “Chi era Pacinotti?”, “Chi era Satta?”, “Chi era Spano?”. Forse sbaglio. Forse non c’è mai omissione da contestare ai professori in cattedra che, il primo giorno di lezione, certamente presentano ai nuovi iscritti, insieme con il benvenuto in classe, anche la scheda della scuola e quella, d’indubbio gustosa, del titolare. Né forse mancano i professori, in concerto fra loro, di proporre, anno dopo anno, una ricerca, magari un concorso fra i ragazzi sul santo titolare della scuola da loro frequentata. E quanta Sardegna – la Sardegna dei padri – si potrebbe imparare a conoscere anche attraverso queste modeste sperimentazioni!

Non c’è consapevolezza dell’oggi senza conoscenza della storia, almeno delle sue grandi coordinate. Invece si vola sempre troppo alto nelle dottrine assertive circa i migliori mondi possibili e le nuove auspicabili geometrie dei continenti e dei microcontinenti, applicando la categoria dell’assoluto invece che del relativo, e si ha paura del minimale, del passo pensoso cui si preferisce, appunto, il volo brioso e applaudito, ma virtuale, non costruito con la fatica e il sacrificio, come fecero i padri e i fratelli migliori, come fecero i resistenti antifascisti (oggi, quando scrivo, è il 25 aprile).

Quale membro di giunta (a parte Maninchedda) o quale capogruppo dei partiti presenti in Consiglio regionale, di maggioranza e di opposizione, potrebbe oggi conversare con i ragazzi, senza necessità di ripasso affrettato sul bignamino, circa il pensiero di Giorgio Asproni? O magari sulle proposizioni di Gonario Pinna il sardista cattaneano e di Luigi Oggiano il sardista mazziniano in ordine alla proposta di statuto d’autonomia da mettere ai voti prima del Partito Sardo poi della Consulta regionale e quindi trasferire, per darle dignità di legge costituzionale, superata ormai la fase della Consulta nazionale, alla assemblea costituente? Chi potrebbe riferire, seppure in sintesi, delle fatiche elaborative di quello statuto, delle sue premesse, dei suoi sviluppi, contestualizzando e confrontando magari con il testo della specialità siciliana?

Dovremmo tutti quanti uscire dai dogmi prodotti in salotto, dovremmo poter laicamente ripercorrere i tragitti di chi ci ha preceduto con gloria autentica – quella della incomprensione generale –, considerare il sacrificio che costò questa nostra repubblica per la quale combatterono, in uno al sogno della democrazia postfascista, tanti resistenti anche sardi. Ricordo sempre Elena Melis – la magnifica professoressa-preside del Borrotzu di Nuoro – che mi spronava a ricerche mirate sui partigiani sardi, in primis quelli di Giustizia e Libertà, delle Brigate azioniste, magari delle Brigate Mazzini.

La storia, la storia. Non è di Asproni, nella nota (amichevole e permanente) polemica con Bakunin, una riflessione circa il rapporto della storia con il tempo presente e circa la necessità per gli uomini della politica di pensare storico per ben pensare corrente? «Nessun politico fu mai utile alla patria e a sé, se stato non fosse avanti storico profondo. E qual ministro che storico non è, può buona certezza avere di riuscire nelle gravi e difficili faccende dello Stato? E m’è avveduto costantemente vedere che quelli i quali erano ignari delle storie non sapevano, dalle sette volte le sei, quello che si voleva eglino stessi».

Il primo segno di rispetto che si deve a Giorgio Asproniè quello di collocarlo nel suo tempo, cogliendone e valorizzandone senso morale, passione democratica, dottrina civile, intuizioni politiche e vigore combattivo: per cogliere il suo lascito, per attualizzarlo, per spenderci anche noi, socialmente, a pro di idealità alte rispettate dalla storia. Quella di Asproni fu profezia di democrazia in tempo di liberalismo conservatore, fu profezia di repubblica in tempo di monarchia autoritaria, fu profezia di autonomia territoriale in tempo di centralismo governativo – chiese invano l’elezione popolare dei sindaci invece della loro nomina dall’alto –, fu profezia di federalismo continentale in tempo di nazionalismi guerrafondai, fu anche profezia di laicità in tempo di prepotenze clericali.

Certo le problematiche che pone a noi il nuovo tempo sono diverse per molti aspetti da quelle del medio Ottocento, ma non smette di assillarci l’etica del dovere, la vocazione a servire la comunità onorando le istituzioni che debbono rappresentarla e governarla nell’interesse generale.Asproni significa Italia unita, democratica e repubblicana, articolata in autonomie di responsabilità legislativa e buona amministrazione. Asproni evoca il disegno di una grande Italia e di una Sardegna che sa farsi rispettare per gli “egregi uomini” che può – puo! – esprimere come classe dirigente: non fu lui a chiedere che in Parlamento le rappresentanze sarda e siciliana – delegate da un generalizzato suffragio universale – fossero riconosciute come “gruppi regionali”?

Lo si onora, Giorgio Asproni, nell’occasione delle manifestazioni di sa die, ma non lo si può reinventare in nessuna chiave indipendentista. «Amo l’Italia e la Sardegna di un amore indefinibile… Mi seppelliscano nel paese ove io morrò, purché sia Italia», scriveva il 24 gennaio 1874, firmando il suo ultimo testamento.  E Bruno Josto  Anedda, l’amico mio d’oro che verso la metà degli anni ’60 scoperse le casse con i manoscritti del Diario politico, consegnando alla stampa (pochi mesi prima della propria immatura dolorosa scomparsa) il profilo biografico che avrebbe aperto, nell’introduzione al primo dei sette corposi volumi, il monumentale corpus asproniano, ricordò ancora questo: «Quando, il 30 aprile 1876, colpito da un attacco di malaria, Giorgio Asproni entrò in agonia nella sua casa romana, attorno a lui erano alcuni deputati anche di diverso colore politico. Essi vollero che le ultime parole di Lui morente fossero consacrate ufficialmente negli Atti parlamentari: “Amai sempre l’Italia, che voglio grande e onorata”».

Nel giorno in cui si compì «il più grande avvenimento del secolo»

La storia bussava alla porta dell’Italia, e della Sardegna con lei, e di tutto il mondo nel 1870. «… il fuoco contro Roma è stato aperto alle ore 5 e 20minuti stamani dalle cinque divisioni. Alle 8 labreccia era quasi aperta tra Porta Pia e Porta Salaria. Più tardi èarrivata la notizia che le truppe italiane si precipitavano con entusiasmo entro le mura, sempre combattendo. Il popolo fiorentino a capannelli per le vie, e specialmente in piazza della Signoria e in quella di Santa Trinità, guardavano se n’inalberava la bandiera. Parecchi deputati abbiamo fatto ressa al Comm. Trompeo, ed io stesso andai cogli uscieri sul Campanile del Palazzo Vecchio ed ho fatto sventolare la bandiera. E’ stato un momento di commozione incredibile. Immantinenti il popolo ha occupato le vie acclamando freneticamente con le bandiere. Anche al Palazzo Municipale si è issata la bandiera. Il popolo ha occupato campanili ed ha fatto festa al suono generale di tutte le campane della città: non è stata muta neppure la piccola della chiesa Orsanmichele. Per le vie lebande hannosuonato l’inno di Garibaldi e la marcia reale. Dal ’48 in poi non si era mai vista in Firenze una manifestazione tanto spontanea e tanto solenne come la odierna. Strapotente è il nome di Roma… Questo è il più grande avvenimento del secolo. Cosa non immaginabile, la Monarchia costretta dalla rivoluzione a mettere giù col cannone il Papato! L’Italia sola nel mondo havirtù di dare questi singolari esempli ed opera questi miracoli di civiltà. L’entusiasmo di tutte le altre città d’Italia non sarà inferiore a questo di Firenze». Così scriveva, martedì 20 settembre, nella Firenze capitale provvisoria del regno, Giorgio Asproni. (E se mi posso permettere un flash personale: a parte la collaborazione alla “pagina dei giovani”, fra 1971 e 1972, il mio primo articolo su L’Unione Sarda riferì proprio delle reazioni sarde alla presa di Roma: e fu, secondo le cronache dei giornali del tempo, proprio come previde Asproni. Feste di popolo, qualche buio soltanto nella giunta municipale del capoluogo, di stampo clericale).

Tornerò in argomento, spero, riproponendo la prima bibliografia che fra Ottocento e primo Novecento, e poi nel secondo dopoguerra, andò in progress a celebrare la statura eccezionale che si era stagliata nella deputazione sarda della rivoluzionaria metà del XIX secolo. Fu memoria onorata dal Siotto Elias e dallo stessoGiovanni Battista Tuveri, da Sebastiano Satta in versi, dagli scrittori di Mediterranea – fra essi nientemeno che Bacchisio Raimondo Motzo, Sebastiano Deledda e soprattutto Luigi Falchi che ne scrisse negli anni ’20 anche su Il Giornale d’Italia e su Il Popolo Sardo –, da Arnaldo Satta Branca su La Nuova Sardegna, con la gentilezza del discepolo ideale dal giovanissimo Lello Puddu fin dal 1951…

 

 

 

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