PER SA DIE DE SA SARDIGNA 2017: DALLE VICENDE DEL SETTECENTO ALLO STATO D’ASSEDIO DEL 1852, LA STORIA DI UNA SASSARI RIBELLE, di Federico Francioni
Venerdì 21 aprile 2017, approssimandosi “Sa die de sa Sardigna”, si è svolta a Sassari, in piazza Santa Caterina, un’articolata iniziativa: dapprima una breve conferenza con il saluto del sindaco Nicola Sanna, gli interventi di Giuseppe Doneddu, Federico Francioni e Alessandro Ponzeletti; ha fatto seguito “Sassari sotto assedio”, una drammatizzazione, in sassarese e italiano, degli eventi, realizzata dalla Compagnia “S’Arza”, diretta da Romano Foddai e interpretata da Maria Paola Dessì, Clara Farina, Francesco Petretto, Stefano Petretto, Giovanni Salis, Dianora Sechi, Fabio Uleri, Antonio Unida, costumi di Sea Tandeddu, fonica di Emilio Foddai; presenti anche il coro “Amici del canto sardo”, diretto da Salvatore Bulla ed il corpo di ballo tradizionale “Monte Alma” di Nulvi. La Fondazione Sardinia era tra gli organismi patrocinatori, unitamente al Comune di Sassari, Ministero dei Beni culturali, Presidente del Consiglio regionale, Intergremio ed altri enti. Il pubblico, accorso nonostante il freddo, ha seguito attento e partecipe, contribuendo al successo della manifestazione. Di seguito proponiamo il testo completo dell’intervento tenuto da Francioni che lo ha dedicato alla memoria di Vincenzo Migaleddu, immaturamente scomparso, impegnato in dure e rigorose battaglie contro l’inquinamento. Vivissimi applausi hanno sottolineato il ricordo del valente medico radiologo.
Sommario: Nel Settecento – L’agitazione di Antonico Satta (1848-49) – Il “caterpillar dell’oblio” – Il Carnevale sassarese del 1852 ed una costante della politica piemontese fra Settecento e Ottocento – Dalla domenica al Martedì grasso – Il Vespro – Giorgio Asproni: il Vespro sardo va rinnovato! – Lo stato d’assedio del 1852 – A Sassari e in Sardegna non è mai successo nulla? Conclusioni.
Nel Settecento. Nel 1739 veniva inviata a Torino, presso il governo del re Carlo Emanuele III, una Rappresentanza, cioè un memoriale di nobili e notabili sassaresi, in cui venivano lanciate accuse abbastanza circostanziate contro il governatore della città barone Giuseppe Andrea Tondut e la moglie di questi, Angela Maria Germano: ad entrambi venivano addebitate pratiche di corruttela e corruzione, favoritismi e malgoverno, nonché protervia verso gli abitanti dell’isola, dagli stessi Tondut qualificati come Sardi scrocchi, vili e canaglie.
Nel 1780 scoppiava a Sassari un’insurrezione che portava all’allontanamento dalla città del governatore Claudio Alli di Maccarani – sposato con Maria Genoveffa, figlia dei coniugi Tondut – che fu accusato di incettare il grano e di manovre speculative con il tipografo Piattoli. Il compianto Francesco Manconi ha dimostrato che il moto non può essere considerato di carattere esclusivamente annonario. Egli ha avuto il merito di pubblicare dei versi poetico-satirici (in italiano, latino e sassarese) contenenti polemiche che non avevano risparmiato lo stesso re Vittorio Amedeo III. Ad un attento esame la rivolta sassarese del 1780 risulta senz’altro anticipatrice di quella cagliaritana, esplosa il 28 aprile 1794 (il moto poi si estese, senza tumulti di piazza, a Sassari e ad Alghero). La repressione del 1780 sassarese fu guidata da Vincenzo Balbiano, diventato poi viceré di Sardegna, il primo e il più illustre dei cacciati dal capoluogo in quel fatidico 28 aprile. Il Vespro cagliaritano – se davvero non si vuole estrapolare e si desidera coglierne appieno il significato – è da inserire a sua volta nel triennio rivoluzionario sardo 1793-96.
Nei movimenti antiassolutistici ed antifeudali di quegli anni – guidati infine da Giovanni Maria Angioy (1751-1808), complessa e affascinante figura di docente universitario, magistrato ed imprenditore – non è certo secondario l’attacco a determinati comportamenti, assunti dai ceti dirigenti sabaudi verso i sardi, che tendono a perpetuarsi nel secoli successivi.
L’agitazione di Antonico Satta (1848-49). Per meglio comprendere il significato del 1852 sassarese, è indispensabile un passo indietro, un riferimento al 1848-49, gli anni della grande rivoluzione europea, nonché della prima Guerra d’indipendenza.
Nel febbraio del 1848 gli studenti sassaresi si sollevarono e provocarono la clamorosa cacciata dei Gesuiti – chiamati cappelloni, per il caratteristico copricapo alla don Basilio (immortalato da Gioacchino Rossini) – accusati di asservimento all’Antico Regime ed all’Impero asburgico, per questi motivi oggetto delle critiche di Vincenzo Gioberti.
Al 1848 ed in particolare all’anno successivo risale l’infiammata agitazione condotta dal tribuno repubblicano Antonico Satta che, dopo aver soggiornato a Londra e a Parigi, si stabilì in città, dove venne sospettato ed accusato di idee che sembravano ai confini del socialismo, se non addirittura del comunismo. Al riguardo occorrerebbe leggere e soppesare adeguatamente alcuni pamphlet del tempo, peraltro noti ad Enrico Costa, instancabile poligrafo (fu, tra l’altro, librettista d’opera), autore della sempre valida e monumentale opera intitolata Sassari.
Una cosa è certa: accanto alle idee repubblicane, Satta palesava anche quelle più risolutamente anticlericali, destinate a provocare grande scandalo nei ceti dominanti. Ma, più precisamente, egli chiedeva l’allontanamento da Sassari dei Cacciatori franchi, un corpo di punizione formato da fior di corrigendi, delinquenti e malfattori, sorta di Legione straniera, vero e proprio organismo di occupazione militare. Non a caso Francesco Sulis – storico, docente universitario, deputato al Parlamento – affermerà alla Camera che questi Cacciatori potevano essere tranquillamente di stanza nella colonia di Van Diemen dell’Impero inglese.
Ma il Satta, con una – da lui – non esplicitata e pur tuttavia evidente continuità rispetto a polemiche e istanze del Vespro sardo del 28 aprile 1794, attaccava anche funzionari e impiegati forestieri, qui mandati come in terra di colonia, quasi confinati e spesso portatori di logiche discriminatrici verso i cittadini sardi (per non parlare dell’occupazione degli impieghi). Questo tribuno venne arrestato due volte: dopo il primo arresto venne liberato a furor di popolo; nella seconda occasione ottenne la libertà grazie ad un indulto concesso dal nuovo sovrano Vittorio Emanuele II, succeduto al padre Carlo Alberto. Si tenga presente che col Satta erano state arrestate ben 16 persone. Il Satta morì nel 1851 a Genova. Su questo personaggio si rendono essenziali nuove, più accurate ed approfondite ricerche d’archivio: si veda intanto il bel volume di Sandro Ruju, Un mazziniano sardo. Gavino Soro Pirino nella Sassari della seconda metà dell’Ottocento (Edes, Sassari, 2007). Le invettive del Satta non si diressero solo verso i governanti piemontesi, ma anche verso i gruppi conservatori filosabaudi operanti nell’isola, rappresentati, in questo caso, dal magistrato, storico e deputato Pasquale Tola, nonché dall’arcivescovo turritano monsignor Varesini. Per fronteggiarsi, i due schieramenti fecero addirittura ricorso a bande armate. Sullo specifica dimensione della Sardegna repubblicana, comunque, indagini fondate su una vasta mole di materiale archivistico sono già state realizzate e sicuramente saranno sviluppate in futuro da Assunta Trova, dell’Università di Sassari.
Il “caterpillar dell’oblio”. Teniamo dunque presenti – come si diceva in precedenza – le accese e risentite rivendicazioni del Satta per capire il susseguirsi di problemi e vicende che conducono allo stato d’assedio del 1852. Il Costa ha scritto: «Il ricordo dell’anno 1852 non si cancellerà mai dall’animo dei sassaresi e sarà sempre trasmesso di generazione in generazione per i fatti luttuosi che lo hanno consacrato alla storia». Magari, viene da aggiungere, fosse stato proprio così! Purtroppo, su questi e tanti altri avvenimenti (non a caso, da più di vent’anni, organizziamo “Sa die de sa Sardigna”) sembra essere passato il “caterpillar dell’oblio”: un qualcosa di tipico del subconscio, sassarese e sardo, che trova le sue radici in meccanismi ben indagati sul piano etnoantropologico, filosofico e psicoanalitico da Bachisio Bandinu e da Placido Cherchi.
Il Carnevale sassarese ed una costante della politica sabauda fra Settecento e Ottocento. I momenti cruciali di quel fatidico 1852 sono rappresentati dalla domenica di Carnevale del 22 febbraio e soprattutto dal successivo martedì 24. In entrambi i casi i festeggiamenti di Carrasciari impazzavano, con quello spirito irridente che costituisce un carattere vistoso dei sassaresi. Maschere e abbigliamenti furono descritti dal padre Vittorio Angius – sacerdote, storico, romanziere, deputato e scienziato (studiò il volo umano e fu tra i primi sostenitori della medicina omeopatica) – nella voce Sassari, da lui compilata (alla metà circa del XIX secolo) per il Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, diretto da Goffredo Casalis.
Prima dei giorni sopra indicati si erano verificati momenti di attrito fra i Bersaglieri e la Guardia nazionale, una milizia composta da “civili” che, fra gli altri compiti, aveva l’incarico di sorvegliare il Teatro civico, sede dei balli.
A questo punto torna indispensabile ribadire e focalizzare quella costante che accompagna la storia cittadina e sarda dai primi decenni del Settecento a tutto l’Ottocento ed oltre: esponenti del governo sabaudo, ministri, ufficiali ed impiegati regi trattavano i “locali” con disprezzo e tracotanza, indisgiungibili da politiche che possiamo tranquillamente definire come colonialistiche, secondo l’accezione che dobbiamo, in particolare, agli studi del compianto storico franco-americano John Day. Troviamo una perpetuazione ed una ricaduta di determinate logiche negli sberleffi e nei dileggi – rivolti a ufficiali e militi della Guardia nazionale cittadina – da quei Bersaglieri che, non dimentichiamolo, si trovavano al posto dei già rammentati Cacciatori franchi, esecrati dal Satta. I Bersaglieri, in stretta continuità col passato, mantenevano quell’approccio caratterizzato dall’espressione Sardi molenti, per non parlare di altre contumelie, irrocos e frastimos (in sassarese: frasthemmi). Come ha ricordato Giuseppe Doneddu nell’intervento svolto durante il nostro incontro sassarese di venerdì 21 aprile, i Bersaglieri (corpo creato nel 1836 da Alessandro Della Marmora) si meritarono la più viva e duratura ostilità dei cittadini anche a Genova (dove fu attuato un massacro tra la popolazione), a Nuoro, Olzai ed Ozieri.
Dalla domenica al Martedì grasso. Alla luce di quanto si è detto non sorprendono ma, anzi, vanno colti nella loro estrema gravità gli episodi succedutisi il 22 febbraio e soprattutto quelli drammatici del successivo 24, originati dal ballo carnevalesco del Civico. Un ufficiale della Guardia nazionale aveva fatto notare ad uno dei Bersaglieri che, secondo il regolamento e l’etichetta vigenti, non si poteva stare nella sala col cappello in testa. Ebbene, nella serata del Martedì grasso, alla vigilia delle Ceneri (come scrive il Costa), furono proprio quegli ufficiali dei Bersaglieri, il Bergalli ed il Farnacca, già qualificatisi per la loro arroganza al Teatro, che si distinsero per la violenza riversata su inermi cittadini, su donne insultate ed aggredite. In via Sant’Elisabetta, a Porta Utzeri, a Potzu di Bidda, gruppi di sassaresi furono percossi a piattonate con la spada ed anche feriti al grido di: Sardi molenti! Sassaresi ladri ed assassini! Pungi, pungi!.
Sulla città calò un’atmosfera livida, quasi surreale. I festeggiamenti carnevaleschi potevano dirsi ormai conclusi. In precedenza sia i Bersaglieri, sia la Guardia nazionale avevano suonato la generala – come ricorda ancora il Costa – equivalente ad un segnale di allarme e mobilitazione. I Bersaglieri, per ritorsione, erano diventati oggetto di insulti e sassate. Insomma tutto sembrava andare verso un’ulteriore degenerazione dello scontro.
Il Vespro. Alla conclusione di quel 24 febbraio 1852, un gruppo di Cavalleggeri, invece di rimanere a guardia delle carceri di San Leonardo, site nella discesa che conduce alla Carra pizzinna (attuale via Cesare Battisti), ebbe la malaugurata idea di dirigersi verso Carra manna (oggi Piazza Tola) e di qui verso il Civico. Fu proprio vicino al Teatro che si verificò uno scontro tra Cavalleggeri e popolani, colà schierati assieme alla Guardia nazionale. Uno dei Cavalleggeri, Vincenzo Biestro, cadde ferito a morte da colpi di arma da fuoco, ma anche da alcune coltellate. Il sangue così versato concludeva definitivamente quel drammatico Martedì grasso. Nella nostra iniziativa sassarese del 21 aprile, una circostanziata ricostruzione dei luoghi dello scontro è stata effettuata con rara perizia da Alessandro Ponzeletti.
Il Costa, non certo propenso a giustificare, tantomeno a mitizzare, definisce quella giornata, testualmente, “il Vespro”, con inequivocabile riferimento a quello studiato dal grande storico siciliano Michele Amari (un riferimento anche nel mio Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Condaghes, Cagliari, 2001, volume dedicato all’amico Salvatore Cubeddu, direttore della Fondazione Sardinia). A questo punto non si può non tornare alle costanti, alle continuità rilevabili, fra Settecento ed Ottocento, nelle pratiche e nelle logiche adottate dai ceti dirigenti sabaudi verso le nostre popolazioni.
Giorgio Asproni: Il Vespro sardo va rinnovato!. Anche Giorgio Asproni – grande agitatore, giornalista, repubblicano federalista (ma, in almeno due occasioni, pensò di promuovere un movimento indipendentista), deputato al Parlamento – scrivendo del 28 aprile cagliaritano non solo lo chiama “il Vespro”, ma si augura addirittura che esso venga rinnovato! E ciò evidentemente contro la visione e la prassi piemontesiste-colonialiste.
All’Asproni si è pensato di dedicare il 28 aprile di quest’anno, ma non vorremmo che ciò costituisse, al di là di pur lodevoli intenzioni, una modalità per trascurare o per non dare il debito risalto ai moti del 1793-96: la svolta più radicale nella storia della Sardegna. In ogni caso l’asproniano Diario politico 1855-1876 – assai meritoriamente pubblicato in sette volumi dai cari, compianti Tito Orrù e Carlino Sole – è un autentico monumento della cultura politica ottocentesca, non solo isolana. In questa opera emerge la tempra di questo leader della sinistra, dentro e fuori il Parlamento subalpino, strenuo oppositore di Camillo Benso conte di Cavour. Di lui lo stesso Asproni disse: «Alla Sardegna fece tutto il male che poté!». Una frase che ancor oggi scandalizza o come minimo imbarazza alcuni intellettuali accademici (si veda in ogni caso la vasta ed importante raccolta di saggi La Sardegna nel Risorgimento, a cura di Francesco Atzeni e Antonello Mattone, Carocci, Roma, 2014).
Lo stato d’assedio del 1852. Un decreto del 29 febbraio 1852 – firmato da Vittorio Emanuele II (e mancu male che era denominato “il re galantuomo”!) – proclamava in città lo stato d’assedio, con relativa sospensione di tutte le garanzie dello Statuto albertino. La capitale del Capo di Sopra fu governata con pugno militare dal generale Durando. I vicoli vennero in parte murati per evitare assembramenti. L’Università venne chiusa, messa a soqquadro – se non saccheggiata – da 500 soldati venuti per dare man forte alla truppa già acquartierata in città.
Documenti d’archivio studiati in particolare da Raimondo Turtas mostrano che l’Ateneo turritano non venne serrato neanche durante la peste di metà Seicento (mi permetto di rinviare anche ad Acta Curiarum Regni Sardiniae, vol. 22, Il Parlamento del viceré Nicola Pignatelli duca di Monteleone (1688-89), a cura di F. Francioni, Consiglio regionale della Sardegna, Cagliari, 2015). Nel 1852 invece il governo sabaudo ne minacciò addirittura la chiusura definitiva. Ecco un’altra costante che caratterizza le politiche dei governi sabaudi e italiani postunitari. La storia non è mai stata magistra vitae perché, malauguratamente, ha avuto in prevalenza pessimi discepoli: ma da queste vicende qualcosa si dovrà pur apprendere anche per leggere, decodificare e modificare lo stato presente, soprattutto per capovolgere le scellerate politiche dei ceti dirigenti attuali. In quel periodo la politica sabauda dello stato d’assedio investì anche Tempio, la Gallura e Oschiri, dove un ingegnere era stato assassinato. Gravi misure repressive vennero adottate contro le comunità di Sedilo e Siniscola, colpevoli di protestare contro l’esasperante fiscalismo (cfr. L. Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento, Chiarella, Sassari, 1984, p. 222).
A Sassari e in Sardegna non è mai successo nulla? Conclusioni Occorre infine ricordare gli infuocati dibattiti tenutisi nel Parlamento subalpino, che fecero seguito sia all’agitazione del tribuno Satta, sia al Vespro sassarese del 1852 ed alla proclamazione dello stato d’assedio. In proposito va evidenziata la posizione di Girolamo Sotgiu, consigliere regionale, senatore, dirigente del Pci, docente nell’Università di Cagliari, autore di un’importante monografia sull’insurrezione del 28 aprile 1794, ristampata a cura di Luciano Carta. Sotgiu era uno studioso tutt’altro che propenso, come del resto il Costa, alle mitizzazioni o a interpretazioni in chiave – diciamo così – sardista. Ebbene, nel 1852, alla Camera dei deputati, Sulis, Asproni, Nicolò Ferracciu ed altri, con le loro polemiche vigorose, ben documentate – caratterizzate da spirito concorde e unitario, contro la pretesa di reggere la Sardegna con la logica dello stato d’assedio – diedero indubbiamente vita ad un dibattito di alto livello. Così si esprime Sotgiu, anch’egli convinto che l’isola fosse sottoposta ad un regime coloniale.
Solo pochissimi ancor oggi studiano o ricordano la sollevazione sassarese del 1864 – contro l’aumento del dazio di consumo del vino, sfociata in un assedio al municipio. Il moto fu guidato dal contadino Antonio Luigi Mura – detto Favarrusthu – e dal francescano Angelo Maria Garzia (che fu anche originale figura di poeta e pittore). Essi furono poi arrestati, al ritorno da Torino, dove si erano recati per presentare al governo le istanze della parte più umile della popolazione. Da quelle vicende prese decisamente le distanze il repubblicano Gavino Soro Pirino che giudicò il sommovimento come opera di una plebe ignorante, manovrata pressoché a piacimento dei gruppi locali della conservazione politica. Il 1864 sassarese invece è un momento in cui queste “plebi” dimostrano, come nel 1780, una capacità magari minima di organizzazione.
Alla luce di questa e di altre vicende si renderebbe indispensabile ricostruire la storia di una Sassari, in effetti, ribelle. Al riguardo una precisa ricognizione dovrebbe partire dal Medioevo, attraversare il Seicento, fare luce sul Settecento non solo angioiano, proseguire con l’Ottocento (la cacciata dei Gesuiti, la predicazione del Satta, il Vespro del 1852, la ribellione di Favarrusthu) per arrivare ai moti del pane del 1944. Allora vennero arrestati Enrico Berlinguer e Nino Manca che, in un suo libro documentato ed originale, esaminò, da testimone, quei drammatici momenti. Essi però non furono organizzati e diretti da quei futuri dirigenti del Pci. Me lo confermò, poco tempo prima di morire, lo stesso Nino (consigliere regionale per quattro legislature), secondo il quale all’organizzazione di quelle manifestazioni non fu estraneo il Partito comunista di Sardegna, fondato da Antonio Cassitta, Giovanni Antioco Mura ed altri (sulla breve vita di questa organizzazione si veda una stimolante monografia di Paolo Ignazio Pisu). Insomma bisognerebbe riprendere a indagare su una storia sommersa, negata, nascosta, cuada; in sassarese: cuadda.
E mancu male, viene infine da osservare, che storici, intellettuali “ufficiali” e giornalisti continuano a propinarci chiavi interpretative e paradigmi secondo i quali nel Settecento e nell’Ottocento, ma anche nel Novecento, Sassari e la Sardegna – viste come statiche, immobili, estrema periferia dell’Europa e del mondo – sarebbero rimaste del tutto esterne al grande fiume della storia!