Aree interne e comunitarismo in Sardegna (appunti su Paul Mason), di Enrico Lobina

Editoriale della domenica.

Nel 2016 è stato pubblicato in lingua italiana il libro Postcapitalismo, del giornalista ed economista Paul Mason. Mason parte dalla convinzione, che dimostra con una prospettiva storicista, che non viviamo in una fase di cambiamenti epocali, bensì in un cambiamento di epoca.

Le nuove modalità di creare valore, insieme alle nuove tecnologie, possono evolvere (questo sta all’agire umano) in un sistema economico e sociale postcapitalista, dove i bisogni degli esseri umani siano soddisfatti e dove con bisogni non si intendono i consumi indotti.

 

Il postcapitalismo non si impone con una vittoria alle elezioni, per decreto. E’ un processo molecolare, che può realizzarsi dall’alto, ma deve essere preparato, e magari partire, dal basso.

Il postcapitalismo fa i conti con la crisi irreversibile del neoliberismo (solamente Pigliaru e Paci sembrano non rendersene conto) e con il nuovo ruolo, nella catena del valore, dell’informazione. Se non avverrà un processo di privatizzazione, che a quel punto renderà mercantile ogni singolo aspetto della nostra esistenza (non solamente le relazioni di produzione), potremo vivere in un mondo non barbarico.

 

Le osservazioni di Mason mi tornano alla mente quando, come Fondazione Sardinia, abbiamo ripreso il tema dello spopolamento e delle aree interne. La Fondazione Sardinia se ne è occupata anni fa, quando il tema non era di moda come ora[1]. Molto è stato detto e scritto, molto sta venendo ripetuto.

Pochi dicono che si possono immaginare rattoppi, rammendi, creare immaginari, ammalarsi di “paesitudine”, ma in realtà il problema è il liberismo. E’ un modello di rapporto centro-periferia che emargina irrimediabilmente le periferie. Ed in Sardegna tra le periferie ci sono le aree interne. Le coste, a meno che non siano affette da servitù militari, si salvano, perché le coste, ancora per qualche decennio, sono un’area che può creare valore, sia mediante la rendita che mediante profitto pure. Le aree interne no.

 

Non è che, per salvare  le aree interne e salvare la Sardegna, dobbiamo immaginare forme di postcapitalismo?

C’è chi, in modo contradditorio e restando all’interno di coordinate da esso non stabilito, ci è riuscito. Nel mese di novembre ho visitato Marinaleda, un paese di circa 2.800 abitanti nell’Andalusia più profonda, tra Sevilla e Granada. A Marinaleda hanno fatto la rivoluzione, con l’occupazione delle terre del latifondo e con la vittoria alle elezioni del 1978, e non hanno mai smesso di immaginare e realizzare relazioni sociali ed economiche diverse da quelle capitaliste.

A Marinaleda hanno occupato delle terre inutilizzate, ed oggi 8 cooperative gestiscono ogni fase della produzione e commercializzazione. L’olio è il principale prodotto, ma ce ne sono molto altri.

Il comune ha dato una casa a tutti, ha puntato sull’istruzione e sullo spirito di comunità, sulla lotta antimperialista e sull’emancipazione collettiva.

Marinaleda funziona, è un esempio. Un esempio che in Sardegna non c’è, nonostante i tanti sindaci comunisti, ed in alcuni casi demoproletari, che i paesi dell’interno hanno avuto a partire dagli anni ottanta.

 

Marinaleda esiste ma nessuno ne parla[2], così come esistono autori (Eliseo Spiga, Placido Cherchi), che hanno immaginato soluzioni neo-comunitariste per la Sardegna, le quali non devono essere la riproposizione dell’arcadia, o la rimozione di una gigantesca questione urbana in Sardegna (Cagliari e la sua area metropolitana). Oggi e nei prossimi anni e decenni quelle elaborazioni possono servire a praticare in Sardegna forme di società postcapitaliste, in questo “mondo grande e terribile”, che sarà sempre più grande e sempre più terribile.

 

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