SINISTRA E POPOLO, di Antonio Polito

Nel saggio «Sinistra e popolo» (Longanesi), Luca Ricolfi sferza la sinistra, vittima della «superiorità morale» e dell’europeismo «giacobino», analizzandone la crisi.

Luca Ricolfi torna sul luogo del delitto, dove dodici anni fa, con il suo pamphlet Perché siamo antipatici, constatò il decesso dell’antico rapporto tra sinistra e popolo. Però stavolta invece che una sola vittima, e cioè la sinistra italiana spocchiosa, con il «complesso del migliore» e ossessionata dall’anti- berlusconismo, si trova davanti un’ecatombe: ovunque in Occidente «il popolo non trova più nella sinistra la sua naturale espressione politica», e un’altra offerta, detta «populista», è diventata per così dire più popolare. Perché?

Luca Ricolfi, «Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi» (Longanesi, pp. 288, euro 6,90)

Nel suo nuovo saggio (Sinistra e popolo, Longanesi) Ricolfi analizza molti possibili cause, con l’acribia e il gusto per la statistica che ne fanno uno dei più originali analisti della nostra società. Ma su due punti in particolare introduce nuovi e convincenti spunti di riflessione. Il primo è, come si sarebbe detto un tempo, strutturale: la sinistra si è infatti dimostrata perfettamente a suo agio nel dopoguerra in un habitat economico e sociale che non solo non esiste più ma potrebbe non esistere mai più. Il che non ci può far escludere che quella attuale sia anche una crisi finale: perché prima ancora di non sapere dove andare, la sinistra oggi non sa più dove si trova.

Il sociologo Luca Ricolfi (Torino, 1950)

«L’età dell’oro per le forze della sinistra sono stati i cosiddetti glorious thirty, i trent’anni di prosperità che vanno dalla fine della guerra alla grande recessione del 1974-1975». Anni di crescita rapida, più redditi, più consumi e più welfare. Fu un «miracolo», soprattutto nei Paesi usciti sconfitti dalla guerra come l’Italia. Quando però con la crisi petrolifera del ’73 e poi con l’avvio della competizione globale i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi emergenti cominciano a cambiare, esplode la crisi fiscale dello Stato, e inizia il lento ma inesorabile declino dell’Europa. Un po’ alla volta, soprattutto dopo l’ultima Grande Crisi, si diffonde tra la gente l’idea della «fine della crescita». Le nostre società un tempo opulente diventano «a somma zero», per dirla con Lester Thurow: «A fronte di qualcuno che vince c’è sempre qualcuno che perde, perché la torta da spartirsi è limitata e non aumenta nel tempo». Si fa strada la disperata convinzione che i figli avranno un futuro peggiore dei padri. Ma in un clima così, di «stagnazione secolare», può avere ancora un senso la sinistra? In un tempo in cui nessuno crede più che la crescita possa tornare a finanziare il welfare, la grande protezione sociale che la sinistra garantiva al popolo, che ruolo ancora può svolgere?

Si parlerà del libro a Tempo di libri sabato 22 aprile alle 15.30 (Sala Courier – Pad. 2), nell’incontro con lo stesso Luca Ricolfi, Giuliano Pisapia, Marco Damilano

Anche perché il bisogno di «protezione» che avvertono i ceti popolari, lungi dall’affievolirsi, si è piuttosto indirizzato contro ogni forma di competizione che venga dall’esterno. E quindi chiede cose che la sinistra non può dare, perché la sua cultura nega alla radice proprio l’esistenza dei pericoli da cui quel bisogno nasce. Lasciamo la parola a Ricolfi: «La gente pensa che gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che la diversità è un valore. La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che l’Europa non è il problema, ma la soluzione. La gente pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le spiega che non si tratta di una guerra, che l’Islam non c’entra nulla, e che anzi gli attentati potrebbero essere una preziosa occasione per riprendere la costruzione dell’edificio europeo».

Ma perché la sinistra, letteralmente, non vede il problema? Perché in entrambi le accezioni, quella «riformista» e quella «radicale», non ascolta il popolo, come farebbe qualsiasi movimento appena un po’ pragmatico, e come fanno tutti i movimenti «populisti»? È la seconda domanda cruciale del libro. E qui si torna all’antico vizio del «complesso dei migliori», alla convinzione cioè di rappresentare la «parte migliore del Paese», oggi anche più benestante, che fa chiudere gli occhi di fronte a quella ritenuta peggiore, ma sicuramente più sofferente.

Per spiegarne le origini profonde, Ricolfi sferra un attacco frontale a due mostri sacri, che non mancherà di far discutere. Il primo è Norberto Bobbio, e il suo fortunatissimo Destra e sinistra. In quel libro, scrive l’autore, si fissa il paradigma della «superiorità morale», identificando la sinistra con l’uguaglianza e la destra con l’ineguaglianza (e di fatto nascondendo il prezzo che il mito dell’eguaglianza inevitabilmente paga alla libertà, ben spiegato invece da Friedrich von Hayek). Assegnando infatti alla sinistra un valore (l’uguaglianza) e alla destra un disvalore (la disuguaglianza) si costruiscono «le radici teoriche del disprezzo» verso chi non è di sinistra. Gli egualitaristi, scrive Kenneth Minogue, «vogliono far passare l’idea che chi non appoggia l’egualitarismo dev’essere per forza un sostenitore dell’anti-egualitarismo… così l’egualitarismo non è solo una dottrina: è anche un atteggiamento di autogratificazione».

Il secondo colpo è rivolto al celebratissimo Manifesto di Ventotene, scritto nei primi anni Quaranta da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, assurto a bibbia del federalismo europeo, di cui Ricolfi, in una velenosa coda in appendice al libro, denuncia il carattere datato e «giacobino», al punto da imputare i fallimenti dell’Europa non al fatto di aver abbandonato quell’utopia ma piuttosto di averla inseguita troppo.

Comunque la si pensi, ancora una volta Ricolfi riesce insomma a farci venire in mente idee che non condividiamo (citazione da Altan). Mette in crisi il truismo secondo il quale la sinistra è nei guai per l’ascesa del populismo, dimostrando invece che il populismo ha cominciato a crescere e la sinistra a declinare ben prima della crisi e per ragioni più profonde. E rafforza così in noi il sospetto che le cose siano piuttosto andate al contrario: è la crisi storica, e forse irrimediabile, della sinistra ad aver reso possibile e vincente la rivolta «populista» che oggi la travolge.

Il correre della sera, 6 aprile 2017

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