Isis e gruppi jihadisti Il terrorismo è finito? di Marta Serafini
Un saggio di una ricercatrice italiana, Benedetta Berti, edito da Mondadori guarda la nascita e la crescita di Isis da una prospettiva diversa. «Lo Stato Islamico è un cartello, agisce come uno pseudoesercito»
Il terrorismo – ossia l’uso indiscriminato della violenza contro i civili – è una tattica adottata spesso nel corso della storia dai gruppi armati o dai governi. Eppure oggi con l’aumento degli attacchi di matrice jihadista assistiamo all’aumento della paura e dell’insicurezza. Non importa quante persone muoiano o quanto sia panificato l’attacco. Il terrore, appunto, destabilizza e muta il corso della storia dei paesi europei. Facile allora guardare al Medio Oriente o ai teatri di guerra per dare una spiegazione del fenomeno. «Ma liquidare tutto questo adottando come strumento solo la violenza politica è un errore in cui non dobbiamo incappare», spiega Bendetta Berti, autrice di «La fine del terrorismo» (Edizioni Mondadori) e ricercatrice del Foreign Policy Research Institute e del Modern War Institute di West Point.
Da dove dobbiamo partire allora, per spiegare e fermare il terrorismo?
«Dobbiamo allargare il punto di vista. Due tasselli fondamentali sono la governance e i finanziamenti. Per parlare di terrorismo dobbiamo parlare di politica, guerra e di soldi. Solo così riusciamo ad avere una prospettiva completa. Se pensiamo all’Isis, proprio il discorso dei finanziamenti ci costringe a rivedere la definizione di gruppo terroristico. Nel caso dello Stato islamico, che è un’organizzazione transnazionale, il flusso di denaro è vitale per tenere in piedi questo cartello».
Quindi Isis non è solo morte e distruzione…
«Gli attacchi contro i civili sono uno dei tanti strumenti nella loro cassetta degli attrezzi strategica e politica, perché spesso queste organizzazioni sfruttano anche tattiche insurrezionali più ampie. Il modo in cui le forze dello Stato Islamico sono state organizzate, istituzionalizzate ed equipaggiate conferma la tesi secondo cui il gruppo vede se stesso e cerca di agire come “pseudoesercito” piuttosto che come un semplice gruppo ribelle.
E’ solo isis ad aver seguito questo modello?
No, in un certo senso anche Al Nusra (ora Al Sham) in Siria ha seguito questa evoluzione. Il gruppo è partito da un’associazione che contava soprattutto sul terrorismo e si è trasformato in gruppo insurrezionale complesso, sempre investendo sulla creazione di alleanze e di capacità amministrativa».
Nel suo libro sottolinea come anche la componente femminile del terrorismo sia stata sottovalutata e poco compresa.
«Assolutamente. Questo è un altro errore in cui siamo incappati che rischia di portarci parecchio fuori strada. Anche su questo fronte serve una nuova prospettiva. Nello studio dei conflitti tendiamo a usare approcci polarizzati che ci portano a considerare tutti i civili come vittime, soprattutto nel caso delle donne. Ecco, con Isis abbiamo visto che non è così. Anche le donne hanno un ruolo. Devono stare in casa, non hanno diritti e non combattono. Ma abbiamo visto come siano state usate per fare propaganda, un compito fondamentale nello Stato Islamico. Pensare di spiegare poi la partenza di centinaia di donne dall’Europa con un “sono andate a cercarsi un uomo” è sicuramente riduttivo e fuorviante».
Come si ferma tutto questo?
«Dobbiamo iniziare ad andare a ricercare le cause (e le soluzioni) nel contesto geopolitico e sui teatri mediorientali. Il che non significa sottovalutare l’importanza dell’antiterrorismo in Europa o degli strumenti di repressione. Inoltre è necessario che i governi occidentali adottino approcci preventivi che tengano conto dell’apporto di tutta la società civile».
Il correre della sera, 19 marzo 2017