Specchio di idealità passate e di (grette) incomprensioni attuali le vicende dei monumenti a Cagliari. Focus sul busto dettorino di Dante Alighieri di Gianfranco Murtas

 

Prendendo lo spunto da un rapido passaggio del discorso tenuto, mesi addietro, dal presidente del Consiglio comunale di Cagliari Guido Portoghese, pubblicato nel sito internet del Municipio e volto a ricordare il rapporto vissuto da Grazia Deledda con il capoluogo sardo (dove ella visse, nel 1899, per alcuni mesi celebrati tanto nel postumo Cosima quanto in alcuni versi poetici che gli Amici del libro hanno fissato nel bronzo collocato sui tornanti del viale Europa), scrissi del busto, pure cagliaritano, di Dante Alighieri.

Sapevo dall’amico Paolo Bullita e da altri della vergognosa cattività cui le giunte Floris e Zedda avevano costretto per tredici lunghi anni quel manufatto centenario in un buio magazzino del Comune, e m’ero permesso di lanciare un appello al presidente Portoghese perché spendesse la sua autorevolezza istituzionale, dopo il sonno di tanti, per restituire vita pubblica a quell’opera d’arte. Gli uffici della toponomastica, della viabilità, della protezione dei beni culturali del Comune di Cagliari – sindaco prima il forzista poi il comunista (ahimè s’è visto non essere il colore politico a trasformare il cattivo governo in buon governo) – non si erano rivelati attenti, al dunque, neppure al poco altro, veramente minimale, che avevo segnalato con visite personali (alla Vetreria), con scritti e perfino con dossier di documentazione. Ad esempio sulla data sbagliata apposta sulla base del busto di Giuseppe Verdi, in piazza Matteotti – 1911 invece di 1901 –, o sul nome Francesco invece che Giuseppe sulle lastre marmoree della via Todde, nel quartiere di San Benedetto. O ancora sul nome Giovanni invece che Giuseppe sulle targhe pirresi della via Medas (si trattava dell’avvocato originario di Narbolia, eroico antifascista ed antiburgundo, resistente della famiglia politica azionista, finito con altri otto sardi nelle Fosse Ardeatine). Non dico poi – perché le sollecitazioni in ogni sede (anche le più alte nell’arco di un trentennio!) saranno state una decina – sulla doverosa, e ancora mancata, intitolazione di una strada, anzi due strade, a due padri della patria che per essere stati militanti di formazioni di minoranza non di meno hanno dato testimonianza ed onore alla democrazia repubblicana ed autonomistica: Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis. Nella galera antifascista furono insieme, nel 1928, l’uno venticinquenne, l’altro ventitreenne. Anche Gramsci, di qualche anno più grande, era a San Vittore, allora.

A dir di Todde e di Verdi

Quel giurista-economista del giro di Francesco Ferrara e dei grandi studiosi italiani e stranieri del post-Risorgimento, quel professore che fu rettore della nostra università nel biennio 1888-1890 – giusto quando Bacaredda assumeva la prima sindacatura di Cagliari! – e anche presidente della Banca popolare cooperativa operante nel capoluogo a fine secolo XIX, quel nume richiamato, invero non senza sottile polemica (con Loru temuto codino reazionario e contro Fulgheri il progressista cattaneano), da Giuseppe Dessì nel suo Paese d’ombre villacidrese e che, proprio a Norbio, nel 1882, aveva ospitato nella sua casa nientemeno che Gabriele d’Annunzio, Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella insieme con Ranieri Ugo, mai forse avrebbe immaginato di diventare un giorno del tutto sconosciuto nella sua città d’adozione. La sua tomba monumentale, opera dal Sartorio, al camposanto di Bonaria, è una delle più riprese dagli scatti fotografici e dai filmati televisivi ed amatoriali, celebrata in internet (anche nei siti del Comune!). Dei suoi rapporti col Ferrara e dei suoi scritti su L’Economista, alla vigilia dell’unità d’Italia, scrisse a suo tempo (1979, 1990, 1991) il compianto prof. Giampaolo Pisu, ed una bella biografia ed altri studi gli ha dedicato il prof. Pietro Maurandi (1986, 1997), valorizzando i saggi pubblicati sull’apripista Eco dei comuni della Sardegna del Fulgheri, consigliere provinciale di Cagliari e grande nome dell’invocato associazionismo proprietario in chiave di sviluppo modernizzatore dell’agricoltura nell’interno isolano… Eppure, divenuto sconosciuto al tempo dell’avara – poche e generiche righe – delibera civica (del 1950) e rimasto tale al tempo delle mie inutili segnalazioni al competente ufficio del Municipio.

Io immagino che l’errore sia nato da chi aveva nell’orecchio il nome di Francesco ToddeDeplano, l’impresario che fu anche assessore comunale prima dell’amministrazione Bacaredda, il quale legò il suo nome ad alcune ipotesi di riassetti viari della città, fra la piazza del Carmine e la nuova via Roma, ed anche al rovinoso (e mortale) crollo del cantiere che avrebbe lasciato il posto, nel 1901, al bellissimo palazzo Chapelle. Ma non di Francesco ToddeDeplano bensì di Giuseppe Todde doveva trattarsi, specchiandosi la memoria di quest’ultimo, nella toponomastica di quartiere, con la buona compagnia dei coevi Cocco Ortu e Salaris, Costa e Pais e Lai (professore e deputato e anche fra i fondatori de L’Unione Sarda), ecc.

Quel che avevo proposto era stato minimale davvero: non il cambio della intitolazione della strada, fonte sempre di problemi pratici nella correntezza amministrativa, ma soltanto la rettifica del nome di battesimo della personalità celebrata. Via Todde sarebbe rimasta via Todde, per il postino e per il messo comunale. Ma se non si fa il poco si potrà mai pensare al molto? Magari ad avere un archivio storico comunale riaperto dopo sei mesi di arresto dell’attività, perché la pioggia è entrata in un modernissimo edificio (costato alle casse pubbliche un occhio della testa) ed ha bagnato le carte dell’Otto-Novecento?

Direi poi di Giuseppe Verdi. Tante suggestive fotografie seppiate dello squarebacareddiano fra il porto e la stazione ferroviaria riproducono quel busto bronzeo opera di Giuseppe Boero (giovane cagliaritano fra i migliori allievi, a Roma, di Ettore Ferrari), collocato lì nel dicembre 1901, alla fine dell’anno che s’era aperto, a gennaio appunto, con la notizia della morte del grande musicista. Il comitato promotore di quell’opera, immediatamente costituitosi, affidò la presidenza a Marcello Vinelli, docente universitario e già direttore (23enne all’esordio!) de L’Unione Sarda. Raccolta di fondi, commissione del lavoro, dono all’Amministrazione comunale nelle mani del sindaco pro tempore Giuseppe Picinelli, discorsi e applausi. A Verdi poi si intitolò, e resse decine di anni, una società musicale/corale (e di mutuo soccorso), in città, con bellissima sede nel viale Regina Margherita. La tradizione, direi la competenza musicale dei cagliaritani fu lei ad accompagnare nel tempo le esibizioni dei cantanti e del coro, oltre che dei pianisti o trombettisti…

E’ credibile che fra febbraio e maggio 1943, quando Cagliari venne sepolta dalle bombe, sì liberandoci dai fascisti ma anche uccidendo massivamente tanti innocenti e distruggendo case e chiese e strade, cadde dal suo piedistallo anche quel busto. E allorché si provvide a risistemarlo sulla sua base, e si trovarono sparse qua e là le lettere metalliche della dedica, ci si confuse e il 1901 divenne 1911. Sull’errore non può esservi dubbio, perché – ripeto – sono numerose le fotografie che presentano la pietra con il suo bronzo così com’erano stati per oltre quarant’anni.

Il busto di Giovanni Bovio

E’ poi noto che neppure un lustro dopo la collocazione del monumento al compositore di Busseto, lo square accolse – spalle a quest’ultimo e faccia al prospetto della stazione ferroviaria, giusto sul filo del laghetto – il busto di Giovanni Bovio.

Filosofo del diritto all’università di Napoli e drammaturgo, questi fu il capo rispettato del repubblicanesimo italiano dopo la morte di Giuseppe Mazzini, nel 1872. Fu a lungo anche deputato e, con Cavallotti per i radicali e Costa per i socialisti, il leader delle formazioni popolari d’opposizione ai governi trasformisti, e poi a quelli crispini e giolittiani nel passaggio di secolo. Un’autorità morale riconosciuta tale anche dagli avversari, e benemerita, con la croce bianca (insieme con il nostro Efisio Marini!) nei soccorsi ai colerosi napoletani degli anni ’80. Legato per molte ragioni alla Sardegna – lui che, assurto al rango di grande oratore della Massoneria nazionale, venne iniziato libero muratore in una loggia pugliese che si intitolava a Caprera – fu il referente di quei… numerosi pochi che gli si rivolgevano, da Cagliari, perché protestasse con il governo ogni volta, ed era cosa puntuale, che un delegato di polizia impediva a studenti ed operai mazziniani, garibaldini e socialisti perfino di celebrare, al monumentale di Bonaria, i loro Santi, addirittura sottraendo le corone dedicatorie colpevoli di portare nastri rossi… Fu richiesto, Bovio, di onorare con le sue celebri epigrafi personalità come Giovanni Battista Tuveri o come Vincenzo Brusco Onnis – se ne vedano i marmi al monumentale di Bonaria – e nel 1902, alla nostra università, anche Efisio Marini, il celebrato medico pietrificatore dei cadaveri. Di quest’ultimo fu amico negli anni della lunga residenza napoletana, e bene ne ha reso i tratti anche l’ottimo Giorgio Todde, in uno dei romanzi della sua saga mariniana.

Quando morì, nel 1903, repubblicani e massoni cagliaritani organizzarono una raccolta fondi per venerarne la memoria con un monumento grande una volta e mezzo il naturale. Quel busto in marmo bianco fu collocato nello square nel maggio 1905 con una grande cerimonia, che concludeva una laica processione (con 500 partecipanti, e bande musicali e molte bandiere associative) partita da palazzo Valdés – dov’era la sede repubblicana – ed attraversante la via Manno, il Corso, la via Sassari.

Sono state pubblicate più volte, anche da me in qualche volume (fra essi, Cagliari 1905), le foto che ricordano i comizi che l’associazione dei Martiri del libero pensiero: Giordano Bruno tenne, fra il 1908 e il 1911-1912, con la presenza anche di Antonio Gramsci allora liceale, e certamente con gli infuocati discorsi anticlericali del giovane Renato Figari. L’erma boviana è visibile, nella sua sobria solennità ed accanto ai ficus retusa, agli araucaria ed alle conifere della piazza chiusa da eleganti cancellate, in mezzo a quei giovani idealisti e generosi.

I fascisti – questo s’è dato per probabile dallo stesso professor Nicola Valle – abbatterono (e prima sfregiarono) quel monumento forse qualche anno prima della guerra. Di esso non si è  trovato mai più traccia. Fortunatamente la loggia massonica intitolata a Sigismondo Arquer, che aveva sede nella parte bassa della via Barcellona, possedeva fra le sue suppellettili d’arte, oltre a quelli di Garibaldi e Carducci, anche il busto di Bovio, nel duplicato in gesso pesante realizzato, si immagina, in contemporanea a quello nobile. Certo è che tale busto compare negli elenchi degli arredi e delle dotazioni museali e d’arte della loggia stesi nel 1910. Molta parte dei beni mobili e di valore trovati al primo piano di quel settecentesco palazzo Fulgher che era di proprietà della Congregazione del SS. Sacramento nella Marina fu sequestrato dai questurini fascisti nel novembre 1925, quando essi perquisirono e, si disse, saccheggiarono la sede, tanto nella parte rituale – il Tempio, i Passi Perduti ed il Gabinetto di Riflessione –  quanto in quella associativa/fraternale comprensiva anche dei salotti e della sala biliardo.

Furono l’avv. Luciano Marrazzi, presidente dell’Associazione Mazziniana di Cagliari, e Bruno Josto Anedda – lo scopritore dell’inedito diario politico di Asproni e al tempo segretario regionale repubblicano – a scoprire il manufatto in un tristissimo magazzino comunale, dove evidentemente erano finiti alcuni dei pezzi sottratti dalle grevi forze del regime agli onorati locali di via Barcellona. Essi ne chiesero il recupero al sindaco Paolo De Magistris, che fu lietissimo, da gentiluomo e colto amministratore quale era ed è rimasto nel ricordo di tutti, di concederlo. Mi pare fosse il 1969.

Oggi esso è tornato a casa, perché i repubblicani lo hanno a loro volta restituito alla casa massonica, dove fa bella mostra di sé una volta all’anno ai cittadini in fila per visitare palazzo Sanjust in occasione di Monumenti Aperti, e per ricordare ogni settimana ai militanti delle logge locali che se non pensano in grande, amando la democrazia e lo spirito critico ed indipendente, senza indulgenza alcuna al semplicismo dei plebiscitari chiassosi di fuori (capaci perfino di confondere i Fratelli d’Italia dei parafascisti d’oggi con i mameliani del Risorgimento patrio!), non hanno diritto alcuno di incrociare lo sguardo severo di un’anima magna come è stata Giovanni Bovio.

Ai due palazzi Picchi, Garibaldi all’Operaia e frate Giordano alla rotonda

In più occasioni ho ricordato come la cultura nazionale, tanto sul fronte liberale o liberal-monarchico quanto su quello democratico-repubblicano puntò, nel postRisorgimento, ad affidare alla cosiddetta pedagogia della statuaria un certo bilanciamento al dottrinarismo confessionale, che era devozionale oltreché ideologico, del clero o della Chiesa. Se il monumento alla Immacolata Concezione s’ergeva solenne, dal 1882, al centro della piazza del Carmine, anche quando questa si intitolò al 27 marzo (volendo con quella data ricordare il voto parlamentare di palazzo Carignano perché Roma fosse un giorno quel che era nelle attese patriottiche, la capitale d’Italia cioè), e se tutti e quattro i quartieri storici di Cagliari presentavano ciascuno una decina almeno di edicole pubbliche con i quadri della Vergine o dei Santi canonizzati, da parte dei laici si rispondeva con le lapidi (vedi quella a Cavallotti nella via Manno) o con i busti dei Santi della coscienza nazionale così come del libero pensiero. In essi la cittadinanza doveva scorgere i corifei del bello e del buono e del vero civile, insomma dei valori dell’Italia millenaria eppur nuova nell’ordinamento unitario, che avanzava nel concerto delle patrie europee.

Così da palazzo Picchi – sui due palazzi Picchi costruiti nel fianco sinistro della chiesa carmelitana del viale San Pietro – s’affacciavano i grandi della epopea risorgimentale: (da destra a sinistra) Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini, e altre figure ancora. Fra esse Dante, buon padre Dante, primo dei tre ulteriori effigiati (al momento ancora non identificati gli altri due, sul cornicione del palazzo Picchi-Basso, fra gli attuali viale Triente e via Caprera: ho fatto ricerche prolungate e sulle carte d’archivio e dell’emeroteca ed interrogando storici dell’arte autorevoli della città, ed anche i discendenti degli antichi proprietari. Non sono venuto a capo di nulla; molte le ipotesi, nessun riscontro). Resta comunque il fatto, resta l’episodio che s’inserisce appunto in quella pedagogia della statuaria, confermata anche da un Garibaldi nella Società Operaia della via XX Settembre, di cui ho detto prima.

E così arriviamo al 1913. A luglio Dante, ancora lui, a settembre Giordano Bruno. Alle vicende, anzi alle vicissitudini di questo secondo monumento ho dedicato, più di dieci anni fa, un libro intero (Dei circoli anticlericali e del monumento a Giordano Bruno, nella impostata collana Sodalizi ed istituzioni della Cagliari bacareddiana) e, tre anni fa, anche una serata di proiezioni e discussione giusto a palazzo Sanjust, circostanza propizia altresì a presentare una trentina e più di caricature dei massoni cagliaritani d’inizio Novecento. Perché il busto bruniano fu voluto soprattutto dai massoni e con essi, però, anche dal diffuso anticlericalismo militante, non soltanto partitico (repubblicani, radicali e socialisti) ma anche giovanile e studentesco – quello cosiddetto dell’Avanguardia –, assai attivo nei primi del secolo. Significativamente esso fu donato all’amministrazione Bacaredda, per cui intervenne l’assessore Pernis – che era stato (ed ancora era) uno dei dignitari leader della loggia Sigismondo Arquer –, nella data celebrativa del 43° anniversario della breccia di Porta Pia.

Al Civico di palazzo Zapata pronunciò la più laica delle omelie l’avv. Antonio Giuseppe Satta Semidei – uno dei fondatori dell’Associazione Democratica e di cento altre cose – così come, otto anni prima, dalla stessa tribuna aveva pontificato per Bovio il giovane repubblicano Matteo Spano. Il discorso pro Verdi era stato invece pronunciato, in piazza, dallo stesso presidente del comitato, Marcello Vinelli.

Quel corrucciato fra Giordano, davanti a cui molte vecchiette di Castello scendendo e risalendo dalla porta dei Leoni si segnavano devote e impaurite e i buoni canonici della cattedrale e del Tridentino sobbalzavano intristiti forse per il mestiere delle antiche fiamme dell’Inquisizione, fu lestamente (e clandestinamente) insaccottato dai fascisti nel 1926, liberato nel 1928 per essere collocato nell’atrio universitario, portato nel 1946 all’ex collegio dei Nobili (governato nel Seicento dai gesuiti) e ancora trasferito a sa Duchessa, fra le dotazioni della facoltà di Lettere ivi insediatasi nel 1960 (provenendo appunto dalla ventennale sede di via Corte d’Appello).

Grazie ad una pubblica raccolta di fondi promossa dagli stessi studenti e con donazione finale al Comune che aveva offerto l’area pubblica, venne realizzato anche il busto di Dante Alighieri, opera dello stesso scultore che predispose l’erma bruniana: Antonio Bozzano.

Dante, Dante, Dante

E’ nel tardo pomeriggio di giovedì 24 luglio che qualche centinaio fra studenti e professori del liceo-ginnasio, loro colleghi delle altre scuole cittadine con la bandiera d’istituto, autorità del Municipio e della Provincia e cagliaritani quidam, sparsi o in associazione, si assembrano, per la gran cerimonia dello scoprimento, nella piazzetta Dettori, lo slargo che collega la via Principe Amedeo e le scalette di Santa Teresa (così si intitolava la chiesa che sarebbe diventata Auditorium) alla matrice stradale di basso: dal vico Collegio, che arriva da levante, alle parallele vie Sant’Eulalia e Barcellona orientate in direzione del porto, alla via Dettori nell’inoltro verso il Largo e Stampace. Moltissime persone assistono dalle finestre e dai balconi degli edifici d’intorno.

Cuore del cuore della Marina, quel compendio – chiesa e collegio – si porta addosso una storia almeno due volte secolare. Forse non tutti hanno piena conoscenza dei dettagli, ma certamente tutti conoscono, direi intuitivamente e per i racconti proposti da qualche anziano testimone diretto o indiretto, il peso e il valore di quell’antica ed austera edilizia religiosa: di fianco alla chiesa (già dismessa al tempo del can. Giovanni Spano che la descriveva ancora però con le sue colonne e i capitelli corinzi, i due maestosi cappelloni e le grandi tele, gli altari laterali con altri venti o trenta dipinti originali, e la sagrestia che era stata anch’essa una vera pinacoteca sacra) è la ex casa professa dei seguaci di Sant’Ignazio di Loyola. Essa s’era fatta più volte teatro dei più accesi contrasti fra l’anima religiosa e tutta corporativa dei gesuiti, monopolisti dell’educazione scolastica, e quella civile della popolazione così come dell’ordinamento regio e poi (nel 1848) costituzionale. In tempi più remoti era stata testimone dell’umiliazione imposta dal papa Clemente XIV, nato francescano conventuale, il quale aveva decretato (era il 1773) la soppressione della Compagnia in tutto l’occidente cattolico (ed anche, per conseguenza, la chiusura, a Cagliari, dei tre presidi di Santa Croce, San Michele e, appunto, Santa Teresa).

Divenuto scuola di lettere latine affidate a preti secolari, così per tre lustri prima della Rivoluzione e fino al 1822, quel palazzotto era tornato ad essere, appunto in quell’anno che aveva visto la resurrezione della Compagnia, il quartier generale dei padri, luogo di studi severi e selettivi e di disciplina formativa. Nel 1848 la nuova e violenta cacciata dei religiosi aveva aperto una nuova stagione: era sorto il collegio reale, statale cioè, scuola onnicomprensiva diremmo oggi, con i corsi delle elementari, delle grammaticali, del secondario e della filosofia. Fu reso attivo, allora, anche un gabinetto fisico ben attrezzato. Nel 1859, infine, venne costituito il liceo-ginnasio, ma lì studiarono anche i bambini delle primarie ed i ragazzini delle scuole tecniche.

Questa la storia del plesso, storia anche e soprattutto di vissuti personali e collettivi, di giovani e di docenti, di famiglie e di religiosi associati.

Poggiato su un piedistallo in marmo di Pietrasanta, sopra due gradini di pietra sarda di Serrenti, il busto di Dante, ancora coperto da un gran telo candido, s’alza su uno sfondo di palme e querce, alla sinistra dell’ingresso del caseggiato. Tocca a due studenti, in rappresentanza dei loro colleghi, togliere il drappo e mostrare a tutti l’opera. Squillano in quel momento le trombe della banda cittadina e s’alza l’applauso prolungato di tutti. La scena è cinematografica: perché in quel momento chi ha in testa un cappello o un berretto si scopre, e così sono le chiome, insieme con le fronde degli alberi e le numerose bandiere presenti, ad agitarsi per il vento che rinfresca la sera. E’ ben leggibile la dedica: «Al – Divino Poeta – Gli studenti liceali 1912-1913».

S’appresta a parlare il professor Liborio Azzolina – 42 anni, origini siciliane in Piazza Armerina, a Cagliari ormai da due anni (qui farà famiglia e resterà fino alla morte), docente di lingua e letteratura italiana e libero docente (all’università di Palermo, poi di Cagliari, e anche straordinario della facoltà di Lettere, dantista di competenza ed autorità). Tocca a lui pronunciare il discorso ufficiale, e dopo lui, nella tribunetta allestita accanto al monumento, è il preside Leonardo Bruni a dire qualche azzeccata parola, sottolineando il proprio orgoglio di educatore «di giovani che tanto alto hanno in sé il sentimento dell’Arte, del bello, del grande e del buono».

Delegato dal sindaco Bacaredda interviene poi l’assessore Carlo Aru, archeologo e storico di professione, sensibilissimo dunque all’evento e alle sue motivazioni: «La città è grata ai giovani studenti – egli sostiene – per aver essi con ammirabile forza di volontà, con fede ed entusiasmo voluto fregiarla del monumento» che, a nome di tutti, prende in consegna.

L’avvocato Virgilio Cugia, rappresentante della locale sezione della Dante Alighieri (di cui è presidente l’on. Enrico Carboni Boy), aggiunge qualche considerazione, tanto più sulla vocazione nazionale e pedagogica del sodalizio attivo a Cagliari già dalla fine dell’Ottocento.

Un’ora, poco più, fino al tramonto. E’ festa per tutti, scrutini ed esami hanno appena concluso l’anno scolastico. Ne verrà, tranquillo, soltanto un altro. Poi, in crescendo, sarà un’altra aria. Giusto nell’estate 1914 s’apriranno le ostilità della guerra continentale, e nella primavera del 1915 in molte case cagliaritane arriverà la cartolina del richiamo in armi di qualche proprio giovane, sovente dello stesso capofamiglia. Nel febbraio 1916, poi, una tragedia tutta interna alla scuola: il suicidio del giovane professore di fisica Guido Algranati, che a Cagliari, dalla sua Toscana, aveva voluto venire ad insegnare ma non aveva saputo fronteggiare certi scapigliati delle sue classi…

Degli anni immediatamente successivi abbiamo, del Dettori, numerose testimonianze volte ora al racconto autobiografico ora alla rappresentazione del prevalente spirito pubblico, del sentimento diffuso. Ricorderei fra il molto, le pagine di Francesco Alziator (anche quelle di Attraverso i sentieri della memoria) e quelle di Gustavo Piu (direi soprattutto Un magistrato racconta, Cagliari, 1977). Ma in generale sulle vicende secolari della scuola un doveroso rimando merita il celebrato Annuario 1959-1960 curato dal professor Danilo Murgia (ed ampiamente recensito da Alziator su L’Unione Sarda nel dicembre 1960), così come – opera deliziosa nella voluta modestia anche grafica – un apprezzamento sembra doveroso verso Santa Teresa in Marina. Storia di un antico convento e delle scuole in esso ospitate, curato nel 1993 dalla media Manno (con ingresso in via Collegio) sotto la guida della preside Enrica Figus.

Azzolina, l’erma e la critica de L’Unione Sarda

E’ tutto rivolto agli studenti il discorso del professor Azzolina. Egli sa bene – ché è mestiere suo insegnare la Commedia in quanto materia curricolare – che i ragazzi si trovano, cantica dopo cantica, impegnati per anni attorno alle terzine del Poeta, ma più ancora attorno o dentro il suo mondo, che fu agitato per l’anima politica di chi sarà costretto all’esilio e anche per le fatiche proprie, ideologiche, della sua composizione maggiore e delle altre. «Non è ingombro inutile o superfluo ornamento il profilo marmoreo di Chi diede unità e vigore al nascente e incerto volgare italiano, specie se posto quasi genio tutelare presso il tempio degli studi severi, che sopra tutti formano la gioventù al culto delle gloriose tradizioni patrie, all’amore della grande Italia. I monumenti dei sommi, dei veri eroi dell’umanità, furono sempre e ovunque scuola di virtù civili, nobile ed efficace esempio di azioni generose…», dice Azzolina, che poi subito aggiunge:

«La gioventù sarda deve più di ogni altra mirare alla sua elevazione morale e intellettuale, se vuole che la sua terra, favorita da mille incanti della natura, si redima oramai e s’innalzi nel concetto degli uomini. Voi, che avete voluto onorare con questo marmo il sommo Poeta, considerate, o giovani, l’alto significato del fatto compiuto. Dante lo abbiamo nell’anima – a Dante sono stati innalzati troppi monumenti, dicono quelli che lo considerano o soltanto il poeta di Francesca, di Farinata, del conte Ugolino, o la Minerva oscura che riporta ad altre maniere di pensare, di sentire, di rappresentare; a tempi che furono. Ma v’ha di più.

«Raramente come nel grande Fiorentino l’uomo, il cittadino, il moralista, il poeta armonizzarono in un’individualità perfetta, senza irregolarità, senza ombre. In Dante, l’uomo mirò alla propria elevazione nelle plaghe radiose di un puro ideale; il cittadino intese al bene comune, alla salute della patria divisa e minacciata; il moralista seguì la vita luminosa della virtù, indicandola agli altri smarriti fra le tenebre del vizio; il poeta diè forma ad una estatica visione di redenzione umana, universale.

«Dante negli studi cercò il suo vital nutrimento e nei maestri ripose la sua venerazione; per la patria usò le armi, esiliò Guido Cavalcanti l’amico suo più caro, sfidò le ire di Bonifacio VIII; alla difesa del suo onore sacrificò la gioia di rivedere ancora una volta il suo bel San Giovanni e al trionfo della verità immolò agi e conforti; dell’arte conservò un culto profondo sino alla fine estrema, pari a quello che ebbe di Dio e delle sue beatitudini eterne.

«La vita di Dante fu tutto un progredire verso la perfezione… fu tutta un’ascensione dall’interesse personale al bene sociale, umano, ammaestramento e consiglio a quanti non vorrebbero veder al di fuori del proprio io; fu tutto un sacrificio per il benessere e per la grandezza della patria, monito solenne agli infingardi e ai mestatori che si consumano nell’inerzia e nella viltà, in maneggi loschi e sediziosi.

«E quale modello più perfetto potrebbe offrirsi ai giovani, nel tempo che essi sono incalzati assai più dalla curiosità di sapere, dal bisogno di sentire, dall’impazienza di operare? Egli è un modello che ci parla con l’opera sua e più con la sua Commedia, se letta ed intesa senza le storpiature e i deliri dei mille commentatori…».

Andando quindi verso la conclusione: «Vero è che Dante soprattutto fu uomo del suo tempo e che l’opera sua compendiò il Medio Evo; ma non è vero che noi esageriamo e fomentiamo un cieco fanatismo onorandolo sempre più col mutar dei tempi. Tutti i grandi poeti hanno alcun che di eterno, che oltrepassa i limiti angusti della loro epoca e sovrasta luminoso nei secoli. Ma Dante nel suo petto di fiorentino dugentista sentì palpitare tutta l’anima italiana come smaniosa di libertà così avida di grandezza. E se sino al nostro Risorgimento politico parve l’antesignano di ogni moto che andasse a scuotere il giogo straniero, oggi che l’Italia imprende forte e fiduciosa il cammino della conquista prosperosa e civilizzatrice, parrà voce fatidica che consiglierà di persistere e di progredire sempre, persuaderà a non tergiversare, a non transigere, a non piegar mai… Dante fu un ammiratore dei forti caratteri, ed egli fu un carattere adamantino. Insidiato, perseguitato, costretto a scendere e a salir per l’altrui scale, a bere sino in fondo in un calice amaro, non deviò mai dalla vita scelta, non perdette mai di vista la meta prefissa; non seppe avvilirsi, non seppe mentire; disse tutto, senza esitazione, lasciando pur grattar dov’era rogna, e tenne che il suo grido fosse come vento…

«Oggi all’Italia occorrono forti caratteri, coscienze indipendenti, cuori arditi… Ed è a tale riguardo, o giovani, che acquista un merito speciale questo segno marmoreo del vostro culto per il divino Poeta. Senta pure l’anima vostra tutta la soave poesia la quale, ispirata all’eterno dramma dell’amore, vi fa sognare con Francesca, piangere con Paolo, commiserare col Poeta. Contempli stupita la vostra fantasia quel gruppo michelangiolesco in cui due capi-partito, due forti – Farinata e Dante – palesano nel gesto, nello sguardo, nelle contrazioni del viso, ciascuno l’ira della sua parte, la fierezza della sua famiglia, l’orgoglio della propria individualità. Tremi tutto il nostro cuore allo strazio indefinibile di un padre, del conte Ugolino che si sente impotente ad aiutare i figli che muoiono, e che li vede cadere ad uno ad uno, e per tre dì li chiama poi che son morti, finché anche lui soccombe al digiuno più che al dolore… E poiché lo onorate, voi mostrate di comprenderlo e di sentirlo: il che è promessa sicura per l’avvenire. E il vostro esempio gioverà a quanti verranno dopo di voi a trovar in questa stessa scuola nuovi lumi per la loro mente, più alte aspirazioni e sentimenti più degni per il loro cuore.

«Oh! custoditelo sempre, quasi gelosamente, nelle vicende diverse della vita, questo culto per il grande Fiorentino. Esso vi guiderà per vie sicure, esso vi inciterà a grandi cose. E sarà un bene per la vostra città, per l’isola vostra, per la grande madre Italia, oltre che un onore per il vostro nome, se anche voi vorrete un dì meritarvi quel plauso che il Poeta volle fatto dal suo Duce: il plauso più bello, più dolce che toccasse il suo cuore di figlio, profondamente grato alla tenera madre: “Benedetta colei che in te s’incinse!”».

Così il professor Azzolina che al mito di Dante avrebbe orientato tutta la sua vita di docente e conferenziere, tanto più e specialmente nelle attività del sodalizio che al nome del Poeta si intitolava ed a quelle degli Amici del libro. Non va dimenticato, al riguardo, il fascicolo monografico de Il Convegno, a lui dedicato poco tempo prima della morte avvenuta nel 1958.

Ma la festa… non è solo festa. Perché, rispettato Dante e rispettata l’intenzione e l’azione dei dettorini, è il busto in quanto tale che non convince tutti. Lo stesso avverrà presto anche con l’erma di frate Giordano, verso cui esprimerà qualche riserva, fuori da ogni diplomazia, lo stesso sindaco Bacaredda.

«No, un cipiglio melodrammatico, un volto cartapestaceo»

La critica (propriamente demolitrice) al lavoro del cav. Antonio Bozzano è uno stesso (anonimo, si firma “effe”: Felice Senes?) redattore o collaboratore de L’Unione Sarda a non risparmiarsela. La propone, in accompagno alla cronaca del festoso scoprimento e della festosa commemorazione. Sembra, invero, eccessiva e anche mossa, più che dal risultato plastico, da una pur comprensibile ragione di categoria, per non essere stati officiati gli artisti isolani che ben avrebbero potuto produrre un’opera degna di ammirazione. Si pensi – ma i casi personali non sono esplicitati dall’articolista – ai lavori di Pippo Boero, si pensi che Francesco Ciusa ha trionfato da appena sei anni alla Biennale di Venezia… ed altri, con loro, hanno partecipato agli abbellimenti interni al nuovo municipio di via Roma.

«… Insomma una nobile celebrazione, una bellissima festa – scrive “effe” –. Purtroppo di brutto non c’era che… il monumento inaugurato. Il giudizio degli artisti e delle persone che con l’arte hanno una certa dimestichezza non può non essere concorde. E’ il busto di Dante quello che ieri salutammo, o il busto di un rachitico? Sono quelle rozze e grossolane mani, che scrissero le delicate terzine del Paradiso? Quel cipiglio melodrammatico, quel volto cartapestaceo avrebbe avuto accoglienza nei castelli del Casentino, di Lunigiana e di Romagna? S’è tanto sbraitato, per amor dell’arte, contro il mastodontico monumento di piazza Santa Croce a Firenze, e contro la statua, pur maestosa, di Trento, e contro i mille busticelli che disadornano aule, nicchie, lunette e piazze dell’Italia redenta e irredenta, che di questo minor fratello malaticcio, adattato sopra una colonna da pulpito d’altare, messo, per maggior aberrazione contro lo sfondo d’un pilastro bianco, a ridosso dell’edificio scolastico, non sappiamo cosa dire. Si condanna da sé. Non c’è bisogno di essere feroci sostenitori che a integrarci nella fantasia l’immagine mortale del Poeta bastino la maschera di Ravenna, il ritratto di Giotto, quello più maturo che Domenico di Francesco dipinse sotto le robuste volte di Santa Maria del Fiore, quello dei Memmi in Santa Maria Novella e tutt’al più le medaglie del Morzachelli e del Putinatti.

«Basta aver letto le poche forti linee di prosa con che il Boccaccio descrive i lineamenti felici del suo grande amico, e avere nel cuore le terzine di granito sanguigno e d’azzurro terso, e soprattutto rispettare le leggi dell’arte, per deplorare che un’idea bella e nobile, che noi caldeggiammo all’inizio, sia così precipitata nel grottesco. Ché il busticello del prof. Bozzano è soprattutto grottesco; modellato con fiacchezza accademica, senza la linea di grandiosità che esigeva l’altissimo soggetto, falso nei giuochi d’ombra sopra l’accigliatura, infantile nelle linee che s’intrecciano fra la bocca, il mento e le guancie, orribile nell’atteggiamento e nella modellazione delle mani, artisticamente rachitico per dirla con una parola.

«Primi a protestare contro le gatte frettolose alle quali dobbiamo il brutto regalo di quella colonnina da pulpito con suvvi la profanazione di un Dante da operetta, dovrebbero essere gli artisti nostri, gli artisti di Sardegna che hanno dato bei saggi del loro valore – pittorico, scultorico e decorativo – nelle aule del palazzo municipale, e vederlo, per mano d’intrusi, di toscani dirazzati, di scalpellini laureati, una nuova bruttezza aggiungersi alle troppe di cui va onusta la città. Perché debbono essi domandarsi, non si è fatto un concorso? Il nome del prof. Bozzano, oscuro come la Minerva di Dante, era tutt’altro che garanzia d’arte.

«Basta coi monumentini bell’è fatti che si smaltiscono come le figurine d’alabastro a cinque lire la dozzina. E’ tempo di far rifiorire il gusto delle cose belle. I mercanti che non trovano spaccio nelle piccole città del Continente debbono avere il bando anche in questa Sardegna che ormai fiorisce di giovani artisti che hanno varcato le soglie del successo. Perché le autorità cittadine – possono anche domandarsi gli scultori e i pittori nostri che hanno il torto di non essersi uniti in una Famiglia da consultare in casi come questi – perché le autorità cittadine hanno dato il permesso all’erezione di un birillo di quella fatta, che saremo costretti a vedere chissà per quanto tempo ancora presso la soglia del Liceo Dettori? Meglio, oh assai meglio, che si fosse piantata una palma nel bel mezzo della piazza a dar refrigerio d’ombra e gioia di vista ai nostri giovani, all’imminente primavera spirituale di Sardegna. Invece si è sostituito un orinatoio con un monumento ugualmente vespasiano…»

Trent’anni pieni, volenti o nolenti, e il dopo

Fino al 1943, l’erma dantesca – bella o brutta che sia – accompagna, come una sentinella, l’ingresso principale del liceo.

Nel suo Cagliari del passato (Cagliari, 1983) scrive il professor Nicola Valle, che anch’egli – classe 1904 – del Dettori è stato allievo e poi anche docente:

«il busto marmoreo… durante un bombardamento sulla città, negli anni dell’ultimo conflitto, fu investito da un forte spostamento d’aria, e andò a cadere ai piedi del basamento sul quale era stato collocato nel 1912 [recte: 1913] per iniziativa del prof. Liborio Azzolina e degli studenti liceali. Nei mesi successivi servì da passatempo alla soldataglia che, incontrollata, gironzolava nella città disabitata e semideserta, e si divertiva a farlo rotolare e poi risalire lungo la discesa di piazza “Dettori”. Poi, alla fine della guerra, la statua fu pietosamente raccolta e messa a dormire in un buio magazzino a pian terreno dello stesso liceo. Più tardi servì ancora una volta come oggetto di spasso agli scolari del liceo artistico, ivi trasferitosi; essi si divertirono a verniciarlo in modo ridicolo, alterandone i lineamenti. Fu infine scovato e salvato e ripulito a cura dell’Associazione “Amici del Libro”, che superando interminabili difficoltà burocratiche e d’altro genere, riuscì a riportarlo alla vita, restaurandolo e sistemandolo sulla gradinata d’ingresso della sede sociale, nel palazzo del Comune; dove attualmente si trova».

Così, appunto, fino al 2003, anno di sgombero forzato e affrettato dalle viscere municipali del lodevole sodalizio. Ho ricordato, nel già cennato articolo del 21 settembre us., le speciali benemerenze degli Amici del libro in uno con la sezione cagliaritana della Dante. Il 4 ottobre 1972, aprendosi il nuovo anno accademico/sociale fu inaugurato di nuovo quel busto onorevole (seppur tanto maltrattato, dopo che dalla penna dell’anonimo de L’Unione Sarda, soprattutto dalla sorte). Al restauro provvide l’artista Anna Cabras Brundo e in diversi parteciparono, con spirito di mecenati, alle spese: Salvatore Marini, Moderno Bini, Filippo Carboni (il generale), Franco Trois, l’Arredarte Marino Cao, il fotografo Caboni, l’amico mio Nino Ciusa (figlio del grande scultore Francesco). Madrina, in quella serata, la professoressa Dina Pisano, vedova del professor Azzolina

Il nuovo Dettori non ha mai goduto, dunque, della compagnia del suo Dante. Trasferitosi in progress, dalla metà degli anni ’50 (anno scolastico 1953-54 e fino al 1958), nelle aule del caseggiato, fresco di costruzione, di via Cugia, esso godette – ma forse non ci pensò mai – della vicinanza insieme ideale e fisica di un altro e più moderno cavaliere protettore: Emilio Lussu abitò infatti, fino al 1975, in uno dei più prossimi palazzi di quella strada larga e ariosa, al civico 14. Lussu che fu pure lui, negli stessi anni di Gramsci, studente del liceo nella Marina: o meglio, più che studente frequentante, fu studente (privatista) esaminato per la maturità e maturato, dopo un primo tentativo andato male. Era il 1910. Nei registri il cognome figura con una finale rotonda: Lusso.

Dei maltrattamenti da parte dei ragazzi dell’Artistico e del riparo offerto dagli Amici del libro scrive nel suo Cagliari, amore mio (Cagliari, 1983), anche Cenza Thermes, e lo fa combattuta fra sentimenti opposti: «Anche il buon padre Dante ha preferito la quieta ombra dell’atrio dell’Associazione degli Amici del Libro all’aria aperta della piazzetta Dettori. Che ci faceva più, ormai, dacché gli studenti del vecchio liceo sono emigrati verso lidi più ospitali, accanto al palazzone della Regione Sarda? Gli studenti dell’Artistico non avrebbero certo amato il fiorentin fuggiasco quanto lo amarono e lo odiarono – a seconda dei gusti e delle fortune scolastiche – generazioni e generazioni del Classico. Tutt’al più l’avrebbero snobbato. E così, se ne sta silenzioso e ripulito, nell’ombra, in una sede del tutto degna, ma che è solo per gli addetti ai lavori, non più tanto giovani per giunta».

E’ certo perdonabile, dati tali e tanti meriti della scrittrice, lo svarione topografico – invero soltanto parziale, perché effettivamente erano liceali, benché del Siotto Pintor, anche quelli trasferitisi in viale Trento, e per di più provenienti dallo stabilimento che era stato del Dettori! – mentre resta acuta, e forse anche malinconica, la riflessione circa l’emigrazione del manufatto verso la terza età frequentante le dotte conferenze associative, piuttosto che una residenza confermata a controllo e monito degli adolescenti…

E a proposito della Thermes che tratta di Dante cagliaritano. Meriterebbe qualche approfondimento il cenno che ella propone ad una tavola riproducente la Crocifissione e con Dante, appunto, ivi ritratto: si tratterebbe di un’opera di proprietà dell’antica chiesa di San Domenico, che i padri predicatori custodi di tante preziosità avrebbero alienato nel 1855 «ad un compratore danaroso», ormai perso di vista e lui e il gran fagotto (cf. Cagliari, amore mio, pag. 212). Una tavola che, se non vado errato, fu citata anche dal can. Spano nella sua celebre Guida di Cagliari e che taluno, il Marghinotti per la precisione, attribuì addirittura al Masaccio. Della sua fortuna o sfortuna cagliaritana accennò lo stesso Valery nel rendiconto della sua visita sarda del 1834… (cf. Voyage en Sardaigne, 1837).

Si ha notizia di alcuni buoni propositi, insieme con altre strampalate idee, dell’Amministrazione civica circa la statuaria cagliaritana. Fermo dov’è, e non invece migrante al parco della musica, Giuseppe Verdi, lo square divenuto piazza Italo Balbo e poi, più felicemente, Giacomo Matteotti – per la quale speriamo nel ripristino di un sufficiente decoro, grazie a un qualche doveroso accordo del Comune con la proprietaria società delle Ferrovie – potrebbe riaccogliere la riproduzione fedele dell’erma boviana, ricalcata dal busto attualmente presente a palazzo Sanjust.

Al parco della musica – si ricorda al sindaco, incapace di rispondere a lettere ed a pubblici appelli che gli sono stati inviati sul punto – ben potrebbe andare, con molto altro, il busto, vanamente offerto dalla famiglia al Comune, del baritono cagliaritano Antonio Serra Manca, deceduto poco più che trentenne nel 1955.

Nella rotonda della piazza Mazzini potrebbe certamente tornare un doppione di frate Giordano Bruno, restando l’originale in facoltà di Lettere, dove esso ha acquisito ormai il diritto alla residenza permanente. Nel sito dell’ospitalità originaria dovrebbe a mio avviso collocarsi anche un pannello recante notizie storiche sulle tormentate vicende dell’opera oltreché sul genio del religioso l’abbrustolito vivo dall’Inquisizione nell’anno di grazia 1600.

Dove collocare, in tale contesto, un busto di Dante risanato da mani esperte? L’idea prima riporterebbe la risposta alla piazzetta Dettori, là dove esso era stato, magari adesso a guardia delle associazioni che nello stabilimento del vecchio liceo sono e/o sarebbero accolte, con l’ideale abbraccio del Comune: e ciò, però, a due condizioni, una fisica ed una morale. Che l’opera sia in grado di affrontare lo spazio aperto, vale a dire l’assalto ordinario e straordinario di tutti gli agenti atmosferici, e che essa – al tempo del restauro a cura degli Amici del libro e della Dante – non sia stata ceduta in proprietà a tali sodalizi.

Ove il nostro Dante sia tuttora nella piena disponibilità pubblica e non sia però capace di subire gli affronti del vento e della pioggia, si tratterebbe di pensare ad una soluzione protetta, ma pure garante della ostensibilità e, possibilmente, ancora nel centro storico. Sempre davanti al vecchio Dettori ma con una copertura alta e trasparente? Direi comunque che una copia, oggi tecnologicamente fattibile senza costi particolarmente rilevanti, dovrebbe poter tornare alle associazioni che nel 1972 ne curarono il restauro e per trent’anni ne hanno assicurato la custodia, ed un’altra – accompagnata sempre da un pannello illustrativo – andasse al liceo-ginnasio di via Cugia, anche per rafforzare un sano spirito di appartenenza della scolaresca, sposando lo studio della Commedia a quello, però non soltanto libresco, della città bacareddiana, magari passando anche per… Fazio degli Uberti e la sua descrizione trecentesca della Sardegna e di Cagliari stessa!

Il mito dantesco a Cagliari

Meriterà un giorno riepilogare i dati essenziali della tradizione dantesca in Sardegna e specificamente a Cagliari. Ritornare alle vicende più che secolari delle sezioni della Dante aperte nei due capoluoghi provinciali – Cagliari e Sassari – ed in altri centri fra cui soprattutto Iglesias, alle loro attività volte alla promozione del culto del Poeta, alla diffusione della conoscenza della Commedia, alle LecturaeDantis aperte a tutti.

Meriterà ritornare intanto ai saggi che diversi studiosi sardi hanno dedicato alle cantiche ma, più in generale, al mondo culturale e politico in cui esse hanno preso vita ed alle occasioni che suggerirono di trattare (nella Commedia ma anche, sgradevolmente, nel De vulgarieloquentia) della Sardegna – “malebolgia” incompresa e liquidata – e dei sardi, della loro lingua neoromanza disprezzata e pari invece, nelle radici, all’italiano e alle altre dell’Europa latina…

Ce n’era e ce n’è, e da parte nostra il fastidio… nazionalitario per certi giudizi era ed è compensato soltanto dalla consapevolezza della maestà del Poeta e di tutti i suoi scritti. Ne abbiamo ricevuto memoria, dell’un aspetto e dell’altro, dalle pagine di Filippo Vivanet (La Sardegna nella Divina Commedia e nei suoi commentatori, 1879, 1881), o da quelle di Pantaleo Ledda (Dante e la Sardegna, 1921), o ancora da quelle di Dionigi Scano (Ricordi di vicende e di personaggi danteschi di Sardegna, fra gli inediti stampati nel 1962, e Ricordi di Sardegna nella Divina Commedia, 1982, 1986 nelle ristampe curate da Alberto Boscolo). E di più ancora, a voler ricordare Giusto Matzeu e il suo Dante e la Sardegna, uscito nel 1955 per le edizioni Propago, o Alberto Bergamini che a La Divina Commedia e la Sardegna dedicò il suo discorso pronunciato nel 1954 al 49° congresso nazionale della Dante svoltosi a Cagliari – in felicissimo replay di quello dell’ottobre 1907 –, e i cui atti sono poi stati pubblicati in uno speciale del Convegno, a cura di Nicola Valle.

Potremmo ricordare anche i più recenti lavori sia di Federico Francioni e Vittorio Sanna (Dante e la Sardegna: invito a una nuova lettura, 2012, con dvd video allegato) sia specificamente di Sanna regista, autore già nel 2009 di un film didattico ispirato agli studi di Dionigi Scano: Dante e la Sardegna, personaggi danteschi e luoghi dell’Isola tra passato e presente.

Potremmo andare alle opere in lingua sarda, di traduzione della Commedia: partendo dal classico di don Pietro Casu (Sa Divina Cumedia di Dante in limba salda, variante logudorese, 1929) ed arrivando ai più recenti titoli di un altro religioso, il giuseppino Paolo Monni, che ricordiamo a lungo operante alle Grazie del capoluogo barbaricino: Sa Cummedia Divina. Cantigos de s’Ifferru… de su Purgatoriu e de su Paradisu in limba sarda. Comente si narat in Nugoro e Biddas d’intundu, la cui prima edizione apparve nel 2000. E altre ancora, di versioni in lingua sarda, se ne potrebbero menzionare: almeno quelle del berchiddese Sebastiano Meloni in idioma sassarese e di Aldo Congiu in campidanese.

E se sia lecito ora citare anche, allargando il discorso dall’opera alla persona, il sassarese Fabio Frassetto (antropologo allievo del Camerano e del Lombroso) cui fu commesso, unitamente al Sergi, lo studio delle spoglie, antiche di seicento anni, del Poeta – il che avvenne nel 1921, anno appunto sei volte centenario della morte dell’Alighieri – a monte di tutto dovremmo tornare, per celebrare il rapporto dell’Isola con la memoria ed il tesoro del grande Fiorentino, a uno splendido documento membranaceo: perché la Biblioteca universitaria di Cagliari si fa legittimo vanto di possedere il Codice Cagliaritano Ms. 762 (il Chiose Cagliaritane, uno dei più antichi manoscritti della Commedia risalente alla metà del Trecento). Se n’è scritto da più parti ripetutamente (Carrara, Manzoni, Rocca, Rossi, Cossu Pinna, e, con più mirati approfondimenti, Maninchedda: cf. Il testo della Commedia secondo il Codice di Cagliari, 1990): forse esso appartenne allo storico Gianfrancesco Fara, vescovo bosano ed erudito storico e geografo del XVI secolo, e passò poi per le mani di Monserrato Rossellò, umanista, giurista e bibliofilo cagliaritano deceduto ai primi del XVII secolo: da lui il trasferimento ai gesuiti del collegio di Santa Croce, giunto infine alla Biblioteca universitaria.

Questo è quanto potevo e dovevo riepilogare, pur in velocità, per riannodare l’ieri all’oggi e viceversa. Ora tocca all’Amministrazione, della quale ho poca stima, procedere recuperando il tempo perduto.

 

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