Dante e la Sardegna nel Consiglio regionale della Toscana, di Federico Francioni
Lunedì 30 gennaio 2017, a Firenze, nella Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso, sede del Consiglio regionale della Toscana, è stato presentato il libro di Federico Francioni e Vittorio Sanna, Dante e la Sardegna. Invito a una nuova lettura, pubblicato nel 2012, ristampato nel 2015 da Condaghes di Cagliari, del coraggioso editore Francesco Cheratzu. Sono intervenuti l’on. Eugenio Giani, presidente dell’assemblea legislativa toscana, Gianni Conti, presidente onorario dell’Associazione dei sardi in Toscana, direttore della rivista “Il governo delle idee” ed il relatore Gianni Cipriani, docente di Storia nell’Ateneo fiorentino, studioso, in particolare, di vicende e problemi storici della Toscana. Di seguito riportiamo il testo completo dell’intervento tenuto da Francioni.
Sommario: Ringraziamenti – Dante nostro contemporaneo – Più riferimenti alla Sardegna che alla Sicilia – Dante è particolarmente avverso alla Sardegna? – L’isola, la Toscana e le origini del sistema chiamato “capitalismo” - La Commedia è totalmente superata, almeno rispetto alle ricerche storiche più recenti? – Altri temi del libro Dante e la Sardegna.
Ringraziamenti. È un onore ed un piacere essere qui. Un sentito grazie agli organizzatori dell’incontro, al presidente del Circolo dei sardi in Firenze Angelino Mereu ed a Fiorella Maisto che per prima ha patrocinato il mio arrivo nella città di Dante per la presentazione di questo nostro libro. Sono molto grato a Gianni Conti, al presidente onorevole Giani ed al professor Cipriani i quali, sul percorso di Dante e sul mio lavoro, hanno pronunciato parole non scontate ed incoraggianti.
Dante nostro contemporaneo. Sembra quasi superfluo, ma non lo è, ribadire la contemporaneità di Dante, ancora una volta rilanciata da un narratore e critico di rango come il compianto Vittorio Sermonti (che si avvaleva della supervisione di Gianfranco Contini). Sermonti proponeva letture pubbliche della Divina Commedia, in grado di avanzare e delineare una fruibilità del testo poetico senza i troppi intralci di una plurisecolare tradizione di studi, anche a fini didattici, da cui peraltro non si può prescindere. Per non parlare di un volume monumentale, pubblicato di recente da Piero Boitani che ha rivisitato il mito di Ulisse, denso, fra l’altro, di contenuti filosofici quanto mai attuali, ancor oggi tematizzati (si pensi al nodo del “riconoscimento”) dando particolare rilievo all’interpretazione dantesca. Il poeta inscrive il proprio viaggio ultraterreno anche nei confini dell’esperienza ulissiaca. Infatti il vero Ulisse, autorizzato a varcare il limite fatidico delle Colonne d’Ercole, capace di giungere non solo all’estremo orizzonte, ma addirittura di tornare indietro, sano e salvo, è proprio lui, il grande fiorentino.
Non possiamo tralasciare, evidentemente – e veniamo subito al tema che in questa sede più da vicino ci interessa – il canto XXVI dell’Inferno, ottava bolgia, ottavo cerchio, dove sono arsi i consiglieri fraudolenti, come Diomede ed Ulisse che, nella sua estrema navigazione, vede “l’isola dei Sardi”, prima di superare le Colonne d’Ercole, oltre le quali scorge la montagna del Purgatorio. Dante è mai stato nella nostra isola? Il critico Tommaso Casini non lo ha escluso. È possibile, in ogni caso, che egli abbia ascoltato, tra l’altro, resoconti più o meno dettagliati di viaggi e soggiorni in Sardegna da diversi interlocutori e specialmente dal suo amico personale Nino dei Visconti di Pisa, che fu giudice di Gallura: questo personaggio “cortese”, esponente politico di spicco è nella valletta fiorita dell’Antipurgatorio (canto VIII della seconda Cantica). Da qualche testimone diretto il poeta avrebbe assunto informazioni intorno al caratteristico profilo dell’Isola di Tavolara, ciò che avrebbe potuto offrirgli qualche stimolo per la descrizione della montagna stessa del Purgatorio.
Più riferimenti alla Sardegna che alla Sicilia. Rammentiamo in questa sede alcuni versi danteschi che citano non solo l’isola dei Sardi ma anche Sardigna, Logodoro e Gallura: «[…] frate Gomita, quel di Gallura, vasel d’ogne froda, / ch’ebbe i nemici di suo donno in mano» (Inf., XXII, 81-83); «Usa con esso donno Michel Zanche / di Logodoro; e a dir di Sardigna / le lingue lor non si senton stanche» (la stessa cantica, 88-90): entrambi questi personaggi scontano la pena riservata ai barattieri, immersi nella pece bollente. Ebbene, nella Commedia troviamo ben sette riferimenti alla nostra terra. La Sicilia, invece, è menzionata quattro volte in tutto: eppure l’altra, più grande isola del Mediterraneo formava allora un vasto Regno – conteso fra catalano-aragonesi e angioini – comprendente pure Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria: lo ha ricordato in particolare Francesco Cesare Casula, medievista dell’Università di Cagliari.
Dante è particolarmente avverso alla Sardegna? Passiamo al primo dei tre nodi che qui mi preme focalizzare: Dante ha un atteggiamento ostile verso la Sardegna? Senza troppi sforzi possiamo escluderlo. Certo, Dante, in sintonia con una tendenza a stigmatizzare propria di Cicerone (e di altri nei secoli), non è tenero verso la nostra isola, terra malarica al pari di Valdichiana e Maremma (Inf., XXIX, 46-51); tuttavia per la sua Firenze e inoltre per Genova, Pisa, Pistoia, Lucca, il Casentino, i bolognesi, il poeta ebbe parole ancora più aspre, anzi, di una durezza estrema: basta ricordare che i casentinesi sono qualificati come “brutti porci”; ai romagnoli viene affibbiato l’epiteto di “bastardi”; per non parlare dei termini riversati contro Roma e Napoli. Le donne per davvero sfacciate sono infine le fiorentine, non quelle dei monti di Barbagia (Purgatorio, XXIII, 94-96).
Insomma, non si configura un’avversione del poeta verso la sola Sardegna. Allo stesso tempo, nel De vulgari eloquentia, Dante ha parole graffianti non solo per la lingua sarda ma per tutti i parlari, compresi quelli toscani. Addirittura Barbara Reynolds, dantista e docente nell’Università di Cambridge, nella sua opera, davvero originale, Dante, the poet, the political man, the thinker, prospetta la possibilità che Dante volesse in qualche misura rinunciare alla sua “identità” di toscano e di fiorentino (il riferimento della Reynolds è a Purg., XVI). La stessa studiosa ha parlato di una “acrimonia” di Dante verso tutti e tutto, mentre Guglielmo Gorni nel suo Dante. Storia di un visionario, sostiene che nel capolavoro dantesco si riscontra un “razzismo” che sarebbe evidente nei confronti degli immigrati a Firenze provenienti dal contado (canti XV e XVI del Paradiso). Io piuttosto parlerei di un determinato classismo, di un certo aristocraticismo dantesco, proprio di chi, fra l’altro, si sente investito da un’alta missione e per questo si esalta o si autoesalta. Invece è ampiamente condivisibile quella tesi di Gorni che sottolinea l’intenzione, abbastanza esplicita nella Commedia, di “scandalizzare”. Sono sufficienti al riguardo due rinvii: la virulenta condanna della Curia romana, raffigurata come una “puttana sciolta”, flagellata in un carro da un “feroce drudo”, individuato dai commentatori nel re di Francia Filippo IV il Bello (Purg., XXXII, 148-156); la terribile invettiva di San Pietro contro le gerarchie ecclesiastiche che hanno ridotto la Santa Sede, avida di potere e di beni secolari, a “cloaca” puzzolente (Par., XXVII, 22-27). In contesti distanti fra loro, letterati, pensatori e storici di orientamento diverso – come Nicolò Tommaseo, Hans Urs von Balthasar e Raffaello Morghen – scandalizzati, sono saltati su, hanno reagito accusando Dante, nientedimeno, di aver scritto versi indegni o poco ispirati. Questi critici non hanno tenuto nel debito conto che Dante non mette mai da parte la sua militanza politica: nel suo capolavoro – ed in particolare nel genere della Commedia – l’afflato poetico in ogni caso non viene meno.
L’isola, la Toscana e le origini del sistema chiamato “capitalismo”. Il secondo punto che vorrei sinteticamente affrontare riguarda il ruolo della Sardegna nelle sue relazioni economiche e politiche non solo con Genova e Pisa ma con tutta la Toscana. Nella mia monografia ho enucleato una tesi cui tengo in modo particolare. Vanno accolte in primo luogo le tesi dello storico franco-americano John Day, grande e sincero amico della nostra isola (deo apo àpidu sa bona sorte de lu connòschere), che per essa ha coniato l’espressione “laboratorio di storia coloniale”, collocato all’interno dell’Europa. Ciò, dunque, non in base ad un generico e scontato “terzomondismo”, ma per una precisa e circostanziata disamina sullo “scambio ineguale impoverente” che in concreto si verifica nei secoli fra Sardegna, da una parte, Genova, Pisa, i catalano-aragonesi, i governi spagnoli e quelli sabaudi, dall’altra. Uso della manodopera locale a vile costo; prelievo, anzi, spoliazione delle risorse minerarie dell’isola, ricca anche di cave, grano, bestiame, pellami, sale e corallo. A tutto ciò corrisponde l’importazione di una vasta gamma di prodotti finiti provenienti dalla terraferma.
Sulla base degli scritti di Enrico Besta, Alberto Boscolo, Francesco Artizzu, fino agli studi più recenti di Corrado Zedda, sono state analizzate e quantificate con notevole precisione le percentuali delle entrate d Pisa che dipendevano dai traffici con la Sardegna. Vediamo solo alcune cifre: nel bilancio di aprile 1313 le entrate provenienti dall’isola in favore della Repubblica pisana ammontano a 100.000 fiorini, pari al 39% di quelle complessive. Agirono in Sardegna banchieri e capitalisti pisani, così come mercanti-imprenditori fiorentini. Una documentata e originale monografia di Angelo Castellaccio (già docente nell’Università di Sassari), dal titolo Economia e moneta nel Medioevo mediterraneo, ha insistito su questo nodo, così come sulla circolazione nell’isola del fiorino d’oro di Firenze, autentico “dollaro del Medioevo”, com’è stato posto in risalto da Roberto Sabatino Lopez e da Armando Sapori. A conferma dell’assoluto rilievo internazionale di questa valuta, il presidente del Consiglio regionale toscano, on. Giani, ha opportunamente ricordato la persistenza ufficiale del fiorino in Olanda e Ungheria, prima dell’adozione dell’euro.
È legittimo parlare di Sardegna come colonia, ma non per metterne in risalto una “separatezza”, tutt’altro! Qui torna indispensabile tornare alle origini di quel sistema economico denominato “capitalistico”, di carattere non solo bancario e finanziario, ma anche produttivo, localizzabile in Toscana nella transizione dal Duecento al Trecento. A Firenze l’Arte della lana arriva a lavorare il 10% dei drappi di tutto l’Occidente di allora. Si è coniata l’espressione “punto zero” per indicare l’avvio determinante del capitalismo: ebbene questo “grado zero” può essere identificato con la necessità, per i più cospicui mercanti-imprenditori, di avere grosse somme da investire per “armare” adeguatamente le gallerie e i pozzi delle miniere, allorquando si tratta di scavare al di sotto dei cento metri di profondità. Già Marc Bloch, grande maestro della storiografia francese, cui non sfuggiva l’importanza delle risorse sarde, aveva posto in chiaro il ruolo essenziale delle miniere nel decollo del capitalismo. Non può e non deve sfuggire a questo punto l’importanza dell’antica Villa di Chiesa, oggi Iglesias, chiamata “la città dell’argento” – del piombo argentifero – in un accurato libro del compianto Marco Tangheroni (che fu docente nell’Ateneo turritano ed in quello di Pisa). Questa città, la più popolosa dell’isola in quel tempo, viene dotata del Breve di Villa di Chiesa, un testo di notevole rilievo nell’ambito della legislazione mineraria europea, all’interno del quale si possono facilmente individuare le norme, le “voci” riguardanti le paghe dei lavoratori addetti allo scavo delle fosse.
Va dunque messo in evidenza il ruolo non secondario, non marginale, non “separato” che si può assegnare al “laboratorio coloniale sardo”, per usare, ancora una volta, la categoria storica cara a Day. Tutto ciò consente di riconoscere l’efficacia ermeneutica di quello specifico “punto zero” nel decollo del capitalismo: una denominazione che si deve al sociologo Giovanni Arrighi e che è stata ripresa da un dantista della caratura di Federico Sanguineti.
La Commedia è totalmente superata, almeno rispetto alle ricerche storiche più recenti? Questo terzo punto riguarda la vicenda del conte Ugolino della Gherardesca (Inf., canto XXXIII), impegnato con i figli nello sfruttamento delle minere iglesienti: proprio il personaggio che Dante colloca nell’Antenora, fra i traditori della patria. È stato sostenuto che, rispetto alla più recente ed avanzata indagine storica, nonché al relativo dibattito storiografico, i versi del canto XXXIII potrebbero risultare del tutto superati, divaricanti, se non addirittura depistanti. A mio modesto avviso si può, con buon fondamento, sostenere il contrario: in Sardegna Ugolino, che fu signore anche di Sassari, arrivò al punto di autoproclamarsi re in modo del tutto arbitrario, essendo diventato solo signore di una parte dell’ormai ex-Giudicato di Cagliari. I figli Guelfo e Lotto si atteggiavano ugualmente a principi regnanti, com’è dimostrato, fra l’altro, dal tornese, moneta esemplata sul modello della Francia, da loro fatta coniare nella zecca di Villa di Chiesa: padre e figli erano in effetti uomini spinti dalle più irrefrenabili ambizioni.
Ugolino, che rappresenta un inestricabile intreccio di interessi pubblici e privati, cioè una costante nella storia d’Italia (si può partire da lui per approdare senza sforzo al caso di Silvio Berlusconi), si trova avviluppato in una spirale di antagonismi, prevaricazioni, violenze in cui è a pieno titolo protagonista e promotore. Un meccanismo, infernale per davvero, che lo condurrà con altri due figli e con due nipoti nella torre, poi denominata della fame, appartenente ai Gualandi, una famiglia che, con quelle dei Lanfranchi e dei Sismondi, aveva interessi cospicui in Sardegna. Gli scontri messi in moto per il controllo socioeconomico e politico dell’isola avevano precise ricadute sulle lotte di potere all’interno del Comune di Pisa. Ugolino puntava a dissolvere gli ordinamenti comunali pisani ed a creare una sua personale signoria tra l’Arno e l’isola: un disegno che si deve misurare con altri insaziabili appetiti e che risulta infine troppo azzardato.
L’arcivescovo di Pisa Ruggieri degli Ubaldini opera dapprima per una spaccatura fra Ugolino ed il nipote di questi Nino Visconti, il già citato giudice di Gallura, costretto a fuggire da Pisa. Ugolino e Nino erano diventati “diarchi” (domini potestates et capitanei) dopo la sconfitta subita alla Meloria da parte di Genova (1284). Ugolino si crede a quel punto padrone della città, ma la smentita dei fatti è atroce. Viene arrestato dai partitanti del presule (alleato di Lanfranchi, Sismondi e Gualandi), quindi detenuto sino alla morte con i figli Gaddo e Uguccione e con i nipoti Anselmuccio e Nino detto il Brigata, per la sua propensione alle zuffe di piazza.
Restituendoci un quadro vivo, palpitante, tragico di quelle vicende, che portano alla crisi irreversibile della civiltà comunale (di cui ebbe acuta consapevolezza) Dante, va ribadito, risulta tutt’altro che superato o depistante verso la ricerca storica che è comunque andata avanti, grazie ai contributi non solo degli autori già citati, ma anche di Emilio Cristiani, Maria Luisa Ceccarelli Lemut, Sandro Petrucci e Alessandro Soddu (che ha studiato i rapporti fra i Malaspina della Lunigiana, ricordati da Dante, e la Sardegna).
Altri temi di Dante e la Sardegna. Nel mio libro ho dedicato spazio anche alla lettura ed all’interpretazione, formulate da Antonio Gramsci (allievo intemperante e polemico del dantista Umberto Cosmo nell’Università di Torino), sul canto X dell’Inferno: quello degli eresiarchi Cavalcante Cavalcanti – padre di Guido, amico di Dante – e di Farinata degli Uberti. Mi è sembrato giusto ed importante inoltre dare rilievo alla figura dello scienziato sassarese Fabio Frassetto, fondatore dell’Istituto di Antropologia fisica dell’Università di Bologna (da lui diretto per ben 43 anni), che studiò le ossa del Divin Poeta e su cui scrisse Dantis Ossa, opera di rilievo internazionale, pubblicata nel 1933. Un altro capitolo riguarda la costruzione di unità e di moduli didattici, anche interdisciplinari, per lo studio della Commedia nelle scuole, dalle medie alle superiori. Un apposito capitolo è intitolato Dante e sa Sardigna. Comente istudiare Dante traduidu in limba sarda. Preme sottolineare l’importanza delle traduzioni del capolavoro dantesco sia in sardo – si devono alla penna di Pedru Casu e di Paulu Monni – sia in sassarese, per merito notevole di Sebastiano Meloni e Salvator Ruju. Ebbene queste versioni – davvero commoventi, se non emozionanti – dimostrano inequivocabilmente le enormi potenzialità del sassarese e del sardo, sistemi linguistici nei quali l’universalità perenne del messaggio dantesco, si badi bene, non solo non si perde ma, anzi, viene esaltata. Eppure alcuni intellettuali “ufficiali”, più in malafede che malaccorti, hanno cercato di schierarli “l’un contro l’altro armati”, facendo finta di ignorare che il sassarese non si salva senza il sardo e che entrambi, a pieno titolo, fanno parte di un’identità storica e linguistico-culturale composita – ed allo stesso tempo unitaria – della nostra terra. Il Dvd allegato al volume contiene il film-documentario Personaggi danteschi e luoghi dell’isola tra passato e presente, scritto e diretto con rara passione e competenza da Vittorio Sanna, dirigente scolastico con precedenti esperienze teatrali e cinematografiche, autore anche di un altro film didattico: Asinara, il laboratorio della conoscenza. Il Dvd del nostro libro persegue l’obiettivo di mettere a disposizione delle scuole e di un pubblico più vasto le tematiche riguardanti il rapporto del poeta divino col mondo sardo.
Oltre al volume Dante e la Sardegna, si devono a Federico Francioni altri due saggi danteschi: Osservazioni e note sulla posizione di Dante nel dibattito filosofico e teologico del suo tempo, in “Mathesis-Dialogo tra saperi”, n. 15, dicembre 2010, pp. 12-25; L’ansia di una sintesi suprema nell’itinerario teologico e filosofico-scientifico di Dante, in “Mathesis”, n. 25, dicembre 2015, pp. 13-23. La rivista “Mathesis” (organo dell’Associazione sassarese di Filosofia e Scienza) pubblicata dal 2003, è diretta dallo stesso Francioni.
By Mario Pudhu, 17 febbraio 2017 @ 08:03
Federico, mi ndhe allegro de cust’istúdiu! Ma una cosa ti la depo nàrrere a propósitu de «scambio ineguale impoverente». No isco si l’as fatu apostadamente a irmentigare sa “punta” e sa “coa” de sos scambi ineguali impoverenti, alias domíniu bellu e bonu. Tandho, de Romanos e Púnicos za no bi ndh’at prus e toca (ma no sunt de irmentigare si fintzas cuss’istória docet, e ca docet e nocet puru). Ma sos italianos za bi sunt!!! E cun totu su pesu!!!
Ma it’est, andhamus in Itàlia guvardos, a conca incrubada o testa china, mancari “orgogliosi” ca amus fatu una bella proa che a s’istúdiu tou, ma sempre birgonzosos, parimus in curpa manna nois? Proite, sinono, a elencare sos atores de su «scambio ineguale impoverente» e ti frimmas a sos sabbàudos chentza numenare i governi italiani o, pro semplificare, ca gai est, e nàrrere s’Itàlia, a conca arta cun sa dignidade de una prus che resone istórica politica e civile documentada e documentàbbile comente no est possíbbile pro àteros períodos? E cale domíniu mai nos at fatu «scambio ineguale impoverente» prus de s’Itàlia in su pagu tempus chi, a paragone de àteros domínios, at isfrutadu e isfrutat e afungat oe sa Sardigna? O fossis irmentigamus chi custu domíniu est su tempus clàssicu de su capitalismu e colonialismu privadu e istatale, e oe sempre plus arrabiau?