«Non conosceva compromessi, limitazioni o privilegi». Nel 1981, in televisione, Dolores Ghiani ed Antonio Romagnino conversano sul genio e l’umanità di Francesco Alziator (5), di Gianfranco Murtas
Era fraterno con i semplici, entrava in rapporto spontaneo e confidenziale con gli ultimi. La sua fragilità sotto l’apparente humor e le sue scanzonature. Il soccorso offertogli in due diverse occasioni da fra Nicola da Gesturi. L’amore ai libri, «il solo mezzo capace di riunire gli uomini in una superiore conciliazione». Il suo innato talento di scrittore: «Nelle sue mani tutto diventava oro filato…». Ecco la sintesi estrema del seguente contributo che metto in capo alla vedova professoressa Dolores Ghiani ed all’amico Antonio Romagnino, offrendolo come omaggio alla memoria dell’autore di La città del sole (1963), ma anche di Storia della letteratura di Sardegna (1954) e di Il “Caralis Panegyricus” di Roderigo Hunno Baeza (idem), di opere tutte importanti, al di là del numero delle pagine consegnate alla tipografia: Folklore sardo (1957) e Picaro e folklore (1959), e prima ancora La letteratura in Sardegna dalle origini al periodo bizantino (1950) e dopo La Collezione Luzzietti (1963) e La Raccolta Cominotti (idem), l’autore di La Sartiglia (1969) e L’oreficeria popolare sarda (1970), di La ballata di Cagliari (con Giovanni Thermes, 1972) e Le “Tavolette” della Raccolta Savoia donate dal re Umberto II al Municipio di Cagliari (idem)… Omaggio a Francesco Alziator cui si devono le curatele e introduzioni di Vincenzo Sulis, Autobiografia (1964), di Testi campidanesi di poesie popolareggianti (idem), di G.P. Arca, Barbacinorum libri (1972), di Sa vitta e sa morte et passione de Sanctu Gavino, Porthu e Januariu (1976), di Testi di drammatica religiosa: F. Carmona, A. del Arca, G.P. Chesssa Cappai (quarto dei cinque volumi della Biblioteca dell’Elefante 1975), opera quest’ultima che rimanda agli studi universitari ed alla tesi discussa, in facoltà di Lettere e Filosofia, nel 1932 appunto su Momenti della drammatica sacra in Sardegna. Omaggio a Francesco Alziator cui dobbiamo ancora saggi e/o memoriali – lavori tutti anche letterariamente pregevoli – come i postumi I giorni della laguna (1977), come L’Elefante sulla Torre ed Attraverso i sentieri della memoria (entrambi del 1979) – riordino o riesposizione di numerosi articoli apparsi sulla stampa quotidiana o periodica lungo diversi anni –, ed anche i versi di un numero cospicuo di composizioni poetiche che sembrano aver attraversato l’arco di svariati decenni (ecco così il volume I versi di Francesco Alziator, a cura di Cenza Thermes, 1996).
1 ° marzo 1981. La Voce Sarda – una emittente televisiva che va per la maggiore nell’isola, che anticipa di alcuni anni in Italia l’edizione mattutina del telegiornale ed ha un’intensa ed originale produzione filmica tutta giocata fra cronaca, cultura e scienza, e se la gioca con la concorrente regionale Videolina fino a fondersi con lei – manda in onda un mio “speciale” di un’ora dedicato allo storico-e-poeta di Cagliari scomparso ormai da quattro anni, ma indimenticato nel cuore e nella mente di quei cagliaritani che, attraverso le sue pagine sparse fra giornali e riviste o raccolte in volume, hanno penetrato l’anima segreta della propria città, la sua intimità più riposta.
“Omaggio a Francesco Alziator, storico, demologo e poeta”: questo il titolo del mediometraggio incluso nel numero, per una volta monografico, della rubrica settimanale “Controluce”. Il palinsesto, quello serale della domenica, ha – a quanto mi riferiscono – buon indice di ascolto e gradimento, nel range naturalmente di quel che può la nostra regione.
Francesco Alziator, Dolores Ghiani, Antonio Romagnino: ecco i protagonisti di quell’originale – rivendico la pertinenza di tale aggettivo – servizio televisivo che avevo registrato il 26 febbraio nell’attico a plein air di via Gio.Maria Angioy, casa-biblioteca tutta sole e libri e quadri degli Alziator. Con Cucuccio, naturalmente, presente come motivo e soggetto del documentario, come spirito evocato nella molteplicità dei suoi carismi umani e spirituali e delle sue vocazioni ed esperienze letterarie e storiografiche.
Eccomi dunque, fra il 21 ed il 26 febbraio di quel 1981, concordare i temi da sviluppare nella conversazione fra la signora Ghiani – docente (ormai a riposo) e raffinata dantista – e il professor Romagnino – al tempo presidente regionale di Italia Nostra –, e procedere quindi alla registrazione. Poi il montaggio, con la formula, televisivamente efficace, per cui la lettura fuori campo del postumo bellissimo Attraverso i sentieri della memoria – con accompagnamento di immagini castellane – viene insertata realizzando un’intermittenza nel dibattito, di cui alleggerisce il passo.
Un particolare emblematico della personalità di Dolores Ghiani Alziator (è stata lei a preferire, come interlocutore, Romagnino ad ogni altro critico letterario: «Lui ci è rimasto sempre vicino, dopo la morte di mio marito, gli altri si sono allontanati»): durante la registrazione, in un intervento a braccio, riferendo del noto incontro di Alziator con fra Nicola da Gesturi nella città apocalittica, la città squassata dai bombardamenti del 1943, le è sfuggito un particolare relativo alla propria deposizione presso il Tribunale ecclesiastico incaricato d’istruire la pratica di beatificazione dell’umile frate questuante della comunità francescana fra Palabanda ed il Belvedere. Quale? La durata della sua deposizione: «dalle 9 alle 12». L’ha ritenuto un di più rispetto al lecito della cronaca di un interrogatorio che doveva restare riservato nelle sue modalità più ancora che nei suoi contenuti, e mi chiede di cassarlo dal nastro audio. Desiderio che capisco, sollecitazione a cui adempia, naturalmente.
Alziator e fra Nicola, il laico e il santo. Potrebbe essere un capitolo – questo della religiosità inquieta e dubbiosa del professore – degno di essere specialmente approfondito e trattato sulla base delle carte oltre che delle testimonianze. Ad esso si accenna, nella conversazione televisiva, da parte sia della moglie che di Romagnino, dell’amico critico che sul punto ritornerà in altri scritti successivi, ma molto potrebbe certamente aggiungersi. Fra Nicola come l’uomo di Dio in questa concreta e storicizzata Cagliari: simbolo della Cagliari silenziosa, della Cagliari nascosta, umile, quella che siede in tutti i ceti sociali e si identifica coi bisogni del cuore. Perciò l’indagatore della plurimillenaria vicenda civica, l’archeologo-bibliografo e poeta appassionato a quel che le pietre e gli umori rivelano dei tempi che passano, arriva a rappresentare in simbiosi la complessa, sedimentata umanità di Cagliari con la fresca beatitudine evangelica del santo che per le strade della città s’avventura ogni giorno, e nel giorno peggiore a lui restituisce la fiducia nella vita.
Un’ultima nota. Concludendo la sua testimonianza, Dolores Ghiani esprime il rammarico di non aver potuto pubblicare i capitoli – coi canovacci di collegamento o le note di integrazione – di un testo in fieri, l’ultimo di suo marito, sulla storia della cultura in Sardegna. Di alcuni stralci di quel lavoro che s’intuisce di grande e grave impegno, dà anzi lettura, disvelando l’inedito. Io assumo, a nome dell’emittente e della sua collegata casa editrice, l’impegno a quella pubblicazione. Impegno disatteso, anche se non per causa mia. Quando manifesterò alla signora Ghiani Alziator – or non è più di qualche anno – la disponibilità a provvedere altrimenti, con mezzi personali cioè, non avrò risposta: purtroppo il peggioramento delle sue condizioni di salute ne annunciava l’imminente, amaro trapasso.
Ecco il testo integrale di quell’ora televisiva.
«In lui il passato è sempre vivente»
Alcune cose, non molte forse, ma certe e profondamente sentite, avremmo potuto e desiderato dirle, di Francesco Alziator.
Con la discrezione degli allievi, ci siamo tirati da parte ed al posto nostro e della città – la città del sole – di lui abbiamo chiesto che parlassero, oggi che sono passati già quattro anni dalla morte, la moglie – Dolores Ghiani Alziator, donna di rarissima eleganza morale e raffinatezza culturale —,e l’amico professor Antonio Romagnino, critico letterario, degli intellettuali cagliaritani e sardi fra i maggiori, e amico prezioso e fedele di Francesco Alziator.
Questo servizio, nel quale campeggia la figura del grande storico, demologo e poeta della città – le cui parole, quelle consegnate nel postumo libro Attraverso i sentieri della memoria, abbiamo inframmezzato al colloquio, per farlo ad esso quasi presente, fra la signora Ghiani Alziator e il professor Romagnino – ha anche questi, colla loro ricca, rara humanitas,per protagonisti, e di nuovo qui vogliamo amichevolmente ringraziarli.
«I confini della mia infanzia sono elmi di pompieri lucidi di ottoni, presso l’arco della Porta Castello, la via Università e la via Mazzini, che a casa mia si continuava a chiamare, all’antica, via degli Argentari.
«I miei ricordi più lontani, gli scogli tra i quali naufraga la memoria nel viaggio a ritroso che la nostalgia fa sempre più frequente verso i regni favolosi delle età felici, sono quegli elmi di pompieri, appesi come trofei di vincitori, tra scuri ed asce nella caserma di Porta Castello.
«Erano, quegli elmi, l’ultima cosa viva di luce che vedevo quando, verso sera, mia madre ed io risalivamo dalla grande solarità delle vie della Marina a ritrovare il mondo umidiccio e senza rumori del Castello.
«Si risaliva, con passo di fretta crescente, senza curarsi dell’ultimo sole che si dilatava come fosse vento, tra la Porta Castello e il Portico delle Grazie, riempiendo di baleni le vetrate e ravvivando di bellezze d’ambra l’intonaco sporco del Palazzo Boyl.
«Con l’inchino a mia madre del cappellaio, che aveva bottega presso il portico, uno di quegli inchini profondi e compunti che oggi non si fanno più neppure in chiesa, ma che allora erano consuetudine d’ogni giorno, spariva l’ultima pazzia di sole e la via Lamarmora ci prendeva in un buio viscido e opaco…
«Ad abitare in una casa di via Lamarmora si aveva veramente l’impressione che la via non fosse come altrove una vera via e che un palazzo non fosse separato dall’altro, ma sembrava che, dall’inizio della salita, su, su, sino all’improvviso ritrovare il cielo, teso come il baldacchino del Santissimo, sulla statua di San Francesco, tutto fosse un unico palazzo… Soprattutto nel tramontare precoce del povero sole di Castello, gli edifici non avevano più dimensione, erano ammassi incerti che l’ombra diluiva come un acido in una soluzione di grigi che erano presto buio.
«In un pezzo di quel buio erano anche casa mia e il marmo della toeletta dove mia madre avrebbe, fra breve, poggiato guanti, cappello e veletta, per presenta rsi dinanzi alla nonna paterna per il rosario…».
«La sua gentilezza d’animo, la necessaria libertà»
G. – Parlare di mio marito non è cosa facile: egli infatti rappresenta, come è stato già detto, una cifra umana che sembra sfuggire a qualsiasi definizione. E se è possibile tracciare un profilo dell’uomo dotto, studioso, giornalista, scrittore, poeta, assai più difficile è indagarne la fisionomia spirituale, penetrandone l’intimo e dissipando le zone d’ombra sotto cui egli nascondeva gelosamente i segreti della sua coscienza. lo che gli sono vissuta accanto fin dalla prima giovinezza credo di poter cogliere di lui qualche elemento meno appariscente, ma proprio per questo più prezioso perché capace di qualificare la sua vera personalità: la sua grande umanità. Una umanità non comune a molti e che, vista ora che egli ha rotto i rapporti con la realtà, sembra acquistare il peso di una testimonianza destinata a giudicare tutta la sua personalità.
Nella sua umanità non esistevano compromessi, limitazioni o privilegi. Essa era fatta di quella gentilezza d’animo che lo portava a fraternizzare con tutti, specie con le persone semplici dei ceti più umili, con le quali amava intrattenersi ascoltando i loro problemi, dando e ricevendo consigli. E sapeva stringere un rapporto confidenziale tanto coni tramvieri, i giornalai, quanto con gli abitanti degli oscuri vicoli del Castello e addirittura con gli arsellari dello stagno. La sua disponibilità lo portava, insomma, a non fare alcuna differenza fra le persone dotte e l’uomo della strada che desiderava confidargli le sue opinioni per avere il piacere di discuterne con lui.
Nelle sue conversazioni rifuggiva accuratamente dalla critica, e non aveva parole altro che per difendere chiunque, anche i suoi nemici.
R. —Sì, questo, mi pare, che ha detto Dolores Alziator è molto vero, ed ha la forza di una testimonianza che attinge a tutta una vita in comune. E però chi questa vita non ha condiviso può sentire tutto questo che è stato detto nelle opere di Francesco Alziator. Io ho portato con me alcune di queste opere che mi sono più care, e credo che le unisca idealmente, in particolare, l’ultima, I giorni della laguna, che fu posta sul suo letto di morte (egli non poté veder stampata questa sua opera) e L’Elefante sulla Torre… Quale è questo motivo particolare che emerge da queste due opere? Questo sentimento del sociale.
Effettivamente Francesco Alziator aveva una possibilità nativa, illimitata, di comunicare con la gente più umile. E quando l’umile entra nella sua opera, non è mai sfiorato dal gusto caricaturale, o comunque non diventa mai l’oggetto di una rappresentazione pittoresca. È invece guardato con grande rispetto. Direi che Alziator aveva un innato senso dell’uguaglianza, e trattava gli umili con un affetto paritario.
Io potrei citare episodi ai quali ho assistito, però in questo momento voglio far parlare l’opera sua. Ricordo in particolare le pagine che Alziator ha dedicato a quegli ambienti sub-umani che sono gli ambienti di Castello e della Marina, e come è entrato nei bassi di Castello e della Marina, e come ha rappresentato dolorosamente, con un senso tragico della vita, appunto l’esistenza di quegli umili cagliaritani. Sono molte le pagine dedicate a questa città più povera, più derelitta, più emarginata, nell’Elefante sulla Torre.
lo mi limiterò a ricordare però quegli arsellari, quei lagunari che sono stati interlocutori fra i più frequentati nelle vita di Francesco Alziator, che si affacciava a quella perla del paesaggio cagliaritano che è appunto Santa Gilla.
Fra l’altro Alziator aveva il sentimento di Cagliari più vero, perché vedeva Cagliari nelle sue dimensioni naturali. Sapeva bene che Cagliari non era quella che aveva rappresentato Giovanni Spano nell’800, cioè una città d’arte. Giovanni Spano aveva visto soltanto monumenti. Invece Francesco Alziator vide l’architettura umile e vivente della città e l’ha rappresentata in moltissime pagine. E aveva anche questo sentimento del paesaggio e quindi è naturale che venisse scelto a scrivere questo libro – I giorni della laguna – che è dedicato a Santa Gilla.
Io sottolineerei anche – per mettere in evidenza l’onestà di Francesco Alziator – che questo libro ha una committenza, non amica del luogo, perché fu il Consorzio dell’Area Industriale ad affidare ad Alziator appunto quest’opera. ll Consorzio dell’Area Industriale che, come si sa, sta per realizzare un’opera mastodontica, nella laguna di Santa Gilla, che modificherà profondamente lo stagno. Ebbene: in questo libro c’è tutta l’autonomia, l’indipendenza di giudizio, il modo di liberarsi dagli impacci che è proprio dell’artista e dello scrittore che va per suo conto. La committenza è assolutamente accantonata, non pesa assolutamente. E’ la storia di una parte di Cagliari, e direi di tutta la città, fatta con un sentimento veramente civico. Ed è proprio in quest’opera, dicevo, che anche si recupera quel sentimento umile di cui Dolores Alziator ha parlato.
I lagunari, i pescatori dello stagno, erano suoi amici, e quest’umile intriso di socialità mi pare si possa leggere in questa breve pagina: «A conclusione dei nostri rapidi flash sul mondo dei pescatori lagunari, non possiamo tuttavia dimenticare gli arsellari, come i più derelitti tra questi dimenticati e oscuri lavoratori che anche materialmente vivevano ai margini estremi della città murata, per secoli unico polo e unico centro illusoriamente meno disumano della vita del pastore, del contadino o del marittimo.
«Anche tra i poveri, esistono i più poveri, tra gli infelici, i più infelici. Nel mondo dei lagunari, l’ultimo dei gradini è stato sempre quello degli arsellari. La loro giornata non ha diversivi: dal mattino alla sera, curvi con l’acqua alle ginocchia su fondi viscidi, con le mani intozzite e levigate dal continuo frugare tra melma e melma, cercatori di un oro da pochi soldi, l’oro della fame: le arselle».
Pater ed Ave, il mal di ginocchia
Quella nonna paterna, mai vista «in abito da casa», che «pareva sempre dovesse uscire per una cerimonia od una visita», col «volto affilato e bianco» e che all’ora del crepuscolo radunava tutta la casa, familiari e servitù, per la recita del rosario, quella nonna è tra le prime figure ad emergere, chiara e distinta, nella memoria di Francesco Alziator.
«Non ricordo d’aver mai visto la nonna paterna in abito da casa. Pareva sempre che dovesse uscire per una cerimonia od una visita. Tra il volto affilato e bianco, fatto più bianco e più affilato dai capelli candidi, tirati verso l’alto, ed il pizzo che spumeggiava a triangolo come una cascatella di zabaione chiaro sul chiaro dell’abito, era un nastrino di velluto, non più largo del mignolo. Tra le tante domande che non ho mai avuto il coraggio di rivolgere alla nonna – come d’altronde avrei potuto farlo proprio con lei che poneva a base di tutta la sua teoria morale e sociale dell’universo che le domande dovesse essere lei a farle e non gli altri?—mi è sempre rimasto in gola di chiederle a che cosa servisse quella fettuccia nera che non era né sciarpa né collana.
«In quell’ora di crepuscolo, quando anche l’ultimo slancio del campanile della Cattedrale, gli spalti dell’Arsenale e le pietre della torre di San Pancrazio avevano perduto sole e calore, s’accendevano i lumi nella camera della nonna e le candele dinanzi al quadro della Vergine. Tutta la casa, oltre alle persone perfino le cose avevano colore d’attesa, attendeva che la nonna cominciasse il rosario.
«Nessuno mancava, nessuno poteva mancare. Dovevamo essere tutti lì senza ritardi: anche mio padre e gli zii. Le sciabole avevano già sbattuto in anticamera e gli speroni, sulla guida paglierina del lungo andito, perdendo ogni rumore, parevano le rotelle della macchina della pasta che tagliassero lasagne.
«Intorno alla poltrona della nonna, c’eravamo tutti: i morti che solo lei vedeva e i vivi. Davanti a tutti, noi, i piccoli: un poco di pallore e di nervetti fasciati da una divisa alla marinara, trecce su spalle fragili e gonnelline a pieghe che si tiravano su a scoprire gambe lunghe e ossute inginocchiate sul mosaico duro, proprio là dove il tappeto finiva, perché così voleva la nonna.
«C’era la servitù, la servitù inutile d’altri tempi, quando le cameriere erano molte e le case più sudice di quanto non si possa immaginare. Le cameriere della nonna erano risacca di campagna campidanese, dai visi olivastri di malaria, creature cattive, più per stupidità che per convinzione, ipocrite e beote che, nel loro sangue avvilito di antiche bestie da soma, riconoscevano feudalmente nella nonna il signore e padrone per diritto divino. Tra la servitù erano gli attendenti, anche loro risacca di campagna, cui raccomandazioni e fortuna avevano impedito di passare il mare, oltre i disperati confini di Golfo A ranci e che, per non rompere la loro vita di testuggini, fatta di nostalgia del paese e di speranza di una licenza, avrebbero perfino letto Dante, se lo avessero potuto, pur di far piacere alla nonna.
«Nel silenzio e nell’ombra, non del tutto diradata dal lampadario acceso a metà e troppo in alto, la nonna alzava la lunga mano bianca per segnarsi e il primo Pater, preceduto da qualche colpo di tosse, saliva roco e pigro a Dio da quel mucchio di umanità non felice.
«Anch’io mandavo tra i cieli d’angeli e di speranza le mie preghiere che erano, sulle prime, fervide, piene di trasporto e di slanci lievi. Poi, pian piano, le parole dei Pater e degli Ave non avevano più evocazioni, diventavano un suono continuo, ora alto, ora basso, indistinto. Un suono soltanto. Le ginocchia cominciavano a farmi male e solo oscillando, ora a destra ora a sinistra, era possibile alleggerire quel loro intorpidirsi che era fastidio e dolore, più o meno intenso, se facevo gravare il peso del corpo verso i margini o al centro della rotula.
«C’era un momento, però, nel quale il fervore tornava e non pensavo più alle ginocchia: era al cominciare delle litanie. Dai Pater e dagli Ave di quell’interminabile rosario, il cielo non mi parlava più, ma, per ognuna delle invocazioni a Maria, era come se si rifacesse giorno e intorno non ci fosse più l’aria greve di cera e di serve sudice della camera della nonna. Come se, dalle finestre, non si scorgesse la fioca luce delle lampadine della via dei Genovesi, anemiche, stanche, era un improvviso rifarsi sole e speranza.
«Turris eburnea, Domus aurea, Janua coeli: spazi non immaginabili prima, castelli turriti, più belli che nella tappezzeria del salone, città favolose e fulgide inondavano il mio cuore nella sera. Salus infirmorurn: la certezza che non avrei mai più avuto la febbre. Regina Patriarcarum, Regina Prophetarum, Regina Martyrum, Regina Confessorum: Maria, come un’eroina bianca di luce e di soprannaturale, precedeva a cavallo, simile a Giovanna d’Arco, turbe di trionfatori.
«Le litanie erano le tappe aeree delle mie speranze e dei miei sogni. Forse quello era il mio peccare: riempire di fantasie le invocazioni alla Vergine. O forse no. Certo era molto bello perdermi stordito tra l’aprirsi di cortinaggi azzurri, verso mari solcati da navi come canzoni, andare per prati trasparenti su cavalli colore smeraldo.
«Era il tempo del paradiso terrestre. Non quello che ognuno di noi perde col nascere, ma quello che ognuno di noi perde col crescere. Il mio è ancorato all’età favolosa, quando la via Lamarmora si chiamava via Dritta, i pompieri portavano elmi rutilanti d’ottoni e le mani di mia madre sapevano di violetta di Parma. Il profumo che restava sul mio guanciale, lungamente, dopo il bacio della buona notte».
L’incontro con fra Nicola da Gesturi
G. – Della gentilezza egualmente squisita di quella che ho raccontato erano i contatti, i rapporti, di mio marito con la famiglia. Io conoscendo la grandezza della sua anima ero rispettosissima della libertà del suo spirito e delle sue azioni, ed egli me ne era grato conservando per me le finezze dei momenti magici dei nostri primi incontri romantici. E sono orgogliosa di essere riuscita spesso a sostenerlo spiritualmente, di aver avuto il potere di far rinascere in lui la speranza che spesso gli sfuggiva.
Apparentemente sicuro, quasi scanzonato e beffardo, egli nascondeva sotto l’humor, dietro le facili battute, un’anima fragile, quasi infantile, messa continuamente in vibrazione dalla paura del mistero, dell’imprevisto, del domani.
R. – Io torno alle testimonianze dei libri, ancora a questo proposito, perché sono queste a cui posso attingere, evidentemente. Aveva il senso del mistero, Francesco Alziator. Io oserei dire che, laico com’era, aveva una profonda religiosità. Ci sono due pagine nell’Elefante sulla Torre che testimoniano quanto vado dicendo.
Sono pagine che hanno uno stesso protagonista, una delle figure più popolari della nostra città, appena da qualche anno scomparso: fra Nicola da Gesturi.
Alziator ricorda due episodi egualmente significativi. Cagliari aveva subito quel giorno un furioso bombardamento. In una zona dove più era stata la devastazione delle bombe si affaccendavano alcuni ufficiali e diversi soldati per portare soccorso ai feriti, e in tutti era un senso di smarrimento e di fine. Improvvisamente, non sappiamo da dove – non faccio che parafrasare malamente il racconto di Francesco Alziator – apparve fra Nicola. L’ufficiale che guidava quei soldati gli si avvicinò quasi a chiedergli un soccorso, una parola. Il frate aprì le braccia e disse: «Sia fatta la volontà di Dio».
In un’altra occasione – e questo testimonia di quale creatura fragile fosse Alziator nella sua apparente, travolgente vitalità, – Alziator ricorda di aver vissuto una vicenda tempestosa nella sua vita. E in quell’occasione, la tempesta di dubbio, nel tormento che dilaniava la sua anima, entrò in questa – è la parola che, mi pare, usa Alziator, che è poi la parola della Chiesa – entrò nella sua mente fra Nicola. E io ho parlato di questa pagina al compianto monsignor Cesare Perra, che istruiva la prima parte del processo di canonizzazione di fra Nicola. Credo di poter dire che sia stata acclusa agli atti questa pagina di Alziator che è testimonianza di un miracolo. Dice: «Io uscii dal dubbio, quando apparve nella mia mente la figura di questo grande soccorritore di tutta la città, fra Nicola da Gesturi».
Le dimensioni della cattedrale di Santa Maria
Nella memoria gli occhi di quando, bambino, pantaloncini corti e abito alla marinara, passando «dall’oscurità umidiccia e molle dei sottoportici del Fossario e dai budelli neri e ventosi del vicolo della Speranza e della via Canelles», giungeva infine in piazza Palazzo, di sera illuminata da scarsi e fiochi fanali, Francesco Alziator è ora in cattedrale. Gli spazi non hanno misura e tutto – dimensioni e arredi, sculture e atmosfere –, sì tutto induce al timore.
L’esatto contrario è il Bastione. È la Cagliari del plein air, quella stessa città che, fra breve, sarà visitata ed indagata da David H. Lawrence (gennaio 1921), al quale la monumentale costruzione bacareddiana, con quella terrazza immensa, fa pensare come ad una sospensione, irreale, fra cielo e terra, o mare.
«Allora, il Duomo era straordinariamente più grande. Le volte non avevano affreschi e sugli archi angeli di stucco nuotavano, nella loro paffuta irrealtà, fatta solo di teste e d’ali, nel cielo senza luce e senza confini delle navate barocche.
«Per quella vastità si perdevano le Ave-Marie che salivano, confuse e incerte come parole a lapis mezzo cancellate con la gomma, e le mie fantasie di fanciullo. Lo scheletro coronato con il manto e la falce, che sovrasta il cenotafio di Re Martino d’Aragona, i teschi con le tibie delle tombe secentesche erano la mia ossessione: la paura della morte e della dannazione. Una gelida paura della morte e della dannazione scaturita dalle favole narrate dalla servitù e dal catechismo male appreso o male spiegato…
«Per noi, il Bastione era la vita, l’Oceano che ha per spiagge la Terra Promessa. E quello che il Bastione è stato per noi, deve essere stato per più di una generazione, tanto è vero che, in una città come Cagliari, tutta cinta di bastioni dai bei nomi, uno solo è rimasto senza nome. Quello. Anzi, a dire il vero, di nomi ne ebbe, e più d’uno: prima che sorgessero la grande scalea e la Passeggiata Coperta, la parte ad oriente era detta della Zecca e quella ad occidente della Leona; poi, quando fu tutt’uno, fu detto di Saint Remy, ma ai Cagliaritani non piacque quel nome foresto che era stato di un tizio che aveva avuto lo scarso merito di essere barone e viceré e, fatta giustizia di quell’inutile omaggio cortigianesco, lo chiamarono sempre e solo Su Bastioni. Immenso, come tutto è straordinariamente più grande peri ragazzi, il Bastione era diverso ad ogni ora. Al Bastione c’era tutto, perfino un miraggio che lo trasformava in una grande, tremula distesa d’acqua. Per la verità, il miraggio c’è ancora. Chiunque può vederlo nelle ore meridiane di una giornata molto calda, guardando il pavimento dai primi gradini della scaletta che sta sotto il Palazzo Boyl: l’aria rarefatta dal calore produce sul suolo singolari aspetti speculari».
La qualità dello scrittore
G. – Posso dirti, Antonio: sono stata chiamata dalla Curia per testimoniare quello che mio marito aveva scritto su fra Nicola da Gesturi, e quello che egli sapeva e sentiva su questo personaggio eccezionale. Per due mattine intere ho subito questa interrogazione, diciamo, e mi assicurano i sacerdoti, i confessori, che hanno preso nota delle mie parole, di aver avuto quasi la possibilità di conversare con mio marito, perché io ero talmente addentro ai suoi pensieri, ai suoi scritti, che questa testimonianza fa già parte degli atti per la beatificazione di fra Nicola da Gesturi.
R. – Permettetemi di aggiungere che tra i tormenti di Alziator era la sua condizione accademica. Alziator era un uomo di altissime qualità, che fra le qualità aveva quella che gli accademici spesso non hanno: aveva la qualità dello scrittore. E quindi era guardato con molto sospetto perché nelle sue mani tutto diventava oro filato, tutto diventava agevole, tutto diventava facile, e gli accademici hanno invece sempre preferito le cose tortuose, le cose oscure, i linguaggi così esoterici e riservati ai pochi addetti ai lavori.
Io non distinguerei fra l’Alziator studioso, giornalista, scrittore; mi fermerei semplicemente alla qualifica dello scrittore che assomma queste qualità diverse dell’indagatore, prima di tutto, e poi del divulgatore, cioè del creatore, del ricreatore di quanto egli andava assimilando attraverso studi assidui.
Castello come roccaforte cagliaritana
Forme antiche di galateo: sono riflessi rinascimentali che si materializzano, insinuandosi senza imbarazzi e quasi di diritto, per continuità storica, nella belle époque. C’è un filone educativo, nelle famiglie e nelle istituzioni, che insegna i modi sociali, come gesti di una rappresentazione teatrale, della vita quotidiana.
«Nella mia infanzia, Cagliari era ancora una capitale del bel salutare ed il Castello ne era la roccaforte.
«A Cagliari si apprendeva l’arte del saluto sin dall’infanzia; per noi ragazzi il baciamano e l’inchino precedevano di molto il sillabario e le ragazzine imparavano, poco dopo il segno della croce, l’abbassare del ginocchio, come se si fosse incespicato di colpo, per salutare la gente di riguardo. Da ragazzi, di stringere la mano non se ne parlava neppure e per quanto sforzi la memoria, non ricordo che mia nonna paterna mi abbia stretto, sia pure una volta, la mano; ma ricordo che me la porgeva in modo che gliela baciassi. Pur con tutta questa scuola, non tutti riuscivano ad imporsi nel bel salutare. Solo pochi erano i virtuosi del saluto. C’era un gentiluomo di antica casata comitale e dalla corta barba che aveva fatto del saluto una vocazione. I suoi inchini erano un’operazione svelta e complessa alla quale partecipavano mani, spalle, occhi, torso. Tutta un ‘armonia di movimenti che univa la classe del gran signore all’agilità del ballerino e alla compunzione di un vescovo.
«C’erano scappellate a tendenza verticale, nelle quali il copricapo era portato a pochi palmi dal suolo, e scappellate ad espansione orizzontale, nelle quali il saluto aveva un qualcosa di ampio e di aulico. Più che un saluto,pareva una perorazione. Alcuni salutavano come se rifacessero gli svolazzi degli album di calligrafia…
«Anche il saluto militare si prestava a sfumature. Ricordo un maggiore che salutava la nonna come la bandiera del reggimento ed un tenente che salutava mia madre piegandosi in maniera che ricordava la chiave di basso, con la mano alla visiera curva e riunita che pareva una brioche.
«Anche gli ecclesiastici avevano un loro stile: alcuni, più modesti, prendevano il cappello a due mani, come un catino da rivoltare, altri lo portavano in avanti e, poi, in basso, sino a scoprire bellissime, lucide fodere color cremisi, con scritte dorate. I saluti dei preti graduati, quelli importanti con i pomponi rossi, erano più misurati e meno vivaci.
«Alle donne non erano concesse variazioni o libertà; sotto la veletta, gli occhi, in distanza, perdevano ogni possibilità di intesa ed il gesto del capo era anonimo come era anonimo il sorriso. Chi oserebbe oggi salutare così? Così si salutano ancora, tra nuvole ed angeli di paradiso, lassù, i Cagliaritani delle età scomparse».
I libri, un patrimonio morale
G. – Egli fu un maestro. Molti infatti rivolgendosi a lui gli avevano dato questo titolo altamente onorifico che io apprezzo ma che egli, nella sua grande modestia, rifiutava, e che tuttavia gli è dovuto per due motivi: per la dignità con cui ha assolto il suo compito di docente e soprattutto per aver insegnato a molti il culto dei libri, che egli considerava come il solo mezzo capace di riunire gli uomini in una superiore conciliazione che spegnesse gli odi e i rancori che egli detestava. I libri che ci costringono a una serena calma, a una riposata meditazione di quei valori dello spirito ai quali siamo educati e che vorremmo salvare dalle insidie dei tempi per tramandarli ai giovani ai quali sono stati destinati, sicuri come siamo che al di là delle nostre esistenze essi rimarranno suggellati nelle loro pagine.
Per questo io considero i libri di mio marito come il più ambìto patrimonio, la sola grande eredità che egli ha lasciato sulla terra. Tutti i suoi libri, quelli pubblicati da lui e quelli messi insieme nell’arco di tanti anni con un amore veramente appassionato, fin dalla fanciullezza, per essere prima distrutti in un attimo nell’inferno della guerra, e poi riacquistati uno ad uno, con eguale intensità di amore e con la rinuncia di ogni altra cosa desiderata. Per questo io penso che, per effetto di un’intima scelta, essi rappresentino una parte vitale della personalità di mio marito che ora, nel suo puro esistere senza tempo, continuerà a vivere nei suoi libri, almeno così io spero.
R. - Il passato in Alziator è sempre vivente, presente, non è mai rimpianto in modo infecondo, in modo sterile. E questo gli permetteva di passeggiare anche nel nuovo e di non sentirlo così ripugnante come talvolta esso appare ai passatisti.
Mi pare che questo sia stato animatore della sua vita. La sua città era stata una certa cosa, poi era diventata un’altra cosa, sarebbe diventata ancora nel futuro un’altra cosa. A lui rimaneva il compito, a lui spettava la funzione di una testimonianza, e questa testimonianza io credo che l’abbia data con altissimi toni poetici e artistici.
Quella casa di via Lamarmora
Ordinarie abitudini in un interno domestico della buona borghesia militare. Esse rivelano la stratificazione gerarchica della famiglia nel più ampio disegno sociale. Sono le età a fissare le posizioni, i diritti ed i doveri di ciascuno.
«In camera sua, mio padre, che trovava quelle levatacce mattutine che sapevano di caserma proprio di suo gusto, arrotava sulla cote un rasoio da barba, di quelli larghi che nascondono la lama nella fessura del manico. A quei tempi non s’usava radersi in bagno e ci si lavava la faccia in camera, in lavamani di porcellana, immensi e istoriati, dentro ai quali troneggiavano boccali che parevano torri. Il bagno non era roba di tutti i giorni e per accedervi erano necessari preparazione e raccoglimento. In quello di casa nostra la vasca era di marmo, aveva piedi leonini ed era tanto grande e solenne che pareva più destinata alla sepoltura di un eroe che a pulizie domestiche. Non aveva scarico né rubinetti e l’acqua veniva pulita e se ne andava sporca con gli stessi mastelli di legno sgocciolanti, portati dalle donne di servizio. Perciò, quando qualcuno faceva il bagno, l’avvenimento era segnalato da una scia di acqua che, dal bagno alla cucina, rendeva più scure le pianelle rosse e pareva una guida da parata. Per la toilette di tutti i giorni dovevano bastare lavamano e boccale e nulla più…
«Ai ragazzi non era concesso il lusso del catino in camera e la loro toilette s’accentrava tutta intorno al rubinetto dell’acquaio. Il catino era concesso soltanto ai grandi ed alle ragazzine.
«Il tramutare del cielo dal color carta carbone a quello grigio, poi cilestrino, ed infine rosato per il primo sole che cominciava a flottare al di là dei Bastioni, tra lo stagno di Molentargius ed il Monte Urpinu, aveva, a casa mia, odore di pane bruciacchiato. Erano le turrareddas (così si chiamavano a Cagliari le fette di pane abbrustolito sulle graticola o sulle braci). Quando il pane era pronto, silenziosa e impeccabile nel suo consueto abito da lutto, la nonna, a tavola, dinanzi ad una caffettiera d’argento con la pancia grossa ed i piedi sottili che noi ragazzi chiamavamo, chissà per quale strana rassomiglianza, “Monsignor de Rosas”, si faceva una delle molte croci della sua religiosissima giornata…
«Di buon’ora, la casa si svuotava in due direzioni: verso su, la nonna per la Messa in Duomo, lungo la via Lamarmora, e con lei mio padre ed uno degli zii, che erano di strada verso la Caserma del Buon Cammino. Rinserrata tra le mantelle dei figli, la nonna, scarna e sottile, pareva Pinocchio scortato dai gendarmi. Verso giù, le donne di servizio, al mercato, ed i ragazzi al “Dettori”».
Un etnografo conosciuto ed amato
G. – Fu ed è rimasto uno dei più importanti cultori di etnografia moderna. Per i contributi scientifici originali da lui dati agli studi delle tradizioni popolari sarde, spagnole e specialmente catalane, che gli valsero nel 1961 il titolo di Socio corrispondente dell’Accademia de Buenas Letras di Barcellona e successivamente l’invito a partecipare come collaboratore della rivista S. Jorge e finalmente a partecipare come ospite d’onore nel congresso internazionale di studi di folclore marinaro tenuto in Portogallo.
Nacque così quell’apparentamento fra la Sardegna e quella che egli soleva chiamare, con trasporto, «la mia seconda patria». E questo apparentamento diede vita, oltre a numerosi articoli e saggi, alla geniale opera Picaro e folklore. I volti della Sardegna e della Spagna si illuminarono così reciprocamente di una intensa luce spirituale. Ed è nell’ambito di queste ricerche che nacque in lui la passione di descrittore dell’isola nativa e di evocatore dei miti della sua città.
Nella sua vasta produzione, bisogna dire però, trovano posto studi che escono fuori dai limiti, della trattazione ispano-sarda, per spaziare in mondi più vasti, non escluso quello della letteratura, come avviene nei saggi di folclore in Petrarca, in Eliot, in Pavese.
R. – Si, direi che questo legame di Alziator con la Spagna era un legame molto forte che ha avuto un’espressione anche attraverso, credo di ricordare bene, una serie di articoli che apparvero sull’Unione Sarda al termine di uno dei suoi viaggi nella seconda patria.
E della Spagna è stato ricordato un personaggio che appartenne alla vita e alla letteratura: il personaggio del Picaro, su cui in particolare si è soffermato direi per una sorta di congenialità. Picaro gli piaceva perché era la libertà, l’indipendenza, l’avventura, e Alziator ha popolato la sua opera di creature, diciamo così, spericolate, tra la virtù e il vizio, fra la norma e la ribellione.
Ci sono altri “picari”, lo dico tra virgolette, nella sua opera, e uno di questi “picari” è un sardo, se “picaro” vuol dire uomo indipendente, vero, anarchico, spaccone, insubordinato. Alziator fu editore anche di opere che erano rimaste quasi sconosciute. In particolare, per esempio, fu editore dell’autobiografia di Vincenzo Sulis, che fu un avventuriero simpaticissimo della storia sarda. E l’aveva promessa, questa autobiografia, nella Storia della letteratura di Sardegna, e poi successivamente la pubblicò. E già nella Storia della letteratura di Sardegna viene fuori questo ritratto che direi è un ritratto che corrisponde all’indole di un uomo libero, che fu l’indole di Francesco Alziator. È un personaggio oso dire congeniale.
Passando ad un altro argomento, Alziator ha anche pubblicato testi importanti. Ad esempio è stato un ricercatore molto attento della produzione dialettale campidanese. I testi campidanesi che sono stati pubblicati da Alziator mancavano assolutamente, erano effettivamente un’esigenza degli studiosi.
Aggiungerei un altro particolare che poi è abbastanza implicito in quello che abbiamo detto finora. Studioso sicuramente del folclore sardo (un’operetta che ho portato con me è intitolata Il folklore sardo), però Alziator ha avuto il merito di far entrare e di imporre in un orizzonte diciamo pure angusto, che credeva e crede tuttora di trovare una sorta di sublimato e di raffinatezza folcloristica soltanto nella Sardegna più interna, Alziator ha avuto il merito di far entrare nella storia delle tradizioni popolari il folclore urbano. Questo è un suo merito preciso, un suo merito direi individualissimo, e veramente ha assegnato al folclore urbano un posto di parità assoluta rispetto al folclore rurale.
Del Dettori fra la grande guerra e il fascismo
Il ginnasio e poi il liceo: l’età si associa, inestricabilmente, a un luogo e ad un giro di compagnie. Le nuove emozioni e le esperienze incontrano un palcoscenico dove sfogarsi in uno psicodramma ora teso ora gioioso.
«La via per il “Dettori” era un delirio di discese e di scale da fare tutte di corsa, soprattutto le scale: quelle con gli archivolti tesi tra il convento delle Cappuccine ed i muracci occhiuti di finestre delle case di fronte, e quelle con i balconi fioriti di Santa Teresa.
«La meta era il busto di Dante che biancheggiò, dalla nostra infanzia fino alla licenza liceale, dietro le sbarre di ferro e all’ombra di acacie, tra il portone della scuola e le scale dell’antica chiesa dei Gesuiti, divenuta ora Auditorium.
«Al di là di quella meta, era il mondo sospirato e temuto del vecchio “Dettori”. L’umidità di un androne a colonne, lastricato in lastroni di calcare come un cortile di scuderia, buio e puzzolente di orinatoi senza acqua, precedeva l’umidità di un altro androne pianellato in bianco e nero al quale s’accedeva per due brevi rampe di gradini in pietra sudicia e lisa. Solo in quel due androni c’era un po’ di spazio, il resto erano aule povere come celle di convento, con porte pesanti e banchi sui quali disegni e scritte schiusero le vie del bene e del male a molte generazioni di Cagliaritani.
«Il “Dettori” era una scuola aristocratica, povera, dura ed estremamente conservatrice. Perfino i bidelli potevano sembrare alti funzionari ministeriali. Ai professori, anche quando erano avanzi di naufragio, sbattuti in Sardegna dalle tempeste ministeriali, non era permesso avere una vita privata e di loro si sapeva tutto, perfino quello che mangiavano e se andavano al cinema o al biliardo. Un’invisibile e fitta rete di spionaggio, alimentata dal pettegolezzo della città di provincia, dalla curiosità degli scolari e dalle chiacchiere delle affittacamere e delle donne di servizio sorvegliava a vista, in casa e fuori, presidi e professori. Si venivano così a sapere particolari crudeli e pietosi di povere famiglie che si studiavano di difendere la propria intimità ammantandola di dignità, come si vernicia una chiglia con l’antiruggine…».
I protomartiri sardi e la ricerca del Dio velato
G. – Certo, le sue opere sono molte e dalla pubblicazione nel 1954 della Storia della letteratura di Sardegna – la sua prima opera importante – fino ai Giorni della laguna, che tu hai citato, e che vide la luce, come hai ben detto, proprio nel giorno della sua scomparsa, nell’arco di più di vent’anni si sono succedute molte opere importanti, che, sebbene siano presenti fra loro discrasie dovute alla diversità di ideologie e di indirizzi, sono tutte concordi sia nella severità della dottrina, che nell’appassionato amore per la propria terra.
Negli ultimi anni, debbo dire che la sua fatica si presenta in modo nuovo, con l’ansia di accostarsi più strettamente alla sua terra per indagarne i misteri della religiosità. Infatti, egli pubblica, nel 1976, l’unico poema sardo, scritto proprio in lingua sarda, Sa vitta et sa morte et passione de sanctu Gavino Prothu et Januariu.
Sembra che nei volti dei tre martiri sardi egli vada cercando il suo Dio velato, perché quest’opera precede di qualche mese soltanto la sua scomparsa.
Le sue opere postume, di cui ha già parlato il caro Antonio, cioè L’Elefante sulla Torre e Attraverso i sentieri della memoria, si propongono di far rivivere l’autore attraverso una raccolta ordinata e organica delle sue pagine migliori. Nella prima, L’Elefante sulla Torre, egli compie il suggestivo disegno del volto della città, indagata nelle bellezze delle sue forme, dal primitivo emergere dell’ossatura di calcare dorato al successivo comporsi dei caratteri dei diversi quartieri, e finalmente al coronarsi di aureole di luci nei tramonti che vaporano dagli alberi o dagli specchi delle acque del mare e delle lagune.
I motivi ricorrenti della nostalgia e del dolore esprimono l’ansia di scoprire le reali dimensioni del suo stesso spirito perennemente conteso tra la contingenza del presente e l’eternità del passato, visto attraverso il motivo purificatore della memoria. Perciò, quella che vorrei fosse una sua biografia è intitolata proprio Attraverso i sentieri della memoria.
Certo, devo aggiungere, è un grave motivo di rammarico per me il timore di non poter pubblicare l’ultima delle sue opere rimaste incompiute, quella che ha il titolo di Storia della cultura in Sardegna. Quest’opera avrebbe dovuto constare di dodici capitoli. Mio marito ne ha portato a termine solo otto, ma purtroppo molti di questi capitoli sono incompleti oppure compromessi da lacune difficilmente colmabili. Costituiranno perciò forse dei saggi staccati, non so, certo non un’opera organica e completa. E questo, lo ripeto, è per me un motivo di grande rammarico.
R. – Sì, il contenuto di questa “storia della cultura”, che è un’opera nell’impostazione originalissima, doveva essere illustrato in una serie di conferenze proprio nei giorni che hanno preceduto la sua scomparsa. Quindi io, in particolare, che ho avuto un certo posto nell’organizzazione di quelle serate che poi non si sono tenute, ricordo quest’opera con notevole rimpianto.
Aggiungo che colmava certamente una lacuna, quest’opera: rispondeva certamente a un’esigenza. Si sa per esempio che è stato costituito un istituto editoriale che ha il particolare compito di pubblicare gli autori che hanno contribuito di più a definire le condizioni politico-sociali-civili della Sardegna. Si comincerà da Lucifero e si arriverà ai contemporanei. È un’opera che è appena abbozzata e però si deve dire che Alziator l’aveva precorsa in qualche modo già tracciandone gli itinerari, la sintesi: la storia della cultura in Sardegna, cioè come si è definita la sardità dei più remoti tempi fino ai giorni nostri. Questo era il tema che Alziator, con anticipazione notevole, aveva affrontato nell’opera a cui abbiamo accennato poco fa.
L’addio alla nonna, la città estiva
Un lutto colpisce gli affetti di casa. Ma ancora una volta ad imporsi è la necessità della pubblica rappresentazione. E poi però ecco altre scene, queste luminose, contro la cupezza castellana del funerale della vecchia altera e sempre rispettata. È il mare a raccontare l’estate dei cagliaritani. Dopo Giorgino verrà – autentica anticipazione del Paradiso – il Poetto: quando la luna si frantuma nel mare di Sant’Elia e l’adolescenza già quasi volge alla prima giovinezza.
«La nonna ci aveva lasciati. Senza strepito, dignitosamente. Rivestita del suo consueto abito da lutto, nella bara, aveva risalito la via Lamarmora, con il rosario in mano, come quando saliva per la Messa, ed in Duomo il canto dei preti ed il fumo dell’incenso erano stati i soliti, o press’a poco. I ragazzi non capiscono bene il Dies Irae.
«La nonna teneva insieme la grande famiglia; andata via lei, ognuno se ne andò per conto suo e solo le zie restarono nel palazzo della via Lamarmora…
«Ad agosto, spesso, c’era il mare. La gioia piena di un mare innocente e schiumoso come se ci si fosse fatta una saponata, tra i frangiflutti del Molo di Levante, dove si imparava a nuotare con un calcio nel sedere dato dai più anziani, e dove, in ogni masso di calcare, colonie di molluschi offrivano un pasto da paradiso terrestre…
«C’era un altro mare, quello sciccoso del Lido, bordato di sabbia, di capanni e di gente, con la rotonda verniciata di bianco e di blu, che pareva il ponte di passeggiata di un transatlantico. Alla sera, in quella rotonda, si desiderava di essere grandi per poter ballare alla luce di quelle lampade che, con il loro paralume di stoffa colorata, potevano sembrare lo scialle delle campidanesi per la festa di Sant’Efisio, ma che a me sembravano di una eleganza insuperabile. I riflessi bianchi della luna in pezzetti sul mare di Sant’Elia, come una lettera d’amore che delude, ed i violini dell’orchestra, a volte, bisogna pure che lo confessi, mi sembravano assai più belli dei classici che si leggevano al “Dettori”».
Per una storia della cultura in Sardegna
G. – Nell’introduzione all’opera mio marito afferma che lo scopo della sua ricerca è quello di accertare cosa sia rimasto delle singole componenti della storia della cultura in Sardegna, e spiega che per raggiungere risultati validi scientificamente prenderà in esame anzitutto l’ambiente fisico nei suoi elementi geologici, geografici, più interessanti, per passare successivamente alla situazione dell’isola in rapporto all’ambito mediterraneo, e poi all’ambito mediterraneo occidentale. Compiuta questa premessa orientativa, che si svolge in diverse pagine, egli si esprime con le parole che potrei leggere prendendo il testo:
«Come ogni uomo nasce con il suo destino biologico che lo determina e lo condiziona per tutta l’esistenza, così ogni terra nasce con il suo destino geologico e geografico. Una stretta interdipendenza lega l’uno all’altro con il rapporto uomo-ambiente. Il rapporto uomo-ambiente è un’interazione di millenni durante i quali sul corpo e sulla psiche umani sono andati formandosi infinite esperienze che si sono risolte a livello anatomico e fisiologico in mutazioni e adattamenti ben riscontrabili fisicamente e a livello psicologico in sedimentazioni nell’inconscio e in un particolare habitus di reattività.
«Sull’ambiente poi l’uomo ha, con tutte le sue possibilità, agito personalizzandolo secondo le sue necessità con un’azione sempre profonda e evidente. Nell’interscambio uomo-natura e natura-uomo, che è in sostanza il punto centrale di quella che la scienza aulica chiama storia, comincia in Sardegna assai tardi rispetto alla più parte delle altre terre. Ma tanto tarda è la presenza dell’uomo sulla terra sarda quanto precoce è l’apparizione di questa terra alla luce del sole. Infatti, in un tempo lontano sette o otto milioni di anni affiorava già dal grande mare paleozoico il nucleo del Sulcis-Iglesiente.
«Ma queste sono cose abbastanza note. Quello che invece pochi conoscono sono i risultati di indagini recentissime e tuttora in corso sulle vicissitudini dell’isola sarda. Secondo queste ricerche condotte da geologi italiani, americani, francesi e belgi, durante l’era terziaria la microplacca formata dal massiccio sardo-corso si sarebbe staccata dalla penisola iberica e dal sud della penisola francese press’a poco dove oggi si apre il Golfo del Leone e, dopo una rotazione in senso antiorario di circa 45 gradi, si sarebbe fermata dove si trovano ora Corsica e Sardegna. Se si tiene conto dell’indiscutibile interazione suolo-uomo a livello geomagnetico ci si rende immediatamente conto dell’importanza di questa scoperta».
In realtà c’è da rammaricarsi che l’opera non sia stata portata a termine. Però io credo che quello che se ne possiede, con una presentazione adeguata fatta da competenti, possa affrontare la pubblicazione. E formulo quest’augurio, che credo sia non un omaggio ma un riconoscimento doveroso, seppure postumo, dello studioso così quale era Francesco Alziator.
La conetta e le suggestioni dell’età
«La voglia di amare, anzi di amore. Pulsioni dell’età compresse in casa, in libera esplosione e fuori. Con gli azzardi dell’immaginazione che danno spessore alle avventure impossibili.
«Il passaggio dal ginnasio al liceo mi portò anche i primi pantaloni lunghi ed infine camicia abbottonata al collo e la “conetta “: così chiamavamo allora il cappello a cencio. La “conetta” era una dignità che andava difesa, perché contro di essa si appuntavano le sconettadas, le pacche dei compagni che non ancora non la portavano, e soprattutto dei paesani…
«La “conetta” era per noi una sorta di patente di primo grado, quasi i galloni da ufficiale della vita mondana: era un farci credere uomini. In realtà, eravamo ancora poco più che mocciosi, mocciosi con voglie disperate da donna incinta. Le nostre voglie erano le ghette, le sigarette col bocchino dorato e le donne. La nostra voglia di donne era quanto di più innocente si possa immaginare, perché tutta fatta di parole, come un minacciare con anni scariche, un credere di poter scrivere sulle nuvole usando un mozzicone di matita. Altro che donne! I più vecchi di noi avevano sedici o diciassette anni, e quali donne poi? Partivamo più per sentito dire che per altro, costruendo castelli di bugie, nei quali le visite, mai fatte, a luoghi di malaffare e perfino le malattie veneree che ci attribuivamo erano il solo sfogo agli ignoti fermenti che cominciavano a ribollire in noi.
«Parlavamo dunque di donne: a scuola, nell’andare avanti e indietro sui marciapiedi della via Roma, dovunque, perfino nelle ore dei compiti in classe. Ma cosa fosse una donna nessuno lo avrebbe potuto dire per esperienza. Ognuno di noi si attribuiva immaginarie avventure, combinando nomi a noi noti e vicende accadute ad altri. Figli di una vita provinciale, ipocrita e dignitosa, avevamo però già costruito un crudele, tremendo muro che divideva le donne in oneste e no. Le oneste erano le donne di casa nostra e la fanciulla casta, pura ed oca che ognuno sognava di portare all’altare, disoneste erano tutte le altre…».
Un intellettuale apostolo della tolleranza
R. —Nel corso della chiacchierata che abbiamo fatto – credo che ci siamo avvicinati a lui con umiltà, con amicizia, con devozione affettuosa – è emersa ad un certo punto una parola sulla quale mi piacerebbe tornare: la parola tolleranza.
Se Francesco Alziator ha avuto, in quel mistero che era in lui come in tutti gli uomini, una virtù, questa virtù era la tolleranza. In tempi proprio di intolleranza crediamo veramente di ricordare un grande cittadino, sottolineando questo aspetto della sua personalità.
G. – Ti ringrazio veramente, Antonio: ma soprattutto mi conforta il pensiero che tu potrai aiutarmi per la pubblicazione anche parziale di questa opera che potrà magari costituire una serie di saggi, ma che non vorrei tenere nell’ombra.
Ho avuto quasi il ritegno di riprenderla in mano: è tutta manoscritta eccetto la prefazione che io battei a macchina, come facevo sempre – sono stata la sua dattilografa – ma tutto l’altro è ancora assolutamente inedito e manoscritto. E io vorrei riportarlo alla luce. Mi sembrerebbe, come ho fatto finora, di far rivivere ancora tra noi mio marito, di cui io non solo sento la presenza, ma credo anche tutti gli amici cari, come te Antonio.